In uscita per Eleuthera un libro di riflessioni e attività pratiche per un approccio critico e creativo alle nuove tecnologie
in uscita per Eleuthera, novembre 2024
I dispositivi digitali limitano i nostri spazi di autonomia, ci sottraggono tempo ed energie vitali, da persone ci riducono a profili. In un panorama del genere è sempre più urgente sviluppare strumenti educativi e auto-educativi per aprire nuovi spazi di consapevolezza e libertà. La proposta della p/edagogia hacker/ è di indagare nel profondo la nostra relazione con la tecnologia, guardare dietro lo schermo, riconoscere le dinamiche oppressive e sperimentare pratiche di immaginazione. Si tratta di un approccio critico e creativo, fondato su attivazioni in cui gli schermi incontrano i corpi, la tecnologia è interrogata anche attraverso l’arte, il teatro, la poesia, dove il gioco torna ad essere spazio di emancipazione. Un testo per educatori, insegnanti, psicologi, tecnici, artisti, che sentono l’urgenza di stimolare ad una relazione ecologica con il digitale, ma anche per chiunque sia alla ricerca di pratiche concrete per de-colonizzarsi e abitare la tecnologia con un atteggiamento vitale e conviviale.
E’ uscito per le “Matite di Animazione Sociale” il libro frutto di questi anni di lavoro educativo nel contesto di Anno Unico
Viviamo
un mondo precario, performativo, narcisista, digitalmente
iper-stimolato, in cui la parola futuro non è più una
promessa ma una minaccia, sentiamo sulla pelle il collasso
ambientale.
Stanno male gli adolescenti, e (spesso) stiamo
male anche noi; e tra le due parti si fa sempre più fatica a
costruire dialogo.
Cosa significa crescere in un contesto
simile? Ed essere operatori?
Fare
educazione e scuola oggi non può prescindere l’entrare in contatto
con queste nuove sofferenze, sentirle sulla pelle, dargli un
nome, ricondurle alla loro dimensione sociale e politica e non solo
individuale, e poi cercare insieme agli adolescenti spiragli di
vita, territori di creazione di senso e meraviglia.
Per
fare questo siamo chiamati a contaminare e lasciarci contaminare:
lo sguardo pedagogico e psicologico devono incontrare quello
dall’arte, della narrazione fantastica, della
tecnologiacritica, del
corpo, trarre nuova linfa dai linguaggi e dalle
culture giovanili, abbracciare gli spazi di resistenza e
costruzione di senso già patrimonio dei nostri adolescenti.
Un libro che contiene tanti strumenti molto pratici per la conduzione di gruppi di «nuovi adolescenti», propone modalità per allestire setting e attività, ma ha l’ambizione anche di contribuire ad aprire a nuovi visioni, a quei salti di immaginazione che riteniamo sempre più urgenti.
Il mio contributo alla pubblicazione “Keep it real, comunità in cerchio”. Per chi ogni tanto mi chiede come mi sono ingaggiato in questo percorso tra hip-hop e educazione, perchè è nato il libro e come ora prosegue la cosa
Più di anno fa usciva la pubblicazione Keep it Real – Comunità in cerchio, che sanciva ufficialmente l’avvio di una rete nazionale di artisti, educatori, ricercatori, che si occupano di hip-hop based education. Per me è stata l’occasione di ripercorrere un pezzo della mia storia, il mio personale incontro con questo approccio educativo ma anche con l’hip-hop in generale. Lo rimetto a disposizione qui. Per chi ogni tanto mi chiede come mai mi sono ingaggiato in tutto questo.
Qualcosa di dirompente
Ho scoperto l’hip-hop alla fine degli anni ottanta, attraverso un certo Jovanotti che cantava gimme five, poi in un attimo sono arrivato ai Run Dmc, ai Public Enemy e a tutto il resto. Era qualcosa di potentissimo e incredibilmente dirompente: finalmente avevo una musica per potermi opporre praticamente a chiunque, ai genitori ma anche ai pari: perfino gli amici punk dicevano “…ma questa non è musica”! Era il miglior alleato per un adolescente in lotta contro tutto e tutti. E poi c’era la dimensione sociale e politica; sono cresciuto in una famiglia sensibile ai temi sociali, però il loro approccio mi sembrava vecchio, fiacco, avevo bisogno di slogan forti, di “remixare” quella sensibilità in qualcosa che fosse mio, che desse fuoco alle mie urgenze. Ecco che allora nell’attitudine di Malcolm X e del Black Panther Party rivedevo il mio desiderio di lotta alle ingiustizie che percepivo nel mondo intorno a me, si alimentava l’afflato politico, e allo stesso tempo nasceva uno sguardo e una consapevolezza nuova rispetto alla distorsione dell’immaginario creata dal colonialismo e dal razzismo strutturale nella nostra società.
Nascono così anche i miei primi versi zoppicanti sul tempo ma che avevano l’urgenza di essere urlati al mondo. E’ poi quando Assalti Frontali escono con “Terra di nessuno” che mi rendo conto che con le rime oltre che parlare del “fuori” – della politica, della società – si può parlare anche del “dentro”: delle emozioni, delle sofferenze personali. Scopro così che si potevano usare le parole per costruire immagini che possono curare. Da quel momento la scrittura per me rimarrà sempre una forma di diario terapeutico, cogliendone sempre di più il valore.
Hip Hop per incontrare gli adolescenti. Ai tempi dell’università divoro tutti i testi sociologici e storici sull’hip-hop che riesco a trovare: voglio capire, approfondire, fare teoria; è quello anche il periodo in cui inizio a lavorare come educatore e docente nella formazione professionale scoprendo che dalle mie ferite adolescenziali avevo ereditato una sensibilità che poteva essere spazio di dialogo con i ragazzi, che mi veniva naturale “vibrare insieme a loro”. Hip-hop e lavoro formativo rimangono però dimensioni parallele, anche perché gli adolescenti in quel momento ascoltavano tutt’altro, techno-gabber principalmente, il rap non era certo cosa loro. Poi improvvisamente succede qualcosa che mi colpisce: comincio a notare sempre più spesso i ragazzi calarsi grandi dosi di rap attraverso le loro cuffie, e qualcuno lo sorprendo addirittura a provare a scrivere le proprie strofe. Cosa era successo? Era uscito il primo disco, anzi mixtape, di Mondo Marcio, che raccontava senza filtri di vita in periferia, di assistenti sociali, di tensioni familiari, con una forza mai vista in Italia. Ecco che i ragazzi “ai margini” con cui lavoravo si erano subito sentiti rappresentati, e intuivano che quella modalità comunicativa poteva essere il canale per poter dire quello che fino ad allora sembrava non-dicibile.
Mi rendo conto così che ci sono spazi interessanti di incontro, e la mia passione per l’hip-hop inizia a convergere con il mio lavoro di educatore. All’inizio propongo loro semplicemente di ascoltare insieme i testi, riflettere sui contenuti, sulle risonanze, oppure mi metto a disposizione per registrare le loro composizioni e, con chi lo desidera, azzardo anche qualche laboratorio di scrittura. In questo modo di passo in passo, prove ed errori, di intuizione in intuizione, creo qualche strumento che nel tempo si evolverà sempre di più, andando a sviluppare un mio approccio personale all’“hip-hop based education” in cui si contaminano gli strumenti e gli sguardi formativi parte del mio bagaglio: i metodi d’azione di scuola moreniana, la media education “hacker”, i metodi narrativi e autobiografici, l’approccio freiriano e, su tutto, l’apprendimento esperienziale che stavo approfondendo in quel momento con Piergiorgio Reggio, docente universitario e collega di Metodi. Quelle metodologie si sposavano perfettamente con le pratiche hip-hop; mi si palesava l’idea, come avrò modo di scrivere in seguito, che quei ragazzini del Bronx avessero avuto delle profondissime intuizioni pedagogiche, avessero trovato uno strumento raffinatissimo per prendersi cura di sé in un periodo inquieto. Mi accorgo che la cosa funziona, succedono cose speciali con i ragazzi, un po’ magiche, e io sono assetato di nuovi stimoli, voglio approfondire: cerco di recuperare quello che già era stato scritto all’estero su educazione e hip-hop, poi volo fino in Brasile, a Recife, a vedere come rap, graffiti, breaking, djing sono utilizzati come strumento di empowerment con i ragazzi di strada delle favelas, ispirati dal paradigma della pedagogia del desiderio. Nello stesso periodo scopro la scena dei poetry slam attraverso Saul Williams, mi dirigo allora alla volta di NYC, al Nuyrican poets Cafe, e al ritorno con alcuni amici cominciamo ad organizzare quello che probabilmente è il primo slam in Italia ad iscrizione libera e cadenza periodica: lo Scighera Poetry Slam. Inizio così anche ad arricchire i miei laboratori con la scrittura poetica e slam, spazio di ricerca che darà molta linfa alle mie pratiche.
Un Libro?
In tutto questo periodo non ho mai smesso di annotare i miei appunti e provare ad organizzarli in percorsi di senso. La scrittura, anche teorica, è sempre stata per me lo spazio per dare forma al mio pensiero, uno strumento per imparare da quello che faccio e che mi attraversa prima ancora che per raccontarlo agli altri. Ecco, quindi, che nel giro di qualche mese le idee iniziano a organizzarsi e le connessioni, le intuizioni a cui avevo dato forma si concentrano in un percorso di senso in un primo articolo pubblicato dalla rivista Animazione Sociale. Non sapevo nemmeno se lo avrebbero pubblicato, e invece è stato ben accolto e soprattutto è stato bello ricevere mail con ritorni interessanti dai lettori. Tra gli altri ricordo con molto piacere quella di A.N.D. delle Menti Criminali, che oltre che rapper militante mi raccontava di occuparsi di adolescenti: si iniziavano a creare inediti ponti, dialoghi, connessioni. Il materiale però – gli appunti, le sperimentazioni, la letteratura, le riflessioni – era tanto, e nel tempo cresceva, è stato così abbastanza naturale che quell’articolo “esplodesse” in un libro, scritto in due anni nei momenti liberi del lavoro faticoso e bello con i ragazzi in dispersione scolastica.
Pensavo che ci fosse la necessità di portare uno sguardo situato che aveva punti in comune ma anche differenze con l’esperienza d’oltreoceano. Non sapevo cosa aspettarmi, ero solo felice che Piergiorgio Reggio, da cui avevo imparato tanto, avesse creduto nel progetto un po’ folle. Volevo solo che il libro potesse avere la solidità teorica per essere riconosciuto nel contesto accademico e allo stesso tempo avesse street credibility conferita dai b-boy come me. In copertina solo la mia tag “Skrim” un po’ a dire “qui ci sono io”, ma anche “L’hip-hop è questo: re-inventare il sé, imporsi e prendersi cura tracciando nuove forme, caosmosi stilosa”.
Il libro così ha iniziato a girare, mi ha portato a incontrare tanti contesti differenti, dalle cooperative alle aule universitarie, fino ad Cambridge, dove ho avuto la fortuna di partecipare al primo convegno europeo di hip-hop studies confrontandomi con ricercatori da tutta Europa ma non solo, in un contesto surreale di ricercatori-b-boy che invadevano e de-sacralizzavano quelle aule austere.
L’uscita del libro però mi porta soprattutto a conoscere tante persone che mi scrivevano perché come me erano hip-hoppers ma anche educatori, e volevano confrontarsi, raccontarmi la loro esperienza, o semplicemente entrare in contatto. Su tutti è stato bello rincontrarsi con Musteeno, caro amico e uno dei più forti Mc italiani, che proprio in quel momento aveva cominciato a proporre laboratori con adolescenti e – da buon visionario quale è – era già al lavoro per dare vita a Street Art Academy, un’associazione completamente dedita all’educazione hip-hop. Proprio nel contesto di S.A.A. con lui e dj Vigor degli OTR di lì a poco abbiamo creato una performance di spoken word, rap e video mixati live per raccontare in giro, in modo fortemente evocativo, il valore educativo di questa cultura.
