C.I.R.C.E., con la definizione di Pedagogia Hacker intende evidenziare il valore pedagogico, in un’ottica di pedagogia critica, delle competenze e attitudini che caratterizzavano i primi computer club e gli hackerlab, terreno culturale in cui alcuni di noi hanno mosso i propri primi passi.
Formazione dopo formazione ci siamo resi conto di come questo tipo di approccio, critico e creativo, può essere una base utile per ripensare la formazione all’utilizzo consapevole degli strumenti digitali, e in generale per ispirare modelli didattici e di apprendimento alternativi.
Possiamo, generalizzando il concetto di hacker, pensare che un tale approccio pedagogico si fondi su alcuni elementi di base:
– Approccio curioso e problematizzante rispetto al mondo e nello specifico alla tecnologia
L’hacker è un individuo che si pone delle domande, problematizza la realtà intorno a sè. Quando ha individuato un problema che gli sembra interessante inizia a lavorare per cercare di risolverlo. E’ una persona profondamente curiosa, appassionata di tecnologia; il suo primo desiderio di fronte ad un oggetto tecnologico è quello di smontarlo, vedere come funziona, casa c’è dentro. Per lui nessun artefatto è obsoleto perché sa che ogni cosa può essere re-inventata, ri-combinata, ri-adattata ad usi anche molto lontani da quelli per cui è stata creata.
– Apprendimento come piacere
Ciò che muove l’hacker al continuo apprendimento è il piacere stesso di apprendere. Gli hacker programmano con entusiasmo, amano affinare le loro competenze e mettere a frutto la loro intelligenza. Ogni problema diventa una sfida, un’occasione appassionante per mettersi alla prova. Il motivo primario che lo spinge ad apprendere e faticare non è la possibilità presente o futura di cospicui guadagni, è il piacere di superarsi, di creare, il divertimento di scoprire soluzioni funzionali ai problemi percorrendo strade non ancora battute.
– Apprendimento come frutto di ricerca ed esperienza personale, non inquadrabile in percorsi di studio ufficiali
La formazione degli hacker segue principalmente canali non ufficiali, è un percorso di ricerca personale che parte anzitutto dall’ hands on, il “metterci le mani sopra”.
L’hacker sceglie autonomamente di volta in volta i propri obiettivi di apprendimento e auto-organizza proprio tempo di lavoro-studio non imbrigliato in un sistema di rigidi dispositivi di apprendimento e titoli riconosciuti.
– La dimensione sociale del sapere e la conoscenza come bene comune
Ogni hacker sente il dovere di far circolare ciò che ha imparato. Considera la conoscenza un bene collettivo quindi ritiene fondamentale metterla a disposizione di tutte le persone a cui potrebbe essere utile. La conoscenza è vista come un bene che si può costruire solo collettivamente e non può essere arginata da leggi che la imbriglino.
Questi elementi evidenziano un modello pedagogico ben preciso, per molti versi lontano da quello mainstream. I percorsi di apprendimento sono personalizzati e non basati su programmi standard imposti per tutti, i titoli di studio perdono di significato. Gli hacker non apprendono per aspirazioni di alti guadagni, o per arricchire un curriculum apprezzabile nel sempre più esigente mercato del lavoro. Ciò che muove l’apprendimento è la passione e il riconoscimento da parte della comunità dell’utilità del proprio lavoro e delle proprie scoperte, il desiderio di capire come funziona il mondo per poterlo migliorare. Grande valore ha la dimensione collaborativa e dialogica di apprendimento tra pari.
Un approccio pedagogico controculturale
Si tratta quindi di una prospettiva valoriale, formativa, pedagogica, fortemente in contro-tendenza con l’istituzione scolastica e accademica attuale dove utilitarsimo, trasmissione depositaria dei saperi, programmi rigidi, appiattimento della formazione alle richieste del mercato, copyright, limitazione della dimensione critica, sono gli ingredienti frequenti.
dal mio contributo per il testo di Ippolita “Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale”, Meltemi, 2017
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