Uno studio radio-televisivo fai-da-te per la formazione a distanza. A ognuno il suo, a sua misura. Questo è il mio…
Da quando ho creato la mia postazione fai-da-te per il mio lavoro in FAD (sia per condurre gruppi di adolescenti che di adulti) è cambiato qualcosa. Passare da portarsi il computer in un posto tranquillo qualsiasi della casa a prendere posizione nel proprio «studio radio-televisivo diy» può sembrare un cambiamento di poco conto, ma per me è significato un salto di qualità importante nelle conduzioni a distanza. Mi ha un po’ riappacificato con una dimensione che comunque soffro, mancandomi le possibilità didattiche del lavoro in presenza e l’intensità dell’incontro con i partecipanti. Ha contribuito a riaprire una dimensione di gioco e sperimentazione di cui avevo bisogno.
Uno spazio-soglia
Attraverso la FAD si entra nella casa degli altri, e gli altri entrano in casa tua. E’ uno degli aspetti che mi ha sempre messo a disagio, e sicuramente ha messo a disagio gli adolescenti con cui lavoro. Il problema non è necessariamente che abbiamo qualcosa da nascondere, ma la casa per ognuno resta uno spazio di intimità, si entra se invitati: in genere non si accolgono gli utenti del proprio lavoro a casa propria. Creare allora uno spazio-soglia, che rimanga all’interno della propria abitazione ma sia allestito ad hoc per la vista dall’esterno, può essere una soluzione utile. Uno spazio dotato anche di espedienti tecnici per rendere le nostre “trasmissioni” il più possibile esperienze piacevoli (sebbene si possa realizzare anche a scuola, o in qualunque altro spazio disponibile)
Anzitutto la scenografia
La prima cosa per allestire uno studio fai-da-te è provvedere alla scenografia, “lo sfondo” in cui la nostra immagine sarà incorniciata. Una scenografia teatrale, “finta” come ogni scenografia, ma forse proprio per questo ancora più in grado di accogliere e proteggere parole e relazioni che sono autentiche, un cancello “spazio-temporale” appositamente progettato per l’incontro.
Io ho creato la scenografia che tengo alle mie spalle utilizzando un copriletto indiano, a fondo blu con fantasie “psichedeliche”, appeso all’armadio con mollette e scotch di carta (che regolarmente ogni tanto cedono). A questo sfondo aggiungo qualche oggetto, che di volta in volta cambia: il mio preferito è una grande spada da guerriero fantasy che ho costruito durante un laboratorio di falegnameria con i ragazzi diversi anni fa: crea curiosità, bilancia in modo giocoso il drappo un pò troppo da santone, e mi ricorda i momenti sereni in cui con i ragazzi in cascina abbiamo costruito le nostre armi.
Sempre in un’ottica teatrale ho aggiunto al set un faro RGB a led, che può cambiare il colore della luce che emana, lo avevo recuperato per il lavoro in presenza con i ragazzi; in mancanza d’altro continua a fare il suo servizio. Non lo uso sempre perché nelle dirette lunghe diventa impegnativo per gli occhi, ma contribuisce non poco a quell’effetto di “spazio altro” e di magia che cerco (la luce che preferisco è quella rossa).
Il microfono
Per il mio studio d.i.y. ho acquistato un microfono di discreta qualità (l’unica spesa fatta ad hoc), non una spesa esagerata ma sufficiente per far sentire chiara la mia voce, canale di comunicazione “caldo” per eccellenza nell’universo universo digitale di bits e di dots. Un altro vantaggio che porta avere un buon microfono è che posso anche allontanarmi dalla postazione, camminare per la stanza magari, in particolare quando sono in «modalità radiofonica» e le mie parole si sentono ancora bene. Non essere costretti nella stessa posizione è un valore aggiunto non da poco per un’attività statica e “blindata” come la formazione a distanza.
Due telecamere?
Nella stessa ottica di permettermi il movimento, mettendo in atto un’idea dell’amico Panos (che in realtà ha ispirato tutta questa «operazione studio fai-da-te» che sto raccontando) mi è capitato di utilizzare anche due telecamere, sempre con approccio iper-fai-da-te, aggiungendo quella del cellulare alla webcam del computer: appoggio lo smartphone su una mensola ad un pò di distanza in modo che riesca a produrre una sorta di ripresa panoramica; e così nel mio studio si guadagna in fatto di possibilità di movimento e tridimensionalità.
Anche un launchpad?
La musica e in generale i commenti sonori sono importanti nelle mie formazioni a distanza. Mi piace utilizzare frammenti di canzoni ed effetti di vario genere (esplosioni di bombe, sirene da sound system reggae, spari di pistole laser…) per sottolineare momenti particolari durante le sessioni di lavoro educativo. Sebbene si possa sfruttare tranquillamente un qualsiasi lettore di musica digitale, data la mia passione gli aggeggi tecnologici per giocare con la musica, ho riadattato all’evenienza un launchpad, in modo da «lanciare» i commenti sonori con più comodità e creatività. E’ stato un pò ritornare ai tempi (15 anni fa!) della web radio «clandestina» che gestivamo con amici, Radiowatta.
Personalizzare, creare con poco, ri-incantare
Ovviamente non ho raccontato tutto ciò auspicando che insegnanti o educatori seguano le stesse modalità. Le soluzioni che ho descritto sono molto personali, talvolta anche un modo mio per divertirmi un pò (lungi da me pensare che senza un launchpad non si possa fare creative formazioni on line…) Sono forse le parole personalizzazione e creatività i concetti chiave: allestire uno spazio di confort e di gioco su misura per chi lo deve abitare e utilizzare come postazione di lavoro. Ognuno può mettere in campo le risorse che preferisce e che ha a disposizione: i propri oggetti preferiti, spazi, teli, cianfrusaglie più o meno tecnologiche.
È una dimensione di gioco che per coinvolgere i ragazzi deve coinvolgere e divertire prima di tutto noi, si tratta di un approccio D.I.Y. (Do It Yourself) un po’ punk e un po’ hacker: con poco, ri-inventando l’uso di strumenti e materiali già a disposizione, può nascere qualcosa di nuovo e di divertente che permette di resistere e costruire relazione (e portare un po’ di magia) in questi tempi inquieti.
questo articolo è un estratto dal libro formare a distanza scritto con il gruppo di ricerca C.I.R.C.E. Qui (come in giro su questo blog) si trovano altri estratti.
Il tentativo di riassumere cosa abbiamo imparato in questi due lunghi anni, per aprire riflessioni più ampie sul nostro rapporto con la tecnologia, in contesti educativi e non solo
L’inglese organic si traduce con l’italiano bio, ma il termine mantiene la radice organica, che rinvia all’organismo. Nella formazione a distanza siamo immersi in ambienti complessi che vorremmo spingere in una direzione più bio-organica. Abitare gli spazi digitali in maniera critica, libera, ecologica è una sfida dei nostri tempi.
Nel complesso riteniamo fondamentale limitare le interazioni automatiche e automatizzate con le macchine, per ampliare i margini di interazione non automatizzata. Non si tratta di contrapporre esseri umani e macchine ma di scegliere come costruire relazioni conviviali attraverso la messa a punto di pratiche e tecnologie appropriate. È quello che cerchiamo di fare con le attività di pedagogia hacker.
Di seguito riportiamo alcuni dei suggerimenti che sono emersi nelle pagine del libro Formare a Distanza, riportate con i diversi link per chi volesse approfondire le diverse questioni.
De-sacralizzare la tecnologia, dialogarci, usarla e non esserne usati
Diffidare della tecnica “risolvitutto”
Le tecnologie industriali di massa arrivano fra noi con un portato ideologico forte, anche se quasi mai esplicito. Il presupposto dell’ideologia tecnologica è semplice: ogni situazione è un problema da risolvere mediante una soluzione tecnica. Le piattaforme per l’insegnamento a distanza, ma anche le semplici videochat, condividono questo postulato.
Secondo questo paradigma educatori, insegnanti, formatori nelle condizioni di dover lavorare a distanza devono “semplicemente” imparare a utilizzare le app giuste, e ovviamente a usarle bene. Automaticamente, quasi per magia, questo «semplice» utilizzo degli strumenti «giusti» risolverà il problema… della distanza, della didattica, della formazione e così via. Automagicamente!
Invece di abbandonarci alla procedura corretta, noi pensiamo invece che cercare di abitare il disagio, anche il disagio della distanza, facendo appello alle nostre risorse creative per conciliare le istanze pedagogiche per noi imprescindibili con un utilizzo consapevole degli strumenti tecnologici.
Rimanere connessi con le istanze pedagogiche per noi irrinunciabili, poi scegliere l’applicazione più appropriata
Il primo suggerimento – parrà banale ma abbiamo osservato non è per nulla scontato neanche nel mondo della scuola e dell’educazione – e che prima di accogliere acriticamente il default dell’applicazione che i colleghi ci hanno detto essere «comodissimo», o che «qui usano tutti» è bene fermarsi e problematizzare le possibilità. E’ fondamentale anzitutto ri-connetterci con la situazione di apprendimento che dobbiamo affrontare, i bisogni dei nostri ragazzi, i nostri valori pedagogici. Le questioni da porsi devono essere: che tipo di relazione vogliamo mantenere con i ragazzi? Che tipo di ambiente di apprendimento vogliamo creare? Ci interessa un modello di didattica cooperativo o competitivo? Quanto è importante per noi la dimensione riflessiva? Quella esperienziale? Il nostro approccio si basa prevalentemente sulla dimensione cognitiva o anche su quella emotiva e immaginativa? A seconda della risposta che daremo a queste domande orienteremo in modo diverso il nostro utilizzo di strumenti tecnologici, la loro scelta e la modalità di utilizzo. Il rischio è che se invece partiamo dallo strumento e dalle sue regole: quello «che mi hanno detto funziona con i ragazzi» o «che mi ha proposto il mio collega smanettone”, sia poi lui a dettare la piega che prenderà il mio lavoro. Ricordiamoci che, in termini pedagogici, l’applicazione digitale non è strumento neutro, ma un elemento importante nella determinazione il setting. Vale nella DAD ma anche nell’utilizzo di qualsiasi tecnologia. Porsi in questo modo all’inizio non sarà facile, dovremo imparare la fatica di «stare con il problema» come ci suggerisce Donna Haraway, vivremo un momento di «crisi» , ma una crisi che può essere generativa, che ci aiuterà a non snaturare ciò che è importante nel nostro lavoro. Noi la chiamiamo attitudine hacker perchè si tratta di porsi nei confronti della tecnologia in modo critico e creativo, desacralizzante anche, per usarla e non esserne (anche inconsapevolmente) usati.
Un approccio del genere può tornare prezioso anche come occasione di riflessione sul nostro lavoro, perché, per re-inventarlo nella modalità on-line, o in generale nel digitale, siamo costretti a ricercarne il cuore, a riscoprire e ri-aggrapparci all’essenziale che muove il nostro agire. Solo in questo modo a nostro avviso potranno succedere cose interessanti; potrà nascere qualcosa di importante perché sarà qualcosa che solo noi, nel nostro contesto situato, potremo contribuire a sviluppare. E’ una questione, ci insegnano gli hacker, di provare e riprovare, sperimentare, sbagliare, “imparare a disimparare”, e riscoprire il piacere che tutto ciò può lentamente può prendere forma.
Stiamo attenti al setting generato dalle applicazioni, alla “spinta gentile” (nudging)
Le apparecchiature tecniche (macchine, software, piattaforme ecc.) non sono neutre, portatrici di un altrove fuori dal tempo e dallo spazio valido per tutti, sempre e comunque. Tutto l’opposto: creano un setting, sono portatrici di approcci epistemologici e pedagogici!
Nel momento in cui ci affidiamo in modo acritico all’applicazione, la piattaforma-macchina, in modo “gentile” e magari per noi inconsapevole, ci conduce nella sua direzione, crea un proprio setting, una situazione con regole e caratteristiche specifiche che potrebbe essere ben diversa da quella che riteniamo pedagogicamente valida.
Succede così che insegnanti in aula poco inclini alla valutazione rigida siano guidati da Google Classroom a valutare attraverso verifiche a risposta chiusa, quiz in cui la componente riflessiva viene sacrificata a favore di quella cognitiva, mnemonica, prestazionale. Allo stesso modo educatori che hanno molta attenzione per la dimensione conviviale e cooperativa, spinti dall’urgenza di trovare «animazioni on line pronte all’uso» hanno privilegiato nella loro attività a contest, challenge, produzione di «simpatici meme» che potessero funzionare bene con il gioco dei like dei socialnetwork, privilegiando ambienti educativi digitali lontani dai propri intenti originari. Non si tratta a priori di squalificare questa o quella applicazione, si tratta di utilizzare con consapevolezza.
In questo senso accade spesso che più impariamo ad «usare bene i software» e più ci uniformiamo alla loro «spinta gentile». È una forma di conformismo, o meglio di mutuo condizionamento fra umani e macchine.
È allora fondamentale essere consapevoli della direzione in cui ci induce il “piano inclinato” della piattaforma, il suo «demone» come in C.I.R.C.E. ci piace definirlo, che ha caratteristiche specifiche, interagisce con le nostre debolezze, inostri punti di forza e il nostro carattere. Più conosciamo noi stessi e la tecnologia più saremo in grado di attivare le dovute contromisure.
I formatori creativi non rinnegano le loro competenze nel digitale, ma le riadattano con un approccio originale e “do it yourself”
Per riuscire in questa sfida è importante ricordarci che molto della nostra esperienza e delle competenze che abbiamo sviluppato possono essere utili, interessanti, divertenti anche nel digitale. Obbligati alla formazione a distanza non è il caso di accantonare queste risorse, come se fossimo in un’altra dimensione, fuori da noi stessi. Come formatori appassionati non possiamo che ripartire da quello che, per la nostra esperienza, riteniamo essenziale nel rapporto educativo/formativo e dalla nostra creatività.
Dialogare e, perché no, scontrarsi e litigare con le macchine è un presupposto chiave per raggiungere che riteniamo importante che, vale la pena ricordarlo, non è portare a casa un’attività stilosa, ma la crescita e l’apprendimento significativo del ragazzo.
È fondamentale provare ri-inventare il proprio lavoro senza intestardirsi nel conservare la forma e non la sostanza. Durante i mesi di emergenza del primo lockdown abbiamo visto riportate on line situazioni didattiche impensabili prima: immaginazioni guidate, esercizi teatrali, coreografie di danza, laboratori di cucina. Nessuno vuole negare ciò che, costretti, si va a perdere, ma queste sperimentazioni hanno generato un know how in continua crescita, sicuramente utile anche quando il lavoro a distanza non sarà più imposto ma potrà rientrare nel novero delle scelte in situazioni particolari in cui altre vie non sono percorribili.
Ri-connettersi con i ragazzi
E’ scontato ripetere che la relazione, tra pari e con l’adulto, è fondamentale nel processo di crescita e di apprendimento, e nei periodi di distanza forzata ciò emerge in modo ancora più esplicito. Non sembra però altrettanto immediata la consapevolezza che curare la relazione anche nella dimensione a distanza (o in quella mista, blanded) è allora ciò da cui non si può prescindere, e che ciò va perseguito sfruttando tutti gli spazi percorribili (by any means necessary, diceva qualcuno).
Dedicare tempo ed energie nei momenti in presenza per costruire fiducia con i formatori e tra i componenti del gruppo
I gruppi che hanno funzionato meglio a distanza durante il lockdown potevano basarsi su solide relazioni costruite in presenza. Il primo suggerimento su questo fronte può allora essere messo in atto fuori dal digitale: quando un percorso è progettato in modalità mista, oppure quando rischia di subire lunghi periodi solo on line per cause di forza maggiore, è essenziale sfruttare qualsiasi momento di incontro fisico per curare la costruzione di fiducia, affiatamento, conoscenza reciproca, relazione autentica e significativa tra i componenti del gruppo e con il formatore. Ci sono tante modalità e specifiche attivazioni che ci possono aiutare a questo scopo. E’ importante avere la consapevolezza che non si tratta di perdita di tempo, anche rispetto all’apprendimento degli specifici contenuti, è un investimento che rivelerà tutta la sua forza generativa. Una consapevolezza questa che se da una parte è già patrimonio dei servizi educativi, lo è molto meno nella scuola in cui, in quest’ultimo anno «a singhiozzo», si sarebbe probabilmente potuto sfruttare molto di più i momenti di presenza a questo scopo, piuttosto che, come è spesso accaduto, caricarli solo di contenuti nell’ansia di «recuperare il programma».
una consapevolezza che vale anche per il futuro
Questo suggerimento può rivelarsi utile in futuro per chi lavora con gruppi che annoverano componenti soliti a lunghi periodi di assenza, come i ragazzi a rischio di ritiro sociale. Curare in modo particolare la costruzione della relazione con loro nei momenti di presenza potrà andare a sostenere la continuità della relazione e del lavoro formativo in quelli in cui la «crisi» si fa più acuta, in cui l’adolescente non riuscirà a frequentare la scuola o il servizio e si è costretti ad attivare un lavoro formativo a distanza.
La cura del legame sociale è tipica delle comunità resilienti; è una forma di mutuo appoggio, a ben vedere: nel momento in cui accade l’inaspettato, la “catastrofe”… la collaborazione sperimentata e la vicinanza esistente tra le persone diventa la prima leva per affrontare la situazione di crisi.
Per lavorare invece sulla relazione a distanza ci sono poi una serie di elementi da tenere presente, ne proviamo ad elencare alcune nei paragrafi che seguono
La cura della conduzione in videochat
La videochat è un contesto in cui non è immediato creare un clima di vicinanza e convivialità, importante per l’apprendimento significativo. E’ fondamentale allora curare con specifici accorgimenti metodologici e tecnici la conduzione per rendere questa esperienza il più possibile generativa. Il nostro suggerimento è riportare in videochat specifiche tecniche che sostengano la creazione di relazioni intersoggettive, a partire dal sostenere dinamiche di orizzontalità e simmetria. Strumenti quali le «catene» e le sociometrie possono essere un buon punto di partenza, come è stato approfondito qui.
E’ stato inoltre sperimentato che permettere al ragazzo di scegliere, all’interno della stessa videochat, la modalità di presenza e comunicativa a lui più congeniale lo porti a sentirsi maggiormente a suo agio e disponibile all’apprendimento. L’idea è premettere a priori la possibilità di utilizzare la videochat nell’opzione audio-video oppure solo audio, oppure di comunicare solo la chat di testo. Si tratta di un approccio che forse per molti può apparire controintuitivo, tanto che spesso nelle scuole si è ricorsi all’obbligo di mostrarsi in webcam, una soluzione che ha messo a disagio un alto numero di adolescenti, contribuendo in diversi casi a fenomeni di dispersione e ghosting. Il discorso va a toccare diversi temi di riflessione, primo fra tutti l’aspetto problematico e ansiogeno che gli adolescenti, e in particolare quelli cresciuti in tempi più recenti, hanno con la gestione con la propria immagine e la sua riproduzione mediata. Permettergli di «rifugiarsi» allo sguardo dell’altro diviene per loro un’opzione molto importante per abitare con serenità nel contesto di apprendimento.
Nelle situazioni di gruppo in presenza c’è sempre la possibilità di comunicare individualmente tra le persone, e le occasioni per il formatore di relazionarsi individualmente con l’allievo non mancano: ci sono i momenti destrutturati come gli intervalli in cui ci si può incontrare e scambiare qualche parola, ma c’è anche la possibilità di incrociare sguardi in aula, indirizzarsi messaggi più o meno verbali durante l’attività, anche in mezzo a tante persone. Nelle interazioni digitali tutto questo diviene molto più difficile se non impossibile. Ecco allora un paio di semplici possibilità che possono rivelarsi utili per mantenere, in parallelo alla videochat, una relazione individuale con i ragazzi:
affiancare a momenti di videochat in gruppo incontri individuali a distanza a cadenza regolare: un lavoro faticoso ma che, come viene raccontato qui, si è rivelato di fondamentale importanza per chi lo ha sperimentato, in particolare nel lavoro con i ragazzi a maggiore rischio dispersione. Può essere un altro momento in videochat 1 a 1, anche se la situazione più funzionale in molti casi si riveli l’ «antica» telefonata.
inviare messaggi individuali periodici con contenuti molto personalizzati. Possono essere restituzioni riguardo attività scolastiche o animative oppure semplicemente messaggi con il solo fine di creare un contatto, il cui significato sotteso è «ci tengo a te in quanto te». Spesso non è neanche necessario che abbiano una risposta, altre aprono degli scambi molto importanti, per costruire relazione, per far emergere problemi.
Attraverso la relazione individuale con i ragazzi mantenuta a distanza è possibile inoltre raccogliere elementi sull’esperienza che i singoli ragazzi stanno vivendo nei propri contesti, elementi che risultano molto utili anche per il lavoro nell’aula virtuale: se il conduttore conosce gli stati d’animo e i vissuti individuali dei ragazzi può trovare il modo per relazionarsi a loro nel gruppo nel modo più appropriato, e potrà, se lo ritiene opportuno e con il permesso dei singoli, portare al gruppo con sensibilità e delicatezza alcuni temi individuali.
Trovare modalità inconsuete per far sentire che siamo vicini ai ragazzi
Inviare messaggi o fare colloqui individuali è quindi un modo per far sentire la nostra vicinanza ai ragazzi, al di là del mandato formale dell’apprendimento in una specifica disciplina. Un ulteriore modo per rafforzare questo messaggio è elargire piccoli «regali» non dovuti. Ad esempio all’Anno Unico (si veda qui) gli adolescenti hanno molto apprezzato la cura con cui il materiale che loro producevano a casa veniva valorizzato, impaginato, trasformato, remixato dai formatori senza che rientrasse nei loro “doveri formativi”. Questo ha contribuito a creare maggiore affiatamento e connessione anche a distanza. Anche quando come ora non si è obbligati ad una prolungata distanza forzata, ma si condivide una situazione di disagio, il regalo, l’eccedenza possono essere un elemento prezioso per creare legami e un clima di supporto reciproco, al di là dei ruoli.
Mettere al centro la persona che apprende. Quali necessità ha? Si apprende a distanza solo se si è fortemente motivati a farlo
Sul fronte dei contenuti, apprendere a distanza richiede grande motivazione; esserci nel digitale è faticoso, i discenti ci sono se sentono che ne vale la pena.
Può essere allora utile selezionare le attività da proporre in line a partire da quelle che possano rispondere alle loro urgenze, desideri, che li aiutino a costruire un senso rispetto al vissuto personale, che non siano percepite solo come un tentativo di «riempirgli il tempo», oppure di reiterare in modo meccanico e asettico modalità e contenuti molto distanti da loro.
La questione può essere riassunta così: “Siamo lontani, ma se sentiamo che ci sono valide ragioni per esserci (al di là del voto), noi ragazzi ci siamo“
Limitiamo la presenza in ambienti digitali. È anche una questione di ecologia: ambientale, mentale, relazionale
Un cosa certa è che il ritmo della macchina non è il ritmo dell’umano. Perciò dobbiamo imparare a stare con cautela nello spazio della macchina, in particolare se gestito da piattaforme di massa. I corpi umani soffrono le velocità di sollecitazione del digitale di massa, la quantità di stimoli compressa e incessante. In un’epoca in cui siamo sempre connessi, in particolare gli adolescenti, è molto importante riuscire a valorizzare nel lavoro educativo a distanza anche i momenti di «disconnessione», di allontanamento dagli schermi.
Ecco due piccoli hack possibili per contenere i tempi di video, rivolti in particolare alla formazione con adolescenti ma applicabili in maniera più generale.
Innanzitutto, è sano fare videochat brevi. Un’idea può essere fare un breve momento in diretta, dare una consegna, un compito, e poi disconnettersi per riconnettersi più tardi per un momento di restituzione. Questo aiuta anche a dare un “ritmo” al tempo dei ragazzi senza “stordirli” eccessivamente.
Ancora, è possibile, durante una sessione di videochat, proporre momenti in cui ognuno si allontana dal monitor per ascoltare solo la voce di chi sta parlando, oppure per fare brevi attività unplugged, di fatto disconnessi anche se con la connessione attiva.
Rarefare i momenti on line è anche utile per ridurre il digital divide: chi non ha dispositivi adeguati e connessioni veloci avvertirà maggior fatica nel corso di attività online prolungate. Ancora una volta il mondo connesso tende ad amplificare le diseguaglianze preesistenti nel mondo disconnesso.
Attenzione! Passare meno tempo collegati on line non vuol dire che le menti, corpi, «anime» siano meno connesse. Fondamentale è la qualità della relazione, non la quantità dei minuti-monitor! Altrimenti passa ancora l’idea del setting che quantifica, che ci comunica automaticamente quanto tempo siamo stati connessi come se il tanto fosse una garanzia di riuscita.
Valorizzare l’interazione asincrona.
È utile ridurre i momenti in chat e invece valorizzare i momenti di interazione asincrona. Nella formazione tradizionale si riducono a essere “i compiti a casa” ma, ispirandoci all’approccio delle flipped classroom, possiamo valorizzare il momento di incontro individuale con stimoli di apprendimento, che in seguito viene socializzato e rielaborato in gruppo e con il formatore (il momento di interazione sincrona). Privilegiare questa direzione significa sfruttare il vincolo della distanza per sostenere l’autonomia degli studenti e invitarli allo sforzo di confrontarsi direttamente con i temi di apprendimento, evitando la postura passiva che spesso è generata dalla lezione frontale.
L’importanza di abbassare il rumore
Limitiamo al massimo le notifiche. Ad ogni file, messaggio, contributo che inviamo nel digitale corrisponde una notifica: cerchiamo di essere responsabili del numero minore possibile. Le notifiche sono quasi letteralmente “spilli”, che pungono la pelle, stimolano il cervello e mantengono uno stato di tensione continua, una sorta di attenzione che non genera profondità e intensità ma stress performativo. Nelle situazioni di stress l’apprendimento significativo è inficiato in maniera sostanziale.
Cerchiamo di utilizzare il un minor numero di canali nelle situazioni multimediale di apprendimento, allo scopo di ridurre il numero di stimoli e quindi favorire la focalizzazione dell’attenzione. Ad esempio in videochat si può decidere tutti di non utilizzare la chat testuale, o di chiudere la telecamera e quindi togliere lo stimolo del monitor generando un’atmosfera «radiofonica».
Non esistono regole generali valide per tutti e sempre, ma di certo la scrittura della chat non è meno emotivamente coinvolgente del video: anzi, se l’obiettivo è creare intimità e confidenza, la chat può svolgere un ruolo fondamentale.
Il canale “caldo” più sottovalutato: la voce
È importante ricordarsi che la voce è un medium più caldo del video. Non significa che emotivamente le immagini sono meno coinvolgenti, ma che la voce è più efficace nel momento in cui vogliamo creare intimità, confidenza (così come le immagini in bianco e nero sono più calde di quelle a colori): quando dobbiamo confidare un segreto preferiamo farlo in penombra, in un “setting notturno”. Nell’oscurità i contorni delle immagini si sfumano, si smussano i confini e questo ambiente ci protegge e ci fa sentire più vicini. Tradotto in una prospettiva di educazione a distanza, può essere importante valorizzare la radio (in diretta), il podcast (una registrazione che si ascolta in differita), ma anche semplicemente rivalutare la “vecchia” telefonata, a tu per tu, “solo” voce.
A questo proposito possedere un microfono discreto può essere importante, più della risoluzione del video. Se vogliamo fare un salto di qualità tecnica, ecco un buon investimento: microfoni adeguati, direzionali se servono per portare una singola voce, ambientali e panoramici se devono restituire più voci e suoni. Anche con un computer portatile un microfono usb esterno può fare la differenza fra una sessione disturbata e disturbante e un’esperienza più gradevole.
Relazionarsi con elasticità, e se serve trasgredire, le aspettative istituzionali
Marta Milani nel suo racconto sulla re-invenzione a distanza dei corsi di italiano L2 (Clinamen: italiano senza confino) ricorda che il fatto di essere all’esterno di un quadro istituzionale determini per loro “una situazione fortemente privilegiata”. Non possono certo dire lo stesso gli insegnanti della scuola: l’istituzione non transige al rispetto del programma, e, anche ai tempi di diretta in videochat, rimane aggrappata alle classiche modalità valutative, rigidamente programmate, quantificate.
I vincoli che attanagliano chi è costretto a fare formazione a distanza però possono però essere anche auto-imposti: non pochi formatori ed educatori si sentono responsabili della replicazione di modelli più o meno calati dall’alto tanto che faticano a fare un passo indietro rispetto a quelli, anche nelle situazioni di emergenza.
Per una formazione a distanza il più possibile funzionale, è invece spesso imprescindibile la trasgressione a questi vincoli, esterni e/o autoindotti, e prendere le distanze dal «dover fare» e re-impostare le proprie coordinate. Sono diversi i tempi di lavoro in situazione sincrona (condivisione delle stesso spazio-tempo e focus di attenzione), la condizione emotiva, la possibilità di utilizzare strumenti didattici; quindi anche gli obiettivi e le priorità devono essere diversi.
La macchina burocratica impone 5 ore al giorno di formazione in videochat ma lo ritenete una follia? Connettetevi, lasciate aperto e il log e poi inventate modalità di lavoro alternative, come riportato nei paragrafi appena precedenti.
Non vuol dire che si debba per forza «puntare in basso» rispetto i contenuti ma re-impostare sì, anche senza chiedere il permesso. Dobbiamo ripartire dall’essenziale, da quello che maggiormente puoi dare alle persone verso cui hai responsabilità educative, al di là di quanto scritto precedentemente sulla carta. Se vogliamo creare dobbiamo agire veloci, anche un po’ da clandestini svicolando tra le griglie dell’istituzione, e delle nostre rigidità.
Utilizzare il più possibile F/LOSS (Free/Libre Open Source Software)
Le piattaforme e gli strumenti digitali non sono tutti uguali. Quelli che prediligiamo sono spesso leggeri, poco esosi in termini di risorse; sono molteplici, perché tendono a far bene una cosa sola e non a proporsi come soluzione unica per qualsiasi necessità; spesso non ci chiedono nessun login e nessuna password, e quando accade sappiamo dove stiamo entrando, a casa di chi siamo quando accediamo a un determinato servizio; non raccolgono dati e metadati dalle nostre attività per profilarci e propinarci pubblicità e prodotti personalizzati.
Nel libro «Formare a distanza» ritornano spesso citati Nextcloud, Jitsi, Etherpad, ma ne esistono tanti altri. Sono F/LOSS, cioè programmi che si possono modificare per contribuire ad ampliare le libertà personali e collettivi attraverso il digitale. Di certo non sono gratis: costano tempo ed energia per imparare ad averci a che fare, talvolta denaro se non siamo capaci di gestirli da soli. Perché se il software è gratuito, la merce siamo noi, con le nostri gusti, le nostre abitudini, le nostre relazioni.
Questo è tanto più vero per le piattaforme di e-learning: come spiega Graffio (nella sezione Didattica dello stesso testo, questo il link), il metodo di insegnamento viene piegato dalle piattaforme proprietarie, proprio perché non sono strumenti neutri al nostro servizio, ma portatrici di interessi economici in primo luogo. Per non parlare del fatto che, se immagazzinano dati personali degli utenti negli Stati Uniti, non rispettano la legislazione vigente in tutta Europa in fatto di privacy (GDPR), come dichiarato dalla Corte di giustizia europea.
Una provocazione per chiudere: Formazione a distanza senza il digitale?
Chiudiamo questa “introduzione” con una provocazione: è possibile fare formazione a distanza senza il digitale?
Alcuni docenti, quando le scuole sono state chiuse a fine febbraio ma non era ancora scattato il lockdown, hanno fatto il giro delle abitazioni dei loro studenti per portagli “pacchi” con il materiale per il lavoro a distanza, o lettere per comunicare la propria vicinanza e dare qualche consiglio su come vivere quel momento difficile.
Con questa suggestione non vogliamo sicuramente sminuire il ruolo fondamentale che il digitale ha avuto e sta avendo in un periodo così difficile. Vogliamo solo ricordare che il digitale non deve annullare la nostra saggezza e creatività analogica, è una presenza (spesso utile) in un mondo che è molto di più. Per noi essere hacker è proprio questo, saperci porre con le macchine in modo creativo senza esserne usati, senza che divenga il quadrato di gioco totalizzante che soffoca la nostra generatività.
questo articolo, scritto con CARLO MILANI, è un estratto dal libro formare a distanza scritto con il gruppo di ricerca C.I.R.C.E. Qui (come in giro su questo blog) si trovano altri estratti.
Quale presente? Quale futuro? La musica più indigesta degli adolescenti apre a inaspettate riflessioni
Avevo raccontato ai ragazzi la storia dell’hip-hop attraverso video musicali, era stata una lezione seguita con attenzione. Sebbene si ragionasse principalmente sulla dimensione musicale e storica, avevo come sempre anche portato qualcosa di me, sottolineando quanto alcune canzoni mi avevano segnato, avevano contribuito a dare senso al mio percorso di adolescente, mi avevano dato conforto e voglia di reagire.
Lorenzo, forse proprio ispirato da questi miei frammenti autobiografici, ad un certo punto si alza ed esclama “ce l’ho io un video!” e propone di guardare quello che, secondo lui, non si poteva perdere se si voleva parlare rap «che conta»: 6 A.M. del produttore hip-hop Night Skinny.
Sebbene sapessi bene chi fosse l’artista – avevo avuto modo anche di conoscerlo personalmente perchè aveva prodotto i beats per il mio amico (e grande rapper, e insegnante, e educatore…) Andrea “Mastino” – quel video me l’ero proprio perso.
La parte strumentale è opera dello stesso Night Skinny, mentre quella vocale affidata a Izi e Gue Pequeno; due personaggi, in particolare l’ultimo, su cui ho sempre avuto molte resistenze dati i clichè di cui si compongono spesso le sue canzoni.
Avevamo però un pò di tempo e dico ok a Lorenzo. I venti minuti successivi sono stati un momento davvero stimolante di riflessione non solo sul rap e la trap, ma in generale sui vissuti degli adolescenti attuali, e sul mondo in cui viviamo.
Guardiamo allora il video insieme, è davvero fatto bene, è realizzato completamente in animazione; per 4 minuti rimaniamo in silenzio e lasciamo che le immagini animate evocative che ci scorrano davanti agli occhi.
Vi consiglio di guardarlo anche voi, poi andate avanti a leggere
Al termine chiedo ai ragazzi di provare a scegliere un’immagine, un fotogramma che gli risuona particolarmente, che sentono come significativo (in genere questa semplice consegna è un buon punto di partenza per lavorare in modo riflessivo ed esperienziale su uno stimolo video).
L’infanzia serena
La prima scena che evidenziano, e sui cui convergono in molti, sono le 7 sfere del drago. Io, che per motivi generazionali, Dragon Ball andrò a guardarmelo solo dopo quel giorno (chiedo scusa al mondo…), non le avevo neanche riconosciute. Mi spiegano che nell’anime ci sono queste 7 sfere (da cui il nome della serie) sparse per il mondo. Chi riesce a trovarle tutte può esprimere un desiderio al drago (che compare anche nel video nel fotogramma successivo) che lo esaudirà. Una volta esaudito le sfere si ridistribuiscono immediatamente in diversi luoghi remoti del pianeta (non pensavo che un lavoro a tema hip-hop ci avrebbe anzitutto portato così in fretta sui lidi della pedagogia nerd).
I ragazzi spiegano che questa scena è importante per loro perché nella vita i desideri sono imprescindibili, ed è stupendo quando si realizzano. Dopo questa prima dichiarazione parte un momento reverie: si accavallano i ricordi di quando erano bambini, il tempo dell’innocenza in cui erano convinti che il mondo fosse bello e la vita pronta ad esaudire i propri desideri. Collegano questi pensieri ad altre immagini presenti nel video, quelle dello scooter e del Nokia 3310, rievocando il periodo pre-smartphone, evocandolo come il tempo storico dell’autenticità, prima che, sostengono, l’avvento del digitale e dei social network rendesse tutto finto.
La sensazione da accogliere di un futuro minaccioso
E’ interessante come i ragazzi abbiano sottolineato per l’esistenza per loro di due passati mitici: quello dell’infanzia e quello storico, datato quest’ultimo solo un decennio prima, un’ «epoca dell’oro» vista come molto diversa da quella attuale. I ragazzi oggi spesso associano al tempo presente la perdita di autenticità, e hanno uno sguardo negativo verso il futuro. Se vogliamo capire gli adolescenti di oggi è fondamentale avere la consapevolezza di questo loro vissuto, senza sminuirlo. Si sottolinea come “il mito del progresso” – ancora fortemente radicato nell’immaginario di molti adulti – nelle nuove generazioni sia sempre più labile, se non, come in questo caso, abbia cambiato di segno. La storia non viaggia più in modo lineare verso «il meglio», lo sviluppo tecnologico non è più garanzia di benessere presente e futuro per l’uomo. Un tema che come vedremo, sarà al centro di molte riflessioni stimolate da questo video.
LASCIARSI ANDARE
Interrompo lo scambio di ricordi e nostalgie per i tempi passati e chiedo se qualcuno voleva portare un’altra immagine tratta dal video. L’insetto morto con intorno le pastiglie! dice Laura. Anche qui in molti annuiscono. Laura dice che da un’idea “di schifo”, di trasandatezza, “come quando una persona lascia andare tutto, perché non ha motivi per vivere“. Racconta che ci sono stati e ci sono tutt’ora momenti vissuti così, e che succede a tanti, l’ha visto anche in amici e parenti. Gli altri annuiscono. Emerge il tema delle sostanze, di come le utilizzino come un lenitivo, “una sorta di medicina che non ti fa pensare, ti anestetizza ma ti riduce ma poi ti fa diventare apatico“. Un’immagine molto lontana da quella “cool” associata alle droghe che la maggior parte delle volte presentano quando ne parlano. Mi colpisce, si aprono preziosi spiragli di autenticità, da gestire con delicatezza. Ecco un altro elemento sempre caratterizzante gli adolescenti oggi: le sostanze, più che strumento conviviale di trasgressione, o per farsi viaggi «oltre le porte della percezione», sono sempre più utilizzate come anestetico, come un farmaco ansiolitico, e magari consumate in solitudine.
QUANDO MORIREMO? QUANTO TEMPO MANCA?
La terza immagine che emerge dal gruppo è il fantasma che balla in una piazza Duomo di Milano in rovina, in un efficace remix visivo di Betty Boop Snow White di Max Fleischer. Ritorna ancora il parallelismo tra la decadenza individuale a quella storico-sociale. “La civiltà sta finendo in fondo al mare” dice Lorenzo!
“Quando moriremo?” si chiede Luca “E per cosa? Sarà per il riscaldamento globale, per le guerre… Quanto tempo manca?“ La domanda riverbera tra i ragazzi quando Lorenzo incalza: “La verità in questo video è quando si vede la pantera sulla Lamborghini distrutta: la natura è più importante della ricchezza, alla fine vincerà la natura, la ricchezza dura poco, vale poco“
L’immagine è davvero forte, e in un attimo stravolge tutti gli stereotipi monodimensionali della trap e della lettura spesso superficiale che ne fanno gli adulti. Un anno prima aveva riscosso grande successo la canzone «Lamborghini» di Guè Pequeno insieme a Sfera Ebbasta, lo stesso che canta una delle due strofe del pezzo su cui stiamo riflettendo. In quella canzone, uno degli inni della trap tricolore, Guè dichiarava: “oggi mi sposo con i money, i soldi per me sono dio”. In 6.A.M. invece la stessa Lamborghini è andata a schiantarsi, e una pantera nera cammina sopra la carcassa.
Il doppio sogno
Proponendo qualche tempo dopo ad un gruppo di educatori il video «Lamborghini» insieme a «6 a.m.», proprio per discutere di questi temi, è emersa una riflessione molto interessante. Un collega ha condiviso come, posto di fronte a questi due stimoli, gli fosse parso di aver assistito ad un «doppio sogno». Lamborghini, di Gue Pequeno e Sfera Ebbasta rappresenta la dimensione diurna, racconta la superficie, rappresenta la narrazione che spesso (con nostro disappunto) ci restituiscono i ragazzi. Il video di 6.a.m. è invece la sua controparte notturna, il sogno, o meglio l’incubo, che rappresenta l’indicibile, la voragine, ciò che (anche dalla trap) si percpisce ma non è confidabile nemmeno a se stessi, pena la destabilizzazione (qualcosa che forse ha a che fare con il concetto lacaniano di reale?).
Il giorno è «la narrazione della trap»: ciò che conta nella vita è il denaro, il sesso predatorio, essere vincenti senza scrupoli, «farcela» in modo da essere ammirati e temuti. E’ il copione “diurno” che si dispiega nei discorsi in gruppo dei ragazzi: “è così la vita fra..” ci dicono, quando proviamo ad obiettare.
Il video 6 a.m. apre invece ci dice cosa c’è sotto a questo racconto: sappiamo inconsciamente che tutto ciò non ci porterà a essere felici, a stare bene, è solo il gioco che ci sentiamo obbligati a giocare. In realtà questo ci può portare all’annientamento, nostro e del pianeta. Ci dice anche che i ragazzi (e molti tra gli artisti stessi), più o meno consapevolmente, lo avvertono, e lo soffrono. Al di là infatti di 6.A.M. in cui questo «svelamento» è molto esplicito, in diverse canzoni trap troviamo un verso, nascosto da qualche parte nel testo, in cui si riconosce l’illusorietà di tutto questo immaginario, la consapevolezza della dimensione distruttiva di questo racconto a cui, si dice, non ci sono alternative (e quindi tanto vale abbracciarlo, ed esaltarlo).
La trap come volto senza veli del racconto della nostra società
Noi adulti spesso ci poniamo nei confronti di questa iconografia, in modo scandalizzato e moralistico, con l’urgenza di allontanare i ragazzi da rappresentazioni cariche di dis-valori. Forse però molti di questi elementi negativi – il mito del successo personale, l’individualismo, l’esaltazione del lavoro che conferisce status, denaro e potere – sono semplicemente la narrazione prevalente della società che abitiamo, non della trap, una narrazione che in certi suoi elementi talvolta anche la scuola e i servizi educativi strizzano l’occhio. I testi di cui parliamo hanno solo il pregio/difetto di estremizzare tutto ciò, di amplificarlo, di presentare esplicitamente il suo vero volto, che è rivoltante, ce lo mostrano come «il pasto nudo sulla forchetta», come direbbe William Borroughs. E se fosse proprio «stare», esplorare questa realtà insieme senza aver paura di reggerne lo sguardo, un punto di partenza per affrontarlo educativamente? Può essere utile esplicitare anche le nostre fragilità e senso di impotenza, invece che subito invitare a «pensare positivo»?
LA DONNA CHE PIANGE
Tornando al lavoro in aula, a questo punto sembrava che di riflessioni ne fossero emerse già tante e molto significative e che si poteva andare verso la conclusione, quando ancora Lorenzo, con il solito tono di chi la sa lunga, alza la mano: “si, va bene tutto questo, ma c’è un’immagine che è più importante di tutte le altre, e non è nel video: è la copertina della canzone” La cosa mi incuriosisce molto, la cerco in rete, la trovo facilmente e la proietto.
Rappresenta una donna, ben truccata, con una sigaretta tra le dita; strani segni dagli occhi le attraversano le guance, lacrime stilizzate.
Decido allora di utilizzare la tecnica dell’ “esplosione della storia”: quando stiamo lavorando su un’immagine o un video in cui c’è qualche personaggio che colpisce in modo particolare, ma di cui si hanno poche informazioni, un buono strumento per facilitare l’approfondimento riflessivo è quello di provare a narrare la sua storia, inventandola a partire dalle proprie risonanze. Chiedo allora a Lorenzo di raccontarmi, attraverso la sua immaginazione, chi è quella donna.
Lorenzo inizia senza esitazioni a «illuminarci»: “Si capisce che quella che sta fumando non è una sigaretta normale. Vedi quei puntini? È cocaina. È un’immagine perfetta per le sei di mattina: lei è andata a ballare, si è fatta di ogni cosa, ha appena scopato con uno sconosciuto. Ora piange perché ha paura di essere rimasta incinta”
IL PRESCELTO CI SALVERA’
Mi colpisce la sicurezza con cui Lorenzo racconta la storia. Un pò per stimolare la riflessione, un pò perchè io personalmente curioso, gli chiedo se è davvero incinta, e se in caso terrà il bambino: “Si, è incinta e questo bambino nascerà” “E ci sai dire qualcosa di questa creatura?” “Il figlio che nascerà sarà un illuminato: non porterà le colpe della madre e salverà il mondo, dichiara il ragazzo con perfetto tono da profeta”
Finisce così la storia e finisce il tempo che avevamo a disposizione.
UNO SPAZIO DI AUTENTICITA’ DA ATTRAVERSARE CON SENSIBILITA’
Questo video ha aperto uno spazio di riflessione davvero ampio, per loro, per me. E’ stato occasione di dialogo autentico tra noi, il video è stato l’oggetto mediatore che lo ha reso possibile, ogni volta che questo accade penso quanto sia importante prendersi del tempo per questo tipo di attività, e quanto sia importante sospendere il giudizio e lasciarsi attraversare e magari sorprendere.
I ragazzi attraverso le immagini hanno raccontato momenti sereni della loro infanzia, e hanno tematizzato il disincanto per il progresso e il timore per il futuro, il fatto che nella loro esperienza che non possiamo liquidare con facilità, oltre il ricordo malinconico del passato (biografico e storico), restano solo due alternative: seguire le parole d’ordine imperanti nella società fino al baratro, facendo finta che questa menzogna sia vera, oppure riconoscerne la tragicità, ma ammettendo allo stesso tempo anche la propria impotenza.
E IL FUTURO?
In tutto ciò però il futuro non è completamente scomparso, c’è ancora spazio per essere citato dai ragazzi, ma è una luce in lontananza, una speranza ancora viva ma non ritenuta a portata di mano. Il futuro più vicino è invece un futuro-catastrofe, una catastrofe che però è in qualche modo catartica, è l’unica cosa che può rimettere le cose al loro posto: la pantera che cammina sulla Lamborghini distrutta, in un panorama in cui l’uomo non si vede più, forse si è estinto, o forse è rifugiato e ha voglia di ri-inventarsi in un modo realmente e radicalmente diverso.
Molti adolescenti di oggi (certo non tutti) sentono che la loro generazione è già politicamente persa, già troppo invischiata in logiche mortifere, troppo deboli i legami e troppo in loop vittima di algoritmi efficacissimi. La speranza allora è che sarà qualcun altro a portare il nuovo (interessante notare come il cambiamento non sia concepito come risultato di una lotta collettiva ma dell’intervento di un singolo salvatore, «il prescelto»).
I più giovani, soprattutto quelli più sensibili, portano il peso di un’impotenza che non va minimizzata, ridimensionata, “basta lottare tutti insieme, cosa ci vuole? vuoi nuove generazioni siete dei rammolliti, guarda ai nostri tempi!“. Per quanto controintuitivo forse è importante imparare a sostare anche noi in questo senso di impotenza che caratterizza la nostra epoca, che per molti versi è un pò anche nostro, ma non abbiamo il coraggio di ammetterlo (noi ce la caviamo dicendo che tocca a loro, che noi siamo troppo occupati, rivelando la nostra essenza di cronofrettici, usando il bel neologismo di Vincenza Pellegrino). Forse abbiamo proprio bisogno di tempo, per ascoltare la sofferenza della frenesia e dell’impotenza, e poi cominciare a