Ancora in ricerca
Oggi il mio lavoro educativo con l’hip-hop si concentra nel contesto dell’Anno Unico, la “scuola per ragazzi che non vanno a scuola” di cui mi occupo da tanti anni. Quando c’è il “gruppo giusto” conduco veri e propri laboratori di rap, quello però che caratterizza il mio lavoro più recente è l’inserimento dell’hip-hop based education in attività non prettamente focalizzate sull’hip-hop. Continua e si amplia inoltre il mio lavoro di consulente e di formatore per professionisti che si occupano di adolescenti, per i quali l’hip-hop rimane uno spazio molto generativo sia per comprendere le nuove generazioni sia per affinare strumenti di intervento. Se devo individuare un paio di spazi di ricerca nel lavoro diretto che sto in particolare portando avanti in questo momento direi:
Testi e video come spazio di mediazione e problematizzazione.
La musica rap, nelle sue diverse declinazioni, è la voce più importante delle nuove generazioni, in cui trovano frammenti della loro vita, delle emozioni, desideri, frustrazioni. Si tratta di testi talvolta carichi di contenuti negativi, contraddittori, emancipanti e oppressivi insieme, voci di libertà e voce del mercato. Il mio intento su questo piano è di affinare tecniche riflessive e dialogiche per aiutare i ragazzi a dare voce al loro mondo interiore e sociale attraverso la focalizzazione di alcuni elementi particolarmente risonanti contenuti nelle canzoni e nei loro video preferiti e poi, muovendo da questo, costruire con loro percorsi di senso, aprire a nuove domande, a nuovi significati. Si tratta di un approccio fortemente freiriano di ricerca di “parole generative”: problematizzare la realtà ricercando domande autentiche da indagare in una dimensione comunitaria.
“Rompere il copione”: la scrittura come ricerca
Per quanto riguarda le attività prettamente di scrittura mi sto concentrando a far sì che comporre rime sia per i ragazzi un’occasione di ricerca, possa aprirli a nuove conoscenze di sé, portare il non scontato, sorprendersi anche di fronte a sé stessi. Consegnare loro un foglio bianco non significa per forza conferire la libertà di scrivere quello che si vuole; ciò che si rischia di imporre non è tanto la spontaneità quanto il copione stereotipato interiore frutto della propria narrazione abituale e spesso di una “colonizzazione mainstream”: modelli precostituiti, contenuti standardizzati, modalità sempre identiche a sé stesse di vedere le cose. Attraverso specifiche tecniche di scrittura in continua evoluzione cerco di accompagnare passo a passo un lavoro di ricerca interiore, decostruzione e ricostruzione, mantenendo insieme l’attenzione per allestire un setting sicuro e “sensibile” dove possano essere accolte “parole nuove” per conoscersi, riconoscersi e impattare nel mondo.
Tessere la tela per contaminarsi, apprendere e provocare
E’ stato bello nel tempo scoprire come, in parallelo al mio percorso, altri stavano portando avanti qualcosa di simile, in molti intuivano il valore educativo dell’hip-hop e si sperimentavano, ognuno a partire dalle proprie risorse e ricchezze; alcuni di questi addirittura erano poi i miei rapper italiani preferiti, e scoprirsi in ottima compagnia non ha potuto che darmi grande energia. Credo ora che il lavoro di rete in cui far incontrare e dialogare tutte queste esperienze, di cui questa pubblicazione è una testimonianza, sia qualcosa di straordinario. Il lavoro educativo con l’hip-hop non è un utilizzo strumentale di una cultura di strada per “aggiustare” adolescenti in difficoltà, è parte integrante di questa cultura, che fin dalla nascita si pone come strumento di crescita, di cura, di insegnamento. La diffusione concertata di queste pratiche nel nostro paese diviene allora la valorizzazione di un aspetto dell’hip-hop fondamentale, è porsi come parte integrante della scena, in tensione, opposizione e dialogo con la dimensione più street e commerciale. Si tratta forse una delle cose più belle e interessanti accadute all’universo nostrano della doppia-h negli ultimi anni. Creare una rete vuole dire porsi “sulla mappa” in maniera più incisiva, ma vuol dire soprattutto per noi essere spazio di scambio di esperienze e di tecniche per migliorare, crescere noi stessi; una grande crew in cui each one teach one, come dicevano i pionieri. È importante che ognuno mantenga le proprie particolarità date dalla propria storia e dal proprio contesto, generando apprendimento senza lo scopo di istituire modelli che non possono che appiattire la ricchezza delle differenze. Dobbiamo anche stare attenti a non istituzionalizzarci troppo, rimanere con un piede nella strada e uno nelle istituzioni, rimanere “sporchi” come “sporco” è l’hip-hop. Solo così potremo continuare a essere fonte di provocazioni vitali, per noi stessi e per gli altri.
Un sogno che diventa realtà, è nata Keep it real, comunità in cerchio, la rete che riunisce tutte le più importanti realtà nazionali che utilizzano l’hip-hop come strumento educativo. Un cerchio in continua crescita a cui sono felice di portare il mio contributo. Qui il lancio stampa ufficiale, attingendo dalle parole del sito di daSud, realtà che più di tutte ha messo le proprie energie per avviare questo progetto.
Presentata a Roma la prima rete in Italia sull’educativa hip hop e la sua pratica in contesti di marginalità sociale: i primi 14 contributi e le esperienze da tutta Italia raccolte e diffuse online nel secondo volume della collana “I Quaderni di daSud”
Roma, Napoli, Palermo, Bologna, Milano, Siena. C’è tutto un universo di professionalità artistiche legato alla cultura hip hop che da tempo opera all’interno di associazioni ed enti del terzo settore per sviluppare, realizzare e attuare progetti che hanno come fine ultimo la prevenzione e la riduzione del disagio di minori e adolescenti che vivono situazioni di marginalità sociale nelle scuole, nelle periferie e nelle carceri del nostro Paese.
A mappare per la prima volta le loro esperienze, i processi, le buone pratiche e i vari punti di vista è Keep It Real. Comunità in cerchio: la prima rete in Italia che unisce e riunisce rapper, artisti, educatori, enti del terzo settore, docenti, università e addetti ai lavori attorno all’hip hop come strumento educativo centrale nella rigenerazione e ricostruzione di identità, cultura e comunità nelle fasce giovanili più fragili.
Promossa da Associazione daSud e sostenuta da Fondazione Alta Mane Italia, la rete è stata lanciata e presentata negli spazi di ÀP, l’Accademia Popolare dell’antimafia e dei diritti, ospitata all’interno dell’IIS Enzo Ferrari di Cinecittà-Don Bosco a Roma, insieme all’omonima pubblicazione “Keep It Real. Comunità in cerchio”: un’opera corale e collettiva che raccoglie 14 contributi ed esperienze, diffusa online da daSud come secondo volume della collana “I Quaderni di daSud” sui percorsi e le esperienze educative che conduce nelle scuole della periferia est di Roma che vedono l’hip hop tra i linguaggi espressivi più utilizzati.
“L’anno appena trascorso – ha spiegato Pasquale Grosso, vicepresidente daSud e curatore della pubblicazione –
è stato caratterizzato da una narrazione mediatica legata a fatti di
cronaca aventi per protagonisti giovani trapper. Dalla rivalità tra gang
alle aggressioni e alle violenze di gruppo, uno spaccato del Paese
reale e delle sue difficoltà oggettive in determinati contesti urbani e
periferici, raccontato come un fattore legato al mondo della musica e al
suo immaginario. Una mezza verità e al contempo un approccio poco
incline ad un dibattito reale sulle cause e sull’hip hop come strumento,
metodo, antidoto e cura per un tessuto socio-culturale lacerato e
sempre più ai margini. Di qui l’urgenza di avviare un confronto di
settore sincero e la necessità di dare vita a una rete nazionale che si
faccia promotrice e portavoce di un lavoro educativo complesso e
faticoso, basato sull’Hip Hop, che va riconosciuto, legittimato e
sistematizzato”.
Francesco “Kento” Carlo, Mirko “Kiave” Filice, Luca “Lucariello” Caiazzo, Luca “Militant A” Mascino, Davide “Skrim” Fant, Christian “Picciotto” Paterniti, Manuel “Kyodo” Simoncini, Antonio “DonGocò” Turano, Marco “Zatarra” Ottavi, Andrea “Musteeno” Gorni, Daniele “Diamante” Vitrone, Lanfranco “Moder” Vicari, Vincenzo “Oyoshe” Musto: sono solo alcune delle personalità della scena hip hop italiana
che da anni portano avanti questo tipo di progetti in contesti di
marginalità e che hanno aderito fin da subito alla neo rete insieme alle
realtà sociali all’interno delle quali operano (CCO – Crisi Come Opportunità, CIES Onlus/MaTeMù, Polo musicale Maestri di Strada, Lo Stato dell’Arte, Street Arts Academy, Associazione Tato, 4 Raw City Sound).
“Siamo un gruppo di rapper e di arteducatori – chiarisce il portavoce della rete Antonio Turano, in arte DonGocò –
che ha deciso di scendere in campo perché di fatto lo siamo già da
tempo, ognuno nelle proprie realtà, in modo individuale e per iniziativa
spontanea, consapevoli delle potenzialità aggregative, educative e
inclusive che ha l’hip hop. In tutti i contesti di marginalità l’hip hop
ha questa capacità sociale di (re)includere tutto ciò che è divergente e
deviante. È uno strumento che ha il linguaggio del disagio e della
devianza e che al contempo ha la capacità di includere: un paradosso
potente, soprattutto per i risultati molto forti che permette di
raggiungere. La nostra comunità in rete vuole essere pertanto una
rappresentazione virtuosa di come si possono condividere pratiche,
esperienze, metodi e di come si può diventare più grandi, forti e
incisivi nell’azione quotidiana”.
Da qui ai prossimi mesi, la rete lavorerà per la costruzione di un sito web dedicato e alla calendarizzazione di vari incontri sparsi sul territorio nazionale
per raccontarne la nascita e la formazione, diffondere consapevolezza e
provare a intercettare anche altre realtà che ne condividono
l’approccio e che potrebbero trovare in Keep It Real un gruppo di riferimento. Oltre poi ad altre attività e iniziative che verranno definite man mano, la rete si dedicherà alla scrittura di un manifesto per meglio delineare i punti cardine che ne caratterizzano il movimento nazionale.
6 parole-medicina per un approccio critico e desiderante al disagio delle nuove generazioni
Gli adolescenti stanno male, se ne sono accorti quasi tutti. E’ una sofferenza che in alcuni ragazzi si manifesta attraverso fenomeni estremi come il ritiro sociale o agiti (auto)distruttivi, in altri rimane un costante sottofondo di ansia, tristezza, tensione. Se si tratta generalmente di vissuti biografici ad innescare le sintomatologie più gravi, di certo non bastano a spiegare il fenomeno. Una sofferenza così ampiamente diffusa non può che avere anche una forte origine sociale.
Alcuni dei fattori patogeni che oggi generano il disagio pisichico li si citano spesso, sebbene tavolta in modo un pò generico: individualismo, competitività, utilitarismo, continua spinta alla performance, la pervasività delle tecnologie digitali, la precarietà e la mancanza di futuro; altri sono più sottotraccia.
Un mondo educativo rassegnato
Come ci posizioniamo noi educatori e operatori sociali di fronte a tutto questo? Il mondo educativo e formativo oggi sembra si sia rassegnato: riteniamo queste “storture” un dato di fatto, accettiamo il mondo così com’è, riducendoci insegnare ai più giovani a divenire «resilienti», «flessibili», «armati» per essere all’altezza dell’hungergame, la postura contemporanea del tutti-contro-tutti. Riteniamo di avere poco spazio di manovra rispetto a questa emergenza, delegando spesso all’intervento di psicologi o di neuropsichiatri.
Prendere posizione
E’ tempo a nostro avviso fare un salto,prendere posizione di fronte a tutto ciò. Queste nuove manifestazioni di sofferenza hanno origine in elementi oppressivi dell’epoca che viviamo, sono temi generatori emergenti, come li definiribbe Paulo Freire, se vogliamo dare senso al lavoro educativo oggi, con un approccio critico e desiderante, non possiamo non porre la questione al centro del nostro lavoro. Siamo chiamati ad analizzare, “cartografare”, le cause sociali di quanto sta avvenendo e creare strumenti, dispositivi ad hoc che se da una parte possando contribuire alla crescita individuale, dall’altra non possono che interrogare il mondo che abitiamo, decostruire le sue parole d’ordine, porsi in modo critico e immaginativo.
Allestire luoghi educativi e di cura radicalmente alternativi alla società patogena
Ci siamo resi conto che il modo più efficace per fare rifluire la vita nei più giovani (e in noi stessi) è allestire setting educativi radicalmente alternativi alla società patogena. Se la corsa alla performance toglie il fiato dobbiamo ragionare di luoghi in cui respirare, abbassare il peso delle aspettative, se ogni competenza va capitalizzata dobbiamo essere pronti a proporre esperienze “inutili” al progetto personale, ma imprescindibili per sentirsi vivi, se il mondo algoritmico e funzionalista ha rimosso la dimensione del senso, dobbiamo creare spazi in cui farci domande profonde, esplorare la vertigine dello stare con 3 ragazz3 nel non sapere, nella ricerca, nell’ineffabile. Non è facile perchè si tratta di andare controcorrente a una narrazione diffusa per cui l’adolescenza è solo la fase dell’investimento verso il futuro lavorativo.
Immaginare mondi
In questo modo non solo potremo impattare l’emergenza attuale, ma anche allestire con gli adolescenti stessi spazi laboratorio per sperimentare un modello di società diversa. Si tratta di prenderci cura dei più giovani prendendoci insieme cura del mondo. Il mondo desiderato dalle nuove generazioni è già racchiuso nei sintomi della loro sofferenza, è tempo di allearci per iniziare a costruirlo; come operatori sociali, fare la nostra parte.
La nostra borsa-medicina
Per conferire concretezza a tutto ciò, mantenere una bussola nel agire quotidiano, all’Anno Unico, la nostra “scuola per chi non va a scuola” utilizziamo una speciale borsa medicina*. Contiene sei parole-cura o, appunto, parole-medicina che orientano le nostre prassi: RESPIRARE, RISUONARE, INTERROGARE, COMPORRE, SPERPERARE, DECENTRARSI. Non vanno scambiate per un manifesto,sono il frutto di appunti di viaggio annotati e rielaborati lungo la strada, in continuo divenire e dialogo con la realtà, intuizioni che teniamo strette durante il nostro cammino, imperfetto, polveroso, che ha voglia di contaminare e di essere contaminato.
RESPIRARE
Allestire isole ri-generative dove riprendere fiato, rinfrancarsi dal peso aspettative, della prestazione, della sovrastimolazione
Il mondo contemporaneo stanca, consuma, rende esausti. Siamo chiamati alla continua competizione, prestazione, misurazione, sovrastimolazione. Se un tempo la prima preoccupazione dell’educatore era quella di attivare i più giovani, oggi contro-intuitivamente deve essere quella anzitutto di permettergli di prendere fiato rallentando, sottraendosi da questi elementi patogeni. Il processo di cura comincia in luoghi dove non si viene caricati dal peso delle aspettative, ma ce ne si possa disintossicare, dove le performance non vengano continuamente misurate, e il talento non debba essere per forza capitalizzato. Nel mondo della velocità e del rumore dobbiamo allestire isole ri-generative in cui è concesso riconquistare il tempo, trovare il vuoto e il contatto con se stessi, rallentare, dirci “andiamo bene così”; dove – quando fuori tutti chiedono di mostrarci – vi sia la possibilità di rimanere in penombra.
RISUONARE
Allearsi in gruppi sensibili, in cui ci si può riconoscere anche strani, goffi, vulnerabili, in cui ci si incontra attraverso la vibrazione del sentire.
Le nuove generazioni sono cresciute respirando individualismo, non sanno più stare insieme perchè hanno la pelle troppo sensibile, sono preoccupati solo di se stessi. Inoltre oggi il legame ha valore solo quando genera utilità reciproca. In un contesto del genere l’educatore non può che porsi come tessitore di legami, ma deve rifiutare il richiamo di quei modelli aggregativi che fino ad ora sono andati per la maggiore: tendenzialmente logocentrici, funzionalistici, mascolini. L’alternativa sono quelli che chiamiamo i gruppi sensibili, il modo di stare assieme che nasce dall’incontro di pelli sottili. Si tratta di alleanze fondate sul sentire, dove strumenti privilegiati di relazione sono il pulsare dei corpi, gli occhi, l’arte, le parole sussurrate, il gioco, anche il silenzio. Nei gruppi sensibili sono accolte le vulnerabilità, le ombre, ognuno è serenamente imperfetto, adeguatamente strano.
INTERROGARE
Esplorare
insieme domande di senso urgenti
La sofferenza attuale è sintomo anche di una crisi esistenziale, della mancanza di senso. La ricerca di significati profondi dell’esistenza non trova posto nel paradigma della tecnica e degli algoritmi. In un contesto del genere è urgente, educativo e terapeutico, ritagliare un tempo importante per tornare a esplorare domande di senso improrogabili: sulla vita, la morte, il progresso, la tecnologia, la felicità, le relazioni, le emozioni. Sarà fondamentale non cedere alla fretta di giungere a risposte definitive, non rifuggire quelle che paiono più impegnative, destabilizzanti. Per questo viaggio di ricerca possiamoattingere a tutto ciò che noi e gli adolescenti abbiamo a disposizione: la letteratura e i vissuti personali, il pensiero filosofico e la fantascienza, la saggezza antica e le arti pop, la ricerca spirituale e le controculture, incontri fecondi con chiunque possa portare nuova linfa alla ricerca di significato. Nuovo senso apre a nuovi sguardi e a nuove prassi.
COMPORRE
Esercitare
il linguaggio narrativo, ricombinante, immaginativo e simbolico per
ri-comporsi, abitare l’ombra e l’ineffabile, aprirsi a nuove
visioni
cheNel mondo attuale esperiamo la frammentazione, la destabilizzazione, viviamo emozioni che non sappiamo come nominare, in un contesto in cui nell’ideologia razionalista attuale tutto ciò che non è misurabile non esiste. Inoltre tutto ciò che è negativo spaventa e viene rimosso a priori, va rifuggito e non ci viene insegnato come abitarlo. Tutto questo è fonte di sofferenza. E’ necessario allora liberare le attività «espressive» dall’ innocuo ruoloin cui sono state relegate nel mondo dell’educazione e dello spettacolo e ritrovare la loro forza ancestrale di strumenti di comunità e di cura. Si tratta di risorse per esplorare le nostre ombre, l’ineffabile, e di strumenti di visione. Dobbiamo insieme ai più giovani ri-alfabetizzarci ai linguaggi del simbolico, del mito, dell’immaginazione, all’antica arte di raccontare storie che il nostro tempo ha rimosso o relegato nel marketing; diventare cultori del ri-comporre, plasmare, remixare, del dare forma come atto curativo e generativo
SPERPERARE
Perdere
tempo per sperimentarsi in ciò
che non è
redditizio, ricercare salti di intensità lasciandosi attraversare
dalla vita
Oggi siamo assillati ad accumulare competenze capitalizzabili, selezionare le occasioni formative più redditizie per «realizzarci», siamo chiamati ad essere strategici imprenditori di noi stessi. Di contro gli adolescenti sono sempre più de-motivati, spenti. In un contesto simile gli spazi educativi devono provvedere a ingenti iniezioni di attività che siano sperpero di tempo e di energie, non volte a guadagni sul fronte del «progetto personale», ma che possano generare salti di intensità, potenza vitale, profondità umana, portare all’esplorazione del mondo e di se stessi: attività inutili a raggiungere traguardi materiali ma essenziali all’essere. E’ necessario sviluppare l’arte di individuare i territori e gli incontri generativi che, rispettando le differenze di ognuno, possono alimentare questo processo. Dobbiamo inoltre sviluppare sempre nuovi strumenti riflessivi per trasformare i vissuti in esperienza significativa.
DECENTRARSI
Concepirsi
oltre a sé, sbilanciarsi verso l’altro, essere legami, natura,
mondo, cosmo
In questo mondo ognuno è chiamato raggiungere il proprio successo, conquistare la propria felicità. Per fare questo dobbiamo tenerci sotto controllo, monitorare debolezze e i progressi, ascoltare il feedback dell’ambiente. Il centro di tutte le nostre attenzioni siamo noi: questo non è sano. Negli spazi educativi e di cura si dovranno allora trovare occasioni per decentrarsi, mettere da parte la priorità a sé stessi e al proprio progetto per dedicarsi a qualcosa che ci trascende. Spazi dove si possa dimenticarsi dell’io per sbilanciarsi verso l’altro e il mondo, le sue urgenze, le sue meraviglie; sentirsi comunità, natura, pianeta, cosmo. Sarà quindi risorsa educativa privilegiata trovare occasini per mettere a disposizione le proprie energie, risorse e talenti per il bene comune. Dovremo trovare modalità per risuonare con il pianeta, aprirci a rinnovate forme di spiritualità e all’incanto del mondo.
…e la vita torna a fluire
Vivendo un anno sperimentando tutto questo i nostr3 ragazz3 adolescenti drop out, anche spesso nelle situazione che sembravano più compromesse, percepiscono lentamente la vita riaffiorare. Accade allora che quegli stessi genitori scettici della nostra proposta così poco produttiva, che avevano iscritto il figlio perché non sapevano a chi altro rivolgersi, tornino da noi e ci dicano:
“Io non so cosa sia successo, e non ho ancora capito bene cosa fate, però vedo Marco (Lidia, Mohamed, Giada…) con gli occhi più luminosi, forse non ha risolto del tutto i suoi problemi, però ha una postura diversa, a cena ha anche voglia di parlare, sta tornando il desiderio…”.
*La “Borsa medicina” è un termine che non a caso fa riferimento alla pratica di cura degli sciamani (ringrazio Ilaria Caelli per insegnarmi su questo mondo affascinante). Non è un riferimento casuale, indica l’urgenza di recuperare saperi e ritmi antichi che la modernità occidentale ha annullato, ma che possono oggi essere imprescindibili. Non ha niente di razionario, non è per tornare indietro, ma per immaginare inediti futuri.
Quando i personaggi di film, serie tv, anime, manga divengono stimolo per porsi domande importanti sul mondo, la vita, se stessi
Il valore degli immaginari fantastici e inquietanti
Tempo fa suggerivo, nel manifesto della pedagogia nerd , di riscoprire il valore della narrativa fantastica nel lavoro con gli adolescenti: romanzi, serie, film, fumetti di fantascienza, fantasy, weird, fan fiction, anime, manga – quali risorse di riflessione su sé stessi e sul mondo, di apprendimento e crescita. Sottolineavo l’importanza del ruolo dell’adulto come facilitatore nell’emersione dei temi, delle domande, dei risvolti generativi presenti in questi immaginari. Un intento che ci richiede di imparare a convivere con creature poco raccomandabili: demoni, spettri, mostruosità di ogni sorta, immaginari imprescindibili che la modernità e l’ideologia della tecnica ha cercato in ogni modo di rimuovere, o di trasformare solo in innocuo entertainment.
Lo spazio educativo può essere allora il luogo dove riscoprire questa dimensione, per i ragazzi, per noi, per un mondo che ne ha sempre più bisogno.
In particolare per chiunque lavori con gli adolescenti è fondamentale attraversare questi territori, e magari riuscire anche a coglierne il fascino estetico, vitale, d’intesità. L’adolescenza è la fase della vita in cui, più di ogni altra, si sente l’urgenza di esplorare i limiti, l’estremo, l’inquietante, il malvagio anche, dimensioni che nell’esperienza adulta sono affrontate con maggiore misura e integrazione, ma spesso anche sottoposte ad una (pseudo)pacificante opera di rimozione. Si tratta di universi che hanno un valore educativo per i nostri ragazzi, ma lo possono avere allora anche per noi: il nostro rischio di adulti è accomodarci nella rimozione dell’ambivalenza, della radicalità, delle voragini.
I
personaggi “interessanti”
Quello che propongo è un lavoro con poche ma importanti coordinate, che si può proporre in gruppi educativi o di cura, e al limite anche in contesti di lavoro individuale.
La consegna consiste nel chiedere ai ragazzi di individuare un personaggio fantastico presente in un fumetto, un film, una serie, un libro a cui in qualche modo sono legati; deve essere una figura che ritengono interessante, che sollecita questioni su cui riflettere. Il suo ruolo nella storia può essere di protagonista o antagonista, o anche essere un personaggio secondario. Da notare che la richiesta non è di individuare “un personaggio che ti rappresenti” ma che è “interessante”. Non che il primo tipo di consegna non sia da utilizzare, ma il secondo nella mia esperienza è sempre stato più generativo: apre, conferisce ai ragazzi l’opzione di dichiarare o meno di identificarsi in lui, lascia loro la possibilità di proteggersi, e anche di portare figure in cui non sentono di rispecchiarsi, ma li stimolano su particolari questioni, dilemmi, domande.
Negli anni, attraverso questa attività, ho incontrato con loro centinaia di personaggi, alcuni molto famosi, altri di nicchia, tanti di cui non avevo mai sentito parlare; in diversi casi si sono aperte riflessioni profonde, sguardi nuovi noi stessi e sull’epoca che abitiamo, temi e stimoli che sono stati poi portati avanti al di là dei confini della specifica attività.
La
scelta personaggio
Di solito avvio il lavoro con un’immaginazione guidata: un sottofondo musicale evocativo contribuisce a costruire l’atmosfera (utilizzo principalmente una selezione di colonne sonore di film fantasy..) stimolo i ragazzi a rievocare i fumetti, gli anime, le serie, i film che sono stati significativi per loro, in questo momento della vita o in passato, e di focalizzarsi sui personaggi che sono rimasti più vividi nella memoria. Chiedo quindi di sceglierne uno che per qualche ragione ritengono significativo, che può essere utile portare nel contesto del gruppo per aprire riflessioni..
Quando tutti hanno individuato il proprio personaggio ci si prende del tempo per esplorarlo, attraverso un lavoro che può essere anche scritto (la richiesta di scrivere aiuta l’adolescente a “stare” nella consegna, lo accompagna ad esplorare evitando la dispersione).
Ecco una possibilità di traccia: – Scrivi il nome di un personaggio di fiction interessante, significativo, che può aprire riflessioni, o che semplicemente ti ha intrigato – cerca in rete una sua immagine rappresentativa – riporta la sua vicenda in poche righe – prova ad individuare qualche tema, domanda, riflessione che il personaggio di suggerisce – racconta un aneddoto, una vicenda interessante che vede coinvolto il personaggio e magari solleva qualcuno dei temi che hai individuato – se è disponibile aggiungi un link video, in cui è possibile assistere alla vicenda di cui hai parlato prima o, in alternativa, qualche altro momento significativo
Non è detto che la consegna sia per tutti chiara fin da subito, si può allora fare qualche esempio: io a seconda dei casi utilizzo personaggi già trattati con altri gruppi o ne porto uno mio.
Le domande
il focus dell’attività è concentrarsi sull’emersione delle domande, dei problemi, dei dilemmi che il personaggio porta. E’ molto facile scivolare sul piano inclinato della ricerca di ricette e chiedere subito “cosa ci insegna il personaggio?” “quale messaggio ci dà?” “cosa impariamo dalla sua vicenda?”; non che stimoli del genere siano vietati, o che non possano essere generativi, ma lo sguardo che propongo pone l’attenzione su un altro piano. L’obiettivo è quello di esplicitare, e problematizzare, come ci ha insegnato Paulo Freire, temi importanti per i ragazzi ed esplorarli insieme, senza la fretta di voler arrivare ad avventate conclusioni.
di seguito il racconto di una sessione:
…dopo una breve pausa chiedo chi ha voglia di iniziare la condivisione, introducendoci il suo personaggio.
HARLEY
QUEEN
Si propone Valeria che ci vuole parlare della bad girl del film Suicide Squad: Harley Queen.
Ci racconta che era la dottoressa che si prendeva cura di Joker; col tempo si era innamorata di lui al punto che, per dimostrargli quanto lo amava, arriva a cedere alla sua richiesta folle di buttarsi in una vasca piena di acido. Quando ne riemerge si è trasformata, è diventata pazza!, dice Valeria. Ci aveva fornito il link youtube a quella scena, e la guardiamo insieme. E’ molto forte e spettacolare.
Ci
dice che è una scena che la ha colpita molto. Secondo lei la domanda
principale su cui tutto ciò fa riflettere è:
E’
giusto
per amore fare qualsiasi cosa? Qual’è il limite? Come ci si
comporta in una situazione di amore distruttivo?
Emerge così dai ragazzi il concetto di “amore tossico”. Io chiedo loro se volevano provare a inventare qualche esempio per indagare meglio questo fenomeno: “E’ difficile inventare”, dice Sara, “è quando sei così preso da una persona che per lui faresti ogni cosa, anche se non è da te, anche se a volte ti fa stare male e non ti senti più te stessa”. Valeria sottolinea quanto sia difficile uscirne, perché si vive scissi tra il desiderio di stare con l’altro e la sofferenza che comporta, che invece “farebbe scappare lontano”. Alessandro ipotizza che in questi casi possa essere utile parlarne con gli amici, “…non è facile, sono cose private, ci si vergogna” incalza Alberto, “e poi gli adulti no, non vanno coinvolti, che rischiano di intromettersi e fare ancora più casino”. Io aggiungo che forse, tenendo conto di quanto dice Alessandro, in generale è importante coinvolgere qualcuno di cui ci si fida. Il tema è molto ampio, non lo si può liquidare facilmente, me lo annoto, troveremo insieme il modo migliore per tornarci. Laura, amica di Valeria, non dice nulla ma gli si legge in volto che è molto coinvolta; io immagino, ricordando anche sue mezze frasi buttate lì in altre occasioni, che forse sta vivendo qualcosa di simile, ma tengo per me il pensiero (spoiler: sarà lei a esplicitarlo nel momento finale delle risonanze).
TONY MONTANA
TONY
MONTANA
Il personaggio di Alessandro non arriva invece dal mondo fantasy, è Tony Montana, protagonista del film Scarface, interpretato da Al Pacino. Molti compagni fanno cenno di approvazione, un paio dicono di averlo visto più di una volta: “un classico!” affermano. Alessandro ci racconta che si tratta di un criminale cubano immigrato negli USA che inizia la sua carriera come scagnozzo di un narcotrafficante, fino a diventare il vice capo dell’organizzazione. Inizia a quel punto una guerra di potere con il capo Frank Lopez, che vince uccidendolo. Diventa quindi modo uno dei più importanti leader dello spaccio. “Il momento che mi ha colpito è quando lui è da solo nella vasca da bagno e riflette” ci dice sicuro, “Tony è molto convinto di sé e del suo potere”. La scena è on line e propongo di guardarla subito, si tratta di un breve monologo, Tony Montana è nella sua Jacuzi, pregiata vasca idromassaggio, da lì inveisce:
“Ma vaffanculo! Chi ha costruito tutto questo? Io…. Di chi cazzo ti puoi fidare? Di nessuno! Potete andare tutti al diavolo… io non ho bisogno di nessuno… non mi serve nulla, non mi serve niente”. Vorrei intervenire subito, prendere le distanze, magari in modo ironico.. è un discorso che faccio proprio fatica ad accogliere, molto “trap”: carico di individualismo, culto del successo, ostentazione del lusso; mi mordo però la lingua e gli chiedo se ha voglia di farci un commento. Alessandro ci spiega che quello che gli piace di quella scena è l’autonomia, la fierezza di Tony Montana di avercela fatta da solo. “…anch’io sono molto autonomo” ci dice dopo un momento di silenzio riflessivo, “ho dovuto esserlo, fin da quando ero piccolo nella mia famiglia c’erano casini e dovevi per forza sbrigartela da solo, mio padre era sempre occupato. Anche ora me la sbrigo da solo, ancora di più anzi, faccio qualche lavoretto per non chiedere niente ai miei… Sono orgoglioso di questo!”. Usa proprio la parola “orgoglioso”: ecco che cosa ci teneva a raccontarci, bisognava dargli (e darci) tempo. Molti compagni annuiscono. Il desiderio di autonomia è sempre emerso in modo molto deciso all’Anno Unico, è una tensione caratteristica dell’adolescenza ma ancora di più di questi ragazzi per i quali prendere materialmente le distanze da contesti famigliari faticosi è spesso un’urgenza.
Ci
segniamo le domande: Cosa
vuol dire essere autonomo? Come si può esserlo oggi in un mondo così
precario?
JOKER
Ora tocca ad Alberto, che ci parla di Joker. “È un personaggio criminale travestito da clown” aveva scritto di lui “è diventato quello che è cadendo in un fiume pieno di rifiuti chimici, e uscendo da questo fiume si trasforma in Joker” (il riferimento è al film di Todd Philips del 2019) “secondo me fa riflettere sulla vendetta”. Alberto ci parla del desiderio di vendetta e rivalsa che abita questo personaggio, un sentimento che “accende” molto la sensibilità del gruppo, e che trova risonanze con altri personaggi: Riccardo osserva che in fondo anche il suo acerrimo nemico Batman è animato dallo stesso sentimento, che lui combatte i criminali con l’atteggiamento di chi deve continuare a vendicarsi di un trauma subito, dopo che proprio un malvivente ha ucciso i suoi genitori. In un intreccio di voci il gruppo ipotizza quindi che Batman e Joker non siano poi così tanto diversi: “la vendetta è un’energia folle che permette a entrambi di andare avanti!” aggiunge qualcuno con enfasi. Maria, psicologa e collega formatrice che in quel momento era in aula con me, valorizza l’intuizione, perfettamente in linea con la teoria psi: “E’ proprio così… lo dicono anche i libroni di psicologia, che cosa raffinata che avete portato.. la vendetta è una modalità per relazionarsi con la sofferenza, per vincere l’impotenza, che, pur non risolvendo la situazione problematica conferisce all’individuo la sensazione di reagire“. I ragazzi sono molto attenti.
A proposito di convergenze tra Batman e Joker a me in quel momento viene in mente la scena dell’interrogatorio nel film il Cavaliere oscuro di Christopher Nolan, in cui questi punti di contatto tra il super-eroe e il suo acerrimo nemico si esplicitano in un dialogo memorabile. Propongo di vedercelo insieme.
Al termine della visione Giulio interviene con un’affermazione che non lascia spazio a repliche, e sorprende per acutezza “è vero che sono sono simili, ma Joker è sicuramente più consapevole di Batman!”, ci dice. “Le persone danneggiate sono pericolose quando sono sole” interviene Andrea, in un escalation di perle di saggezza, “il dolore non è sempre nelle lacrime, a volte è presente anche in un sorriso” aggiunge Emanuele. Mi scrivo tutto, non mi aspettavo questa intensità in particolare da parte di alcuni di loro, spesso avidi di contributi. Il tema li ha toccati molto.
Chiudiamo su Joker annotandoci tante domande, tra cui:
Cos’è la vendetta? C’è qualcosa di alternativo per reggere la sofferenza? C’è un modo per evitare di caderci?
OBITO UCHIHA
Il personaggio di Giulio è Obito Uchiha, della celeberrima serie anime Naruto. Ho la sua maschera nella mia collezione, l’ho acquistata diversi anni fa, prima di conoscerne la storia, mi ha “chiamato” da una bancarella a Città del Messico; mi aveva affascinato quel suo essere inquietante: la spirale su fondo arancione e un occhio solo, ma non sapevo avesse a che fare con un anime e nascondesse una storia così interessante Giulio ci spiega che Obito era un ragazzo che, pur avendo vissuto un’infanzia difficile, senza genitori, era molto generoso e in gamba; dopo una serie di vicissitudini però si trasfigurerà arrivando a diventare un villain, un “cattivo” tra i più temibili. “Ti fa riflettere molto sull’odio e su cosa può generare la vendetta”, afferma. La scena che ritiene più importante è quando Obito assiste all’uccisione della ragazza di cui era innamorato da parte di un amico con cui c’era stato un forte legame. Ci riferisce che lo hanno colpito due momenti in particolare di questa scena: – quando “impazzisce di rabbia e di dolore” e arriva a fare una strage uccidendo chiunque trovi intorno a sé. – quando in una pozza di sangue prende tra le mani il corpo di lei, l’immensa sofferenza che sta provando. Da quel momento Obito aderirà a progetti malvagi, mostrando gelido distacco verso il mondo. E’ interessante come nell’anime si espliciti che il particolare potere sovrannaturale che lo aiuta nel combattimento, il cosiddetto sharingan, poteva raggiungere il suo apice solo se chi lo possiede ha vissuto il trauma della perdita di chi ama. Più Obito soffriva, più cresceva la sua potenza, più si rendeva propenso all’avversione e all’odio. Si tratta sicuramente di un tema molto sentito da alcuni nel gruppo, in particolare quelli maggiormente “feriti” che in seguito hanno intrapreso percorsi di devianza, o di rabbiosa chiusura.
Nel
sistema narrativo dell’anime Obito si pone come una sorta di doppio
dell’eroe della serie Naruto, e rappresenta cosa il protagonista
sarebbe potuto diventare se avesse “ceduto al lato oscuro”; il
bambino generoso diventato super-cattivo solo in punto di morte si
accorgerà che se fosse riuscito a reggere il dolore della perdita la
sua vita avrebbe potuto prendere una direzione differente. La serie
animata sottolinea come è proprio la capacità di reggere e
rielaborare il dolore il discrimine tra la fioritura e la perdizione
Le domande che in conclusione ci siamo posti sono molto simili
a quelle emerse per Joker:
Si può sopravvivere ad un dolore troppo grande? Come si fa? Come si rielabora il dolore?Come si fa a non cadere nel lato oscuro?
OBI-WAN KENOBI
Il personaggio scelto da Renato è Obi-Wan Kenobi, figura fondamentale nei film storici di Star Wars, e protagonista di una serie uscita recentemente per DisneyPlus. In particolare Renato fa riferimento alla trilogia degli eposidi I,II e III, in cui Obi-Wan è il mentore del giovane Anakin, che infine si ribellerà a lui per passare al “lato oscuro” (…e sotto il nuovo nome di Darth Vader sarà centrale nella trilogia classica). Ci racconta che lo ha colpito molto il fatto che il suo allievo, a cui voleva molto bene e aveva insegnato tanto, cedendo si è ribellato contro di lui, fino a cercare di ucciderlo, e diventare una minaccia poi per l’universo intero. Non abbiamo trovato la scena in streaming, ma l’immagine che aveva inviato Renato ritraeva in modo molto evocativo quel momento. Gli chiedo di definire con alcune parole chiave i due personaggi e il rapporto che li lega, e in seguito nominare le emozioni che li stavano attraversando. Io scrivo direttamente sulla lavagna su cui era proiettata la foto. Mi dice che Anakin è il prescelto, è tattico, è vulnerabile al lato oscuro, lo caratterizza la tristezza e la sofferenza; Obi One invece è altruista, intelligente, potente nel combattimento con la spada laser. La tensione tra di loro è caratterizzata dalla rottura di una forte amicizia, dal tradimento. Il titolo che Riccardo dà a questa immagine è “Resistenza al male”
Attraverso il personaggio di Obi-One Kenobi torna il tema del tradimento. Renato dichiara che è meglio dare meno fiducia possibile alle persone, per ridurre la possibilità di incorrere nella sofferenza del tradimento. Molti annuiscono, è un discorso che mi capita di sentire sempre più spesso dagli adolescenti “quando ero più piccolo davo più fiducia, ora ho capito che è più intelligente non farlo!”. Io azzardo che qualunque relazione è passibile di sofferenza, e si espone al rischio del tradimento, mettersi in sicurezza vuol dire negarsi anche la possibilità della gioia, dell’esperienza vitale. I ragazzi ascoltano con attenzione, sono perplessi e qualcuno incuriosito, per qualcuno sembra che sia la prima volta che si pongono da un punto di vista simile.
Un altro tema che Renato ci tiene a evidenziare è quello che definisce “del bene e del male”; “quanto siamo fragili nel resistere al male!” esclama. Ci spiega che Anakin è il prescelto, è molto potente ma anche fragile, è stato tentato dal lato oscuro, e la sua volontà di potere ha prevalso sul bene. E’ proprio su questo che vuole concentrare le proprie domande aperte, la prima rieccheggia la questione portata da Giulio con Obito
Come
si resiste al lato oscuro?
mentre nella seconda allarga ulteriormente con una provocazione che smuove molto il gruppo:
Sì…
però… cos’è il male? Cos’è il bene?
MEREDITH GRAY
L’ultimo personaggio è Meredith Gray, della nota serie Gray’s Anatomy. La porta Denise che sì è aggiunta al gruppo in un secondo momento, a sessione iniziata, e per questa ragione non aveva scritto niente. Le propongo allora di partire dal video che ci aveva segnalato. Lo guardiamo in silenzio: 4 minuti emotivamente molto forti (è davvero forte, guardatelo se siete in mood che può reggerlo…)
Siamo in ospedale, la protagonista è al capezzale di Derek, il suo compagno, che aveva appena esalato l’ultimo respiro. La musica d’atmosfera sottolinea l’intensità del momento, gli unici movimenti sono quelli dell’infermiera che spegne le macchine a cui era attaccato. Si inseriscono immagini flashback di momenti felici della coppia, per poi tornare al presente quando la protagonista si rivolge al suo uomo esamine con poche e significative parole “E’ tutto ok, puoi andare”. Denise al termine della visione sottolineerà che sono proprio queste parole a colpirla di più. La ragazza non aggiunge altro, è strano vederla così presa, commossa, lei “bad girl” che si mostra sempre distaccata ai limiti della strafottenza. Romperò io il silenzio aggiungendo che forse da quel momento inizia il suo sforzo per accettare la sua morte, ne riconosce la tragica realtà, e che a me ha colpito quando poco dopo l’infermiera, per poter proseguire con le procedure del caso, le chiede “E’ pronta?” e lei risponde “no, ma continui”. Quel “no, ma continui” forse sottolinea che non si è mai pronti ad accettare situazioni così dolorose, però si può riconoscere la sofferenza e affrontarla, come sta facendo Meredith. Non riesco ad aggiungere altro. Le domande che ci scriviamo sono
Cosa
vuol dire morire? Come si affronta la morte di una persona cara?
In questo prezioso e faticoso contributo che ci ha donato Denise si ha avuto l’occasione di tematizzare uno dei principali spettri della contemporaneità, quello della morte. Se nel passato era intesa come naturale parte della vita, e il contatto con la fine, di esseri umani e animali, era esperienza del quotidiano, oggi si tende sempre più a rimuoverla, a nasconderla, è qualcosa di cui è sconveniente parlare, da cui tenere al riparo i più piccoli. Nella società del “progresso infinito” la morte non può essere concepita, è un un bug, un “errore di sistema” da riparare, annullare, e se non ci riusciamo meglio far finta di non vederla. Nel tempo del felicismo (o del “felicismo tossico”) la morte non ha cittadinanza. Eppure ritorna ad agitare sempre più forte i sonni di noi che abbiamo perso gli strumenti per relazionarci con lei.
LA
CONDIVISIONE RISONANZE
Al
termine di un lavoro come questo può essere utile dedicare uno
spazio alle risonanze. La consegna è semplice:
C’è
un altro personaggio, oltre il vostro, che per qualsiasi ragione vi è
risuonato? Che ha toccato temi interessanti anche per voi?
Nella sessione riportata, ad esempio, il giro di risonanze ha permesso a Laura, per sua scelta, di esplicitare che nella sua vita privata sta vivendo qualcosa riconducibile al tema proposto da Valeria con il personaggio di Harley Queen. Ha condiviso con il gruppo che sta vivendo un momento difficile nella relazione con il suo ragazzo, che definisce “un po’ tossica”. Ci ha raccontato quanto era legata a lui, ma che sentiva fosse il tempo di prendere le distanze perché anche la sofferenza era tanta; non sapeva però se ce l’avrebbe fatta, se era pronta, se avesse trovato la forza. Laura era molto coinvolta emotivamente, conoscendola non mi sarei aspettato che avrebbe condiviso qualcosa di così personale con i compagni. E’ stato un momento importante per lei e per i loro: con Valeria si è instaurata subito una connessione, e in generale si sono percepiti fiducia reciproca, attenzione, ascolto; è stato un ulteriore passo di crescita per il gruppo. Inoltre da quel momento si è potuto approfondire il dialogo personale tra lei e la tutor (presente in quel momento in aula) permettendo un lavoro affiancamento e accompagnamento più aperto e generativo, anche su quel delicato tema.
Le
risonanze possono creare “fili” tra componenti del gruppo
generando inedite “micro-comunità di sentire”, oppure imporsi
nella totalità del gruppo. Nella sessione appena riportata ad
esempio è emersa una diffusa risonanza per i temi portati dal
personaggio di Joker: la sofferenza intensa che porta a trasfigurarsi
e assumere comportamenti distruttivi; il fatto che dietro ad
atteggiamenti negativi spesso ci sono storie difficili; l’importanza
di essere consapevoli di sé come primo passo per poter affrontare le
proprie sofferenze.
Come
si è già detto è molto importante essere attenti ai temi che in
ogni gruppo emergono; si tratta della bussola che il formatore ha a
disposizione per orientare e progettare un lavoro di senso con i
ragazzi.
Torna Alieni! il corso di formazione per i professionisti che si occupano di adolescenti.
Torna Alieni!! il nostro corso per educatori, psicologi (ma anche insegnanti, artisti…) che si occupano di lavoro con gli adolescenti Per sperimentare tante delle attività proposte in queste pagine, nelle nostre pubblicazioni, in Anno Unico, per conoscersi di persona, riflettere con approccio attivo e multidisciplinare su cosa vuol di dire crescere in questi tempi incerti, e come r-esistere camminando insieme alle nuove generazioni
Un’attività per liberare foto e immagini che custodiamo nei nostri dispositivi o che abbiamo affidato ai social network. Per farle respirare, dargli voce, renderle spazio di incontro.
inizio a pubblicare qualche frammento dal manuale di pedagogia hacker, che piano piano prende forma, su cui da tanto ragioniamo con i soci di C.I.R.C.E. Se ti interessa solo l’attività da fare con i ragazzi scrolla giù fino a che trovi “L’ATTIVITA'”
Con Carlo (“Karlessi” Milani) eravamo alla Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano – corso Teoria delle arti multimediali – il compito era stimolare negli studenti uno sguardo critico sulle tecnologie digitali, partendo anche dal presupposto che ne avrebbero fatto largo uso nel loro percorso professionale.
Ad un certo punto avevamo chiesto, approfittando delle loro competenze, di produrre dei disegni o semplici prodotti digitali per restituirci le loro risonanze agli stimoli che fino a lì avevamo portato.
Tra i tanti lavori interessanti uno studente ci invia un’immagine che – ci spiegherà poi in fase di restituzione – rappresenta il potere della fotografia, sua passione, di aprire sguardi nuovi.
Marco, così si chiamava, sottolinea il valore di quest’arte per indagare il mondo e guardarlo con altri occhi. Al termine della sua riflessione aggiunge però una nota critica che ci colpisce molto: sottolinea la frustrazione nell’utilizzo dei social network per presentare al mondo le proprie opere. Ci racconta con dovizia di particolari che dietro ad ogni foto che pubblica c’è un lungo lavoro: la ricerca del soggetto, la prospettiva, la luce…, spiega che magari prova 100 volte la stessa posa prima di trovare la forza comunicativa che cerca. Il problema è che però, quando arriva a caricare le sue opere migliori su instagram, o flickr, è consapevole che l’attenzione che il pubblico dedicherà ad ognuno di questi lavori sarà di pochi secondi (o meno…) dopodiché ricomincerà lo scroll frenetico, e mille altre immagini ne cancelleranno la memoria.
“Che la mia foto riceva o no un like non cambia, anche il like si consuma in un centesimo di secondo, il problema è che se non ci si ferma di fronte all’immagine, se ne perde tutto il valore!” ci dice.
Quando una fotografia parla per davvero
Sentivo che sarebbe stato interessante e prezioso approfondire ulteriormente la questione. Mi aveva colpito il modo in cui Marco parlava delle suo fotografie, c’era fierezza e affetto, sembrava che parlasse di creature animate; mi ha solleticato così l’idea di provare a dare voce davvero a una di queste immagini. Cosa ci avrebbero raccontato?
Vuoi fare un esperimento?
Propongo allo studente di sottoporsi ad un esperimento, se gli andava di impersonificare come un attore una delle sue foto per esplorare ulteriormente gli stimoli interessanti che ci aveva portato. Si tratta della tecnica psicodrammatica dell’ “inversione di ruolo“, in vero rischiata un pò così, incautamente, a freddo: non conoscevo le persona che avevo davanti, non sapevo se sarebbe stato la gioco, se fosse stato nella condizione adatta per immedesimarsi e lasciarsi andare alla spontaneità e creatività. Dai quei pochi elementi che possedevo, con un pò di fiuto e di azzardo, intuivo che avrebbe potuto funzionare; e ad ogni modo in caso non avesse funzionato sarei stato subito pronto a fare un passo indietro.
Ascoltare una foto che parla
Con molto coraggio, curioso e un pò perplesso, Marco viene alla cattedra, di fronte ad un’aula molto affollata. Gli chiedo di fare tre giri su se stesso (la cosa per lui si fa ancora più imbarazzante, ma sta al gioco…) sapendo che quando si fermerà si sarà trasformato nella sua foto, così che io potrò iniziare a intervistarlo. Di seguito i passaggi più significativi di questo strano incontro:
-Buongiorno foto. Piacere di incontrarti. Anzitutto puoi raccontarci cosa raffiguri?
Sono la foto di una falesia, la parete di una montagna, con una luce molto particolare, guarda come sono rosa.. da un’idea di serenità e di mistero..- – Come è stato il momento in cui sei nata, lo ricordi? – Si, lungo, quasi estenuante, però Marco si è preso molta cura di me; lui è un perfezionista sai… guarda come sono venuta bene, devo proprio ringraziarlo! – Senti foto, io però so che c’è qualcosa che non ti lascia serena, me lo diceva Marco prima. vuoi parlarcene un pò? – Certo… Io arrivo al mondo attraverso i social network. Questo mi permette di arrivare a tante persone, mica come le foto di un tempo che rimanevano chiuse negli album, che le vedevano poche persone e poi le dimenticavano. A volte ho anche tantissimi like sai? Il problema è che tutti si approcciano a me con superficialità – un’occhiata e via – distratti da tanti altri stimoli che ci sono nel mondo digitale, e io mi sento persa in mezzo a mille contenuti buttati li tanto per dire “esisto”. – Ma quindi cosa vorresti? – Ti confesso che sono molto gelosa delle foto nelle mostre, dei quadri nei musei, dove le persone si fermano, gli dedicano del tempo, le commentano, ci riflettono. Beate loro, io invece costretta in questo frullatore… Senti vuoi riassumere tutto quello che mi hai detto in un messaggio da mandare al mondo? – Si (Marco-foto ci pensa un pò) …voglio una cornice!!!
Questo incontro ha ispirato un’attività che abbiamo chiamato proprio “voglio una cornice!“, che è stata poi proposta tante volte nei percorsi educativi con pre-adolescenti o adolescenti, ma che sicuramente, nella situazione giusta, potrebbe funzionare anche in un contesto più adulto.
L’ATTIVITA’
“Fermare” le immagini
L’attivazione è molto semplice. Chiediamo ai ragazzi di cercare sul proprio telefono una foto, o in generale un’immagine che loro hanno prodotto, che magari è già stata condivisa sui social network (ma anche no), che ritengono meriti attenzione perché per loro particolarmente significativa, che dice qualcosa di importante di loro, o del loro sguardo sul mondo; un’immagine che, appunto, meriti “una cornice”. Non devono per forza essere opere d’arte (o sedicenti tali) come nel caso raccontato prima, vale qualsiasi foto o immagine che abbia un significato per chi la conserva nel proprio telefono, e che rischia di perdersi nel mondo sovraccarico del digitale.
Spegnere le luci, uscire dal dispositivo
Per prepararsi ad un lavoro del genere è utile un momento di riscaldamento che possa aiutare i partecipanti ad entrare in contatto e creare un clima di complicità e intimità. Uno degli elementi di base di questo lavoro è la creazione di un ambiente raccolto per condividere insieme le immagini, e questo può essere aiutato anche da elementi scenografici: per noi all’ Anno Unico è importante abbassare le luci, non solo per vedere meglio l’immagine proiettata, ma anche perché la penombra ci avvolge, unisce e protegge.
A questo punto proiettiamo le immagini una alla volta e prendendoci per ognuna tutto il tempo che merita. Le foto vengono così liberate dalla gabbia del dispositivo, scompare il rumore di fondo di altri mille contenuti, scompaiono i likes, è sabotata la possibilità di scrollare con il gesto automatico che siamo soliti fare, e si aprono spazi di connessione (con se stessi, con gli altri) imprevisti.
C’è qualcosa in questa attività che ricorda la “serata diapositive” frequenti prima dell’avvento del digitale. Le foto erano mostrate solo ad una cerchia stretta, si raccontava, ci si fermava su quelle che avevano un’importanza particolare. Il problema in quei casi era la prolissità, e il fatto che il proiettante era il centro della serata mentre gli altri poco più che spettatori (e ad un certo punto scattava anche qualche sbadiglio…). Con questa proposta si recupera il lato di intensità di quell’esperienza, con il valore aggiunto della circolarità e simmetria delle diverse voci, dello scambio come fondamento del lavoro.
Ad ognuno il suo spazio
La dinamica del lavoro è semplice: ogni ragazzo a turno presenta la propria foto, può raccontare quando l’ha fatta, quali sono i particolari che dovremmo notare, perché la ritiene significativa. Gli altri possono solo fare domande (alla base dell’ascolto attivo…); non si più commentare, non si può giudicare.
Volendo si possono anche utilizzare tecniche di conduzione più raffinate per approfondire l’analisi riflessiva (inversioni di ruolo, fumetti, riproduzione “live” della foto), ma nella maggior parte dei casi io preferisco lasciare il tutto “leggero”, confidenziale. Aggiungendo al limite la richiesta di un titolo per l’immagine al termine di ogni presentazione.
…DAL DIARIO DI UNA SESSIONE
Le immagini che i ragazzi in genere portano sono molto differenti. Di seguito racconto ciò che è emerso durante una sessione con i ragazzi dell’ Anno Unico, un paio di anni fa. Si tratta di un gruppo, per quanto eterogeneo, che aveva in quel momento già fatto un importante percorso di condivisione e lavoro insieme, in cui c’era già un buon livello di fiducia reciproca e capacità di ascolto.
Anzitutto, la famiglia
Alcuni partecipanti al gruppo hanno scelto di portare foto di propri famigliari (ma mai genitori o fratelli..), appartenenti alla cerchia allargata che sono stati rifugio e riferimento in momenti difficili.
Pablo ha portato un montaggio di foto di alcuni parenti in Perù, fatta con photocollage, un’applicazione per smartphone: ci sono i suoi zii e i suoi cugini sorridenti. Ci racconta che a loro è molto legato, purtroppo li vede poco perché vivono lontani, però sono come fratelli per lui, e non vede l’ora di ri-incontrarli. I compagni chiedono alcune informazioni per saperne di più, incuriositi da alcune pose o elementi nella foto.
Alex porta una foto che ritrae i suoi giovani zii: “mi capiscono più dei miei genitori, per fortuna che ci sono loro, senza di loro non so dove sarei ora…” ci dice..
L’istantanea di Laura invece ritrae lei con la sua anziana nonna; “l’ultima foto fatta insieme prima di morire” ci confida “la nonna ha significato molto per me“, poi rimane in silenzio, commossa. La Laura ne ha passate tante, tra comunità e ricoveri in ospedale, e a noi in quel momento ha voluto portare un pezzo importante di sé; se lo ha fatto è perché ha ritenuto che potesse fidarsi. Il valore di un lavoro come questo è che ognuno sceglie come starci, a quale livello di intimità esporsi. I compagni la guardano con sguardi pieni di vicinanza, è un silenzioso abbraccio di tutto il gruppo; Lorena, la sua amica, la abbraccia davvero.
La mia arte per raccontare di me
Felipe invece ci presento uno screenshot tratto dal suo profilo instagram. E’ una sua produzione artistica, realizzata con un’app per ipad. Lui è un appassionato di disegno (già un suo lavoro era stato pubblicato in un articolo, qui). Si tratta di un proprio “autoritratto digitale”, realizzato con cura, in cui il volto è diviso a metà; una metà è più serena, l’occhio è chiuso, mentre l’altra dà idea di “essere sull’attenti”: l’occhio è aperto e il volto meno rilassato. Ci racconta che in quel lavoro possiamo capire chi è veramente, e per questo ne è molto soddisfatto. Rappresenta il suo lato sognatore, quanto sia importante per lui fantasticare, la serenità dei momentitranquilli e creativi. E insieme c’è il Felipe che deve essere sempre sull’attenti in un mondo difficile, fatto di soddisfazioni ma anche minacce e sofferenze.
Samuele e Antonio non condividono invece immagini particolarmente intime o personali, ma non si sottraggono a condividere qualcosa di sé, che si rivelerà comunque molto importante Samuele ci mostra la foto che ha fatto ad un graffito. Ci dice che rappresenta il livello tecnico a cui aspira: ci fa notare come le lettere sono state decostruite, come si intrecciano, come tutto ciò trasmetta un senso di movimento, di vita; la “il nome si è trasformato in un essere biologico e meccanico insieme” ci dice. Ci fa notare la precisione del tratto, spiegandoci quando è difficile realizzare un’opera del genere con gli spray.
La bellezza del codice
Antonio, molto riservato, all’inizio aveva dichiarato che non avrebbe partecipato. Quando però gli ho ricordato che non era necessario portare una foto, e al limite nemmeno un’immagine originale, inizia a trafficare con il suo telefono, gira un pò nel web e poi mi invia il suo contributo. Si tratta del codice di un software in caratteri verdi, a “cristalli liquidi” come nei monitor di un tempo, su fondo nero. “La bellezza del codice” è il titolo che gli dà. “Nessuno capisce quello che vuol dire…”, ci dice con sguardo beffardo. Aveva trovato, con il suo stile, provocatorio e protetto, un modo per contribuire al momento di condivisione; sembrava che anche la sua immagine ci stesse dicendo “per capirmi c’è bisogno di tempo, non sono così immediato”. Mi ha fatto tornare in mente quando il nostro amico Baku, uno dei più potenti coder italiani, durante una delle reading che organizzavamo tempo fa in una baita in montagna, aveva letto il Kernel di Linux, con un’espressività tale che anche a me, che non so nulla di programmazione, era sembrato di capirne i contenuti, e in cui si palesava tutta l’intensità della sua relazione con quello strano linguaggio.
Fanculo al sole!
Per ultima tocca ad Lara. Porta una foto scatta da lei, e postata recentemente su Instagram. Ritrae il suo dito medio alzato e sullo sfondo un tramonto. Poteva sembrare anche questa una provocazione (e ci sarebbe anche stata…) ma scopriremo presto che non lo era per niente. Lara ha un fare molto serio, e inizia a raccontare: “anzitutto sono molto fiera perchè questa foto mi è venuta molto bene” “rappresenta quello voglio dire…“. Ci racconta che la foto è stata scattata al tramonto, il momento per lei più bello della giornata, perchè ne segna la fine, si abbassano le ansie e può godersi un pò di tranquillità. Al contrario la mattina rappresenta per lei la fase più ansiogena: non sa cosa potrà accaderle quali problemi dovrà affrontare. La foto immortala la luce che scompare, il giorno che si congeda al quale lei da il proprio personale saluto. Il titolo, piuttosto didascalico ma efficace, è “fanculo al sole“.
Un tempo era «rock o lento?»: il rock, la velocità, la bandiera dei giovani, il lento invece cosa da vecchi. Oggi, con i «boomer» persi in un vortice di frenesia in cui si perde il senso, le nuove generazioni vogliono tirare il freno. Qualche suggestione musicale e pedagogica (e politica…).
(la prima parte è un pò da nerd musicale, concedetemelo…)
Prendere un brano e rallentarlo
Pochi sanno che tra le diverse influenze che hanno dato origine allo stile musicale della trap si annovera la strana abitudine di un dj di Houston, noto come DJ Screw, di suonare celebri dischi hip-hop a velocità rallentata. Con questa pratica, battezzata chopped e screwed, creava un particolare effetto di straniamento, e aveva raggiunto una certa popolarità.
Oggi qualcosa di simile sta avendo molto successo in rete: sempre più giovani si dedicano al cosiddetto slowed n reverb, pratica in cui si rallentano brani musicali – di qualsiasi genere, non solo hip-hop – aggiungendo però anche un riverbero che rende l’effetto «bolla» ancora più forte, generando una particolare atmosfera ovattata. Cercando su youtube non è difficile imbattersi in centinaia di questi esperimenti, a cui chiunque può contribuire senza neanche rudimenti di editing musicale: c’è un comodo servizio web che lo fa per voi, il link trovate qui. Basta scegliere il brano a cui si vuole operare questo «hack», inserirlo nel portale, e sorprendersi del risultato: se è un pezzo energetico e danzereccio sembrerà posseduto dagli spiriti (Ghosts of my life…?!), se invece l’originale possiede già un’atmosfera soffusa (Lana del Rey? Billie Eilish?) il trip è assicurato. Come copertina si può utilizzare, come fanno in molti, un’immagine malinconica presa dal mondo dell’animazione giapponese.
Atmosfere low-fi
per rilassarsi e riflettere
Il connubio tra musica d’atmosfera e immaginario anime raggiunge però il suo apice in un altro genere di grande successo oggi, il cosiddetto low-fi hip-hop, si tratta di brani musicali con la cadenza hip-hop ma solo strumentali, senza il rap, pezzi rilassanti basati su influenze jazz o ambient. Sempre su youtube si trovano diverse webradio che elargiscono selezioni 24 ore su 24 di quella che definiscono «musica per rilassarsi e per studiare….». A giudicare dal numero di ascolti, e dall’esperienza diretta, si tratta di un fenomeno in continua espansione.
il rap-confidenza
Più underground, ma non meno interessante, è quella variante “rappata” del lo-fi hip-hop caratterizzato, oltre che dalla cadenza iper-rallentata, dall’utilizzo minimale, talvolta la scomparsa, della batteria. Vi sareste mai immaginati interi album hip-hop senza un colpo di batteria? Andate and ascoltarvi l’ultimo lavoro di Ka per averne un esempio. Rappers dai nomi sconosciuti ai più (mike, mavi, navy blue…), ma che hanno sempre più seguito nell’underground, su loop che creano stranianti atmosfere, snocciolano le proprie rime affrontando intime riflessioni personali e temi sociali, dall’ansia al razzismo. Il mood è quello di una confidenza ad un amico intimo, o di un pensiero riflessivo che si fa parola, che si fa voce bassa e profonda.
L’emo-trap: il
battito lento che accompagna le parole del nuovo disagio
Ma l’elenco della musica di tendenza che si fonda su tempi «al rallentatore» non finisce qui, non possiamo non citare la emo-trap, che riprende, a modo suo, temi nichilsti e disillusi che in passato sono stati patrimonio, in anche molto differente, di gruppi come i Joy Division, Nirvana o Slipknot (so che l’accostamento farà storcere il naso a più di uno). La struttura ritmica è quella della trap, su cui però troviamo chitarre e voci che ricordano molto il grunge, ovviamente radicalmente rallentate, come se Kurt e soci si fossero ingurgitati una extra-dose di Xanax. Non a caso Xanax e marjuana sono le sostanze più citate in questi testi, utilizzate non per ricercare «vite spericolate» ma, coerentemente, come ansiolitici. Lil Peep e XXXTentacion sono gli artisti più rappresentativi di questa corrente, anzi lo erano, dato che entrambi ci hanno lasciato prima di compiere 21 anni.
L’urgenza di
respirare
In principio era il rock, i giovani prendevano le distanze dai genitori alzando la velocità. Accelerare era sinonimo di trasgressione, di futuro, di cool (pensiamo al tormentone di Adriano Celentano per cui il mondo è diviso tra rock (il nuovo, vitale) e lento (il vecchio, mortifero). E nella seconda metà del secolo scorso l’accelerazione è sempre aumentata: l’hard rock, l’heavy metal, il punk, l’hardcore, e poi la techno, la jungle e la drum n bass; i bpm (battiti per minuto) continuavano a salire in parallelo con i ritmi della società che lasciavano sempre più senza fiato.
Negli anni ’70 punk ricercava l’ «anima di chi suona» attraverso il rifiuto di ogni tecnicismo, accelerando i riff e alzando la voce che si faceva urlo; oggi invece, nel mondo di Netflix, del binge watching, dello scrolling infinito sui social network, del perpetuo rumore di fondo, della continua richiesta di accelerare ed essere performanti, l’anima i più giovani la ri-cercano nella bassa fedeltà, nelle voci calde e lentamente cadenzate. In opposizione ad un mito del progresso che mostra sempre di più le sue crepe, si impongono ritmi e atmosfere in cui si possono perdere i sensi (la condizione di biancore raccontata da Le Breton, o meglio il «Numb» dei Linkin Park) ma anche, al contrario, riconquistarli; esperienze meditative, in cui si torna a respirare, a riprendere un contatto con sé stessi e con il mondo, e immaginarne uno migliore.
Un conflitto all’altezza dei tempi che viviamo
Logorati (ma non emancipati) dalle raffiche di input del digitale più veloci di quanto si possano rielaborare, i più giovani cercano spazi in controtendenza, in cui la velocità dell’esperienza si riallinea con quella dell’organismo, perché solo così si può sopravvivere.
Si tratta di un fenomeno ancora non sufficientemente tematizzato, e non esente da ambivalenze, ma forse stiamo assistendo a nuove modalità di resistenza da non sottovalutare. Emergono nuovi spazi conflittuali che possono divenire molto importanti in futuro.
Nuove questioni educative
Queste riflessioni possiamo recepirle come curiosità, o come fenomeni interessanti dal punto di vista sociologico, però possiamo anche dargli una particolare attenzione come elementi che possono interrogare il modo in cui conduciamo il nostro lavoro. Noi, nel campo educativo, della formazione e della cura, come ci posizioniamo rispetto a tutto ciò? Averne consapevolezza può influire sulle nostre pratiche?
Possiamo ad esempio chiederci come intercettiamo queste nuove sensibilità, a che velocità e in che quantità elargiamo i nostri input, quali «spazi rallentati e di intensità», di cui questi ragazzi hanno così urgenza, possiamo allestire con loro. Siamo in grado (anche nel nostro lavoro on line) di creare setting raccolti, zone franche in cui l’incontro, la confidenza, il silenzio anche, può trovare il suo spazio, oppure anche noi siamo complici (e vittime) del vortice? Quali «hack» possiamo mettere in campo per rallentare gli stimoli, «stare» e tessere senso? Probabilmente, spinti dalla retorica della «ripartenza», la partita si giocherà sempre più su questo piano: pensiamo solo ai discorsi sulla scuola, in cui la preoccupazione maggiore sembra essere «recuperare il tempo perduto», che non potrà che alimentare nuovo abbandono. Non è una sfida facile, ma riflettiamoci, e facciamoci trovare pronti.
Per proseguire queste riflessioni potrebbe interessarti…
suggerimenti per allestire setting per il lavoro riflessivo ed esperienziale nel digitale
Condurre un gruppo in videochat non è facile, ce ne siamo resi conto tutti durante il periodo di migrazione forzata dei nostri corsi sui dispositivi digitali, e tanto più non è facile mantenere un setting “caldo”, che possa essere spazio protetto di condivisione di riflessioni personali, di lavoro con vissuti emotivi anche delicati.
Attraverso il monitor è più difficile sentirsi parte di un gruppo, il coinvolgimento emotivo è più difficile, c’è il rischio di distrarsi, anche perché partecipiamo contemporaneamente all’ambiente del gruppo in videochat e a quello del luogo in cui ci troviamo fisicamente. Inoltre i problemi tecnici possono creare forti disagi: voci e immagini che laggano, la linea che salta e ci espelle dalla piattaforma e così via.
Seguendo però alcuni accorgimenti possiamo rendere l’esperienza in videochat il più accogliente e conviviale possibile.
Ho provato allora a elencarne alcuni qui, tante di queste riflessioni e pratiche nascono dalle condivisioni e il lavoro insieme con la collega e amica Cristina Bergo:
Esplicitare insieme regole di fiducia
All’inizio di ogni nuova esperienza di gruppo può essere importante esplicitare le regole che a priori proponiamo al gruppo, dedicare un momento per deciderle insieme, regole che possano far sentire coinvolti e protetti i partecipanti. E’ importante esplicitare se la sessione sarà registrata, e in caso lo sia cosa ne faremo di quel file. Se vogliamo davvero creare un clima di complicità e intimità la registrazione andrebbe esclusa, possiamo impegnarci reciprocamente a non fare screenshot, a metterci tutti le cuffie (o isolarci) in modo che ciò che si dice non possa essere ascoltato da eventuali altre persone presenti nelle nostre case.
L’accoglienza e l’aggiornamento: anzitutto la condivisione del vissuto dei partecipanti
Un rito molto utile, all’inizio di una sessione, è quello dell’aggiornamento, ovvero il momento in cui i partecipanti del gruppo condividono qualcosa avvenuto nel tempo in cui non ci si è visti, oppure la situazione emotiva con cui si giunge al lavoro insieme. Sebbene per chiunque si occupi di apprendimento esperienziale questa pratica sia già di un must anche nel lavoro in presenza, in quello a distanza diviene ancora più importante, perchè vengono a mancare i momenti informali in cui questo tipo di condivisione possa avvenire ai margini dell’attività strutturata.
La consegna più classica di un aggiornamento è “oggi vi dico che…“, ma può anche bastare chiedere una parola ad ognuno, magari anche solo da riportare in chat (anche privatamente per chi desidera) per ascoltare e accogliere gioie, sofferenze, piccoli e grandi aspetti della quotidianità. Gli insegnanti che all’inizio delle proprie lezioni «perdono» del tempo per questo rito, possono testimoniare l’utilità nell’entrare in contatto con i ragazzi, l’influenza positiva nel processo di apprendimento.
Al posto del nome, qualcosa in più di noi: Uno stratagemma, anzi un «hack» per proporre un aggiornamento in modo semplice e rapido è quello di scrivere una parola che rappresenti il proprio stato d’animo o qualunque cosa si voglia condividere di sé nello spazio fornito da Zoom (e da molti altri software di videochat) per inserire il proprio nome.
Si tratta di una modalità creativa per “hackerare il software”: se quella feature della videochat era pensata come didascalia per riconoscere la persona in modo univoco e oggettivo, per «fare l’appello» noi al contrario la utilizziamo per amplificare la dimensione dell’interiorità, per farne qualcosa di creativo e inaspettato (nel corse delle nostre sperimentazioni lo stesso spazio lo abbiamo utilizzato anche per riportate qualsiasi cosa, persino mini-poesie).
Circolarità: utilizzare il più possibile «catene»
Simmetria e circolarità dei turni di parola sono un elemento importante in qualsiasi gruppo esperienziale. In videochat divengono ancora più importanti. Nel setting a distanza, in cui non è facile auto-organizzarsi nei turni degli interventi, in cui il rischio è che chi è più reticente al contrario si auto-escluda, è fondamentale valorizzare la presenza di ognuno accompagnando la presa di parola. Il consiglio è utilizzare il più possibile le «catene», ovvero interventi regolati dal passaparola, per riconoscersi, dare voce a tutti, incontrarsi virtualmente senza esclusioni (ovviamente nella libertà di non intervenire per chi consapevolmente preferisce non farlo).
Ritmo e consegne a risposta rapida
In videochat i tempi (e l’attenzione) sono in genere più limitati che in presenza, questo rende importante l’utilizzo di specifici accorgimenti per rendere più «leggera» e ritmata la conduzione, anche regolando gli interventi. Può a questo scopo essere utile ricorrere a consegne a risposta rapida che, se stiamo lavorando su condivisioni riflessive, allo stesso tempo facilitino «ricognizioni introspettive». Un suggerimento può essere quello di utilizzare stimoli «steli di frase» come: – la metafora: “un colore/un tempo atmosferico che indichi come sei qui oggi…“, – brevi elenchi: “tre parole (solo tre) per dire qualcosa di te oggi“.
Limitare gli interventi verbosi Sempre a scopo di tutelare spazio per tutti, un compito importante ma sicuramente ingrato, è quello di, con cordialità e fermezza, limitare gli interventi più verbosi (eventualità più frequente con gruppi di adulti che di ragazzi…).
Le sociometrie on line
Le sociometrie, introdotte da Jacob Levi Moreno, sono uno strumento molto funzionale per consentire ai gruppi di esprimersi in modo simmetrico (a tutti lo stesso spazio per pronunciarsi) su un dato argomento. In videochat – in linea con quanto detto fino ad ora – possono risultare molto utili, sebbene siano necessari adattamenti che funzionino on line.
La modalità che preferisco in videochat è utilizzare semplicemente le mani. Esempi di consegna possono essere: – mostrate con le mani un numero da zero a dieci a seconda di quanto siete a vostro agio nei seminari in videoconferenza – mostrate con le mani un numero da zero a dieci a seconda di quanto questa notte avete dormito bene Tutti possono così esprimersi contemporaneamente, e attraverso il colpo d’occhio ognuno può farsi un’idea dei pensieri, dei vissuti, del posizionamento degli altri rispetto al tema in oggetto. In seguito il conduttore se desidera può fare qualche domanda di approfondimento a qualcuno dei partecipanti, magari quelli che hanno dato i punteggi più «estremi». Si tratta di una soluzione tecnica che personalmente ho utilizzato molto, è un modo per dialogare, prendere posizione e ascoltarsi che si presta bene ai tempi della formazione in videochat.
Portare elementi di fisicità e spazialità
In videochat i corpi sono «smaterializzati», questo non vuol dire che non ci sia fisicità e spazialità. Può essere utile, per creare un setting caldo in videochat, provare a «ri-materializzare» e «rispazializzare» il più possibile la relazione.
Una possibilità molto semplice, ma efficace, può essere quella di coinvolgere nel lavoro elementi materiali presenti nello spazio fisico che i partecipanti occupano. Si può chiedere ad esempio di narrare qualcosa di sé a partire da un oggetto presente nello spazio in cui ci si trova. Si tratta di un modo discreto per «introdurre» gli altri nella dimensione fisica che si sta occupando, anche nell’intimità della propria casa.
Un’altra opzione, in cui si gioca invece con la dimensione spaziale determinata dal monitor, può essere quella di proporre un «giro di tavolo» in cui ognuno è tenuto a passare parola solo a chi occupa un riquadro in videochat confinante con il proprio. In questo modo è possibile condividere e confrontare la spazialità generata (per ognuno diversa) dal software, che regola il nostro sguardo sul gruppo e la nostra percezione «fisica» dello stesso.
Amplificare l’espressività dei partecipanti
In videochat i segnali non verbali si assottigliano. Per compensare questa mancanza un compito importante a cui può provvedere il formatore è quello di amplificare l’espressività dei partecipanti al gruppo. Per fare questo si possono «esagerare» i segni di presenza e ascolto: il conduttore può esprimere con la voce e con il corpo che sta ascoltando con attenzione, oppure ripetere in modo più espressivo quello le parole dei partecipanti, sollecitando interazioni invitando i singoli a intervenire/rispondere.
Utilizzare applicazioni d’appoggio per attività collaborative
Per il lavoro collaborativo può essere importante utilizzare in parallelo alla videochat altre piattaforme di appoggio leggere e funzionali. Le mie preferite sono i pad (istanze di etherpad.org come il già citato framapad e tanti altri) oppure, lato software proprietario, padlet (specialmente per file multimediali). Nelle nostre formazioni in videochat li utilizziamo per raccogliere traccia delle condivisioni, produrre testi e poesie collettive e digital storytelling.
Utilizzare la musica in videochat
Non appena mi è possibile, mi piace aggiungere una “colonna sonora” ai miei incontri di formazione in videochat. La musica può dare colore e calore ai momenti più vuoti, alle attese, al tempo dato ai partecipanti per eseguire un compito “sconnessi”. La musica unisce, riscalda; non di rado mi è capitato di assistere alla partenza spontanea di accenni di movimenti a ritmo che in poco tempo diventavano contagiosi, a rimarcare la partecipazione mente-corpo a un’esperienza comune.
Tecnicamente, dopo varie sperimentazioni, sono giunto alla conclusione che da un punto di vista pratico il metodo migliore è avvicinare semplicemente una cassa al microfono; l’alternativa più «raffinata», quella di mixare internamente al computer la fonte sonora musicale e quella proveniente dal microfono, è possibile ma molto complessa e non sempre i risultati sono soddisfacenti.
Gestualità condivise per comunicare in gruppo
Ci sono gruppi che per mantenere più conviviali e fisici i loro incontri in videochat hanno introdotto l’utilizzo di gesti non verbali, da affiancare alla parola. In questo modo l’inizio o la chiusura dell’incontro, oppure espressioni come “sono d’accordo!”, “non sono d’accordo!”, “voglio parlare”, “ti abbraccio” sono comunicati attraverso gesti convenzionali, un codice sviluppato dal gruppo. Per questa comunicazione non verbale si possono utilizzare le mani, le braccia e altre parti del corpo riprese dalla telecamera.
Il formatore può incoraggiare il fatto che questi gesti divengano tradizione del gruppo, includendone altri se nascono spontaneamente o se ne si sente l’esigenza.
Se si vuole amplificare la dimensione corporea rispetto a quella macchinica si può decidere di utilizzare il meno possibile (o non utilizzare) emoticons e altre features della piattaforma.
Creare qualcosa di esteticamente bello insieme
Può essere funzionale, se la conformazione del gruppo lo permette, portare i corpi al centro della scena per creare qualcosa di bello che unisca, utilizzando attivazioni tipiche del lavoro teatrale in presenza. Ad esempio: ognuno esprime come sta con un gesto, gli altri ripetono, si propongono esercizi corporei da fare insieme, sincronizzati: dallo stretching a far finta di “lavare i vetri”. Oppure si può proporre il gioco dello specchio dividendo i partecipanti a coppie e chiedendo di ripetere in camera i gesti del compagno. Sui social network durante il periodo del lockdown si sono trovati tanti esempi di questi esperimenti. Come sa chi ha sperimentato queste attivazioni, si tratta di piccoli “attimi di bellezza”: la resa estetica, il divertimento nella creazione di queste “coreografie” porta a vivere momenti di benessere che uniscono il gruppo, fanno sentire parte di una stessa comunità, anche se a distanza.
Escludere la nostra immagine dal monitor
Ci sono studi che sottolineano come uno dei motivi per cui la videochat risulta particolarmente stancante è il continuo confrontarci con la nostra immagine «specchiata» nel monitor. Siamo portati a controllare in continuazione come appariamo agli altri, anche inconsciamente, anche se decidiamo di impegnarci a non farlo. Un modo per allentare questa fatica è escludere il nostro «riquadro» da quelli sul nostro monitor, un’opzione possibile nella maggior parte di software di vedochat.
A me capita spesso di farlo; agli adolescenti invece, pur parlandogliene, so che difficilmente mi seguiranno, nella consapevolezza del fatto che il controllo della loro immagine sia per loro qualcosa per loro di molto importante, sebbene spesso fonte di sofferenza. A volte però qualcuno può decidere di provarci, e vivere un’esperienza diversa, sperimentare il rischio di una strana libertà.
Inventare adattamenti di strumenti che utilizziamo in presenza
Un suggerimento per mantenere il più possibile un setting “caldo” è di sperimentare quando possibile in videochat strumenti e tecniche che utilizziamo in presenza, anche se necessiteranno di adattamenti creativi. Ne abbiamo visto un esempio parlando di sociometrie. Non abbandonare quindi il nostro patrimonio di conoscenze di lavoro di gruppo in presenza ma dedicare tempo e immaginazione per adattarlo alla nuova situazione senza farci troppo condizionare dai “richiami” del software che spinge a un utilizzo standardizzato. Se si ci si pone in modo creativo possono succedere cose molto interessanti: ricordiamoci che anche on line si può chiedere di disegnare su carta, di chiudere gli occhi, di scolpire con il nostro corpo un’emozione. A volte bastano piccoli espedienti per adattare un lavoro in presenza nel suo corrispettivo funzionale all’on line.
Stabilire specifiche regole “di protezione” in videochat:
La videochat espone l’ immagine e la presenza personale in una modalità che può generare disagio, anche molto forte, è il caso ad esempio di molti adolescenti. All’Anno unico abbiamo deciso di porre regole a priori che potessero tutelare su questo fronte. Abbiamo così comunicato ai ragazzi che ognuno poteva scegliere se intervenire ai nostri incontri digitali:
1- con immagine e voce,
2- solo a voce tenendo spenta la telecamera,
3- tenendo spenta telecamera e microfono utilizzando solo la chat,
4- non utilizzando nemmeno la chat ma solamente come ascoltatori passivi (per quanto un ascoltatore non sia mai passivo…).
Si tratta di una scelta piuttosto in controtendenza, se pensiamo che, privilegiando la logica del controllo rispetto al benessere on line, moltissime scuola impongono ai propri alunni di mostrarsi in webcam.
Non è sempre funzionale utilizzare la chat di testo
Se come si è appena visto, in molti casi la chat di testo è utile, perchè permette di comunicare a chi è più restio a farlo attraverso altri canali che espongono maggiormente, in altre situazioni diviene un sovrabbondante strumento che aumenta il rumore e la dispersione dell’attenzione senza portare un significativo apporto comunicativo.
Ci sono gruppi, come gli attivisti per l’ambiente che sperimentano le pratiche di “work that reconnect” che, cercando di creare anche negli incontri on line momenti di forte connessione tra le persone e delle persone con se stesse (e con il pianeta), nelle proprie sessioni escludono categoricamente l’utilizzo della chat testuale nei loro incontri.
Sostenere la creazione di spazi protetti da cui connettersi
Uno dei problemi più grandi nel lavoro in videochat è l’interferenza dell’ambiente fisico in cui i partecipanti si trovano nell’incontro: può essere fonte di disturbo per via di rumori di fondo che entrano nel microfono, ma anche imbarazzo, limitazione al comunicare in libertà. Si possono suggerire al gruppo modalità per rendere più confortevole e protetta la propria postazione fisica e virtuale da cui si partecipa.
Possiamo accompagnare i partecipanti nella scelta di uno spazio il più possibile appartato; durante il periodo di lockdown abbiamo sperimentato che non c’è limite alla fantasia: abbiamo visto adolescenti dell’Anno Unico chiusi in bagno per connettersi, oppure nell’automobile parcheggiata in garage, dichiarato “l’unico posto davvero tranquillo”.
Un aspetto che può mettere a disagio, oltre la presenza di persone che “invadono la privacy” è il fatto che con la videochat gli altri componenti del gruppo “entrano in casa nostra”. Possiamo non aver voglia che si vedano i nostri ambienti domestici, per riservatezza o semplicemente perché preferiamo separare, almeno simbolicamente, lo spazio della casa da quello degli incontri pubblici. Possiamo suggerire di allestire, con teli e qualsiasi altro materiale, un postazione ad hoc, un sorta di “micro studio televisivo” in casa; oppure possiamo imparare, per le piattaforme che lo consentono, a modificare digitalmente lo sfondo alle nostre spalle, o ancora utilizzare applicazioni specifiche che creano graficamente un ambiente virtuale diverso da quello in cui siamo immersi (a volte anche modificare la nostra immagine). Questi artifici tecnici, anche se a volte sono prodotti da società su cui abbiamo più di qualche perplessità e spesso funzionano bene solo su dispositivi e reti di alto livello, possono coadiuvare nell’invenzione di situazioni di gioco e di apprendimento molto interessanti.
questo articolo è un estratto dal libro formare a distanza scritto con il gruppo di ricerca C.I.R.C.E. Qui (come in giro su questo blog) si trovano altri estratti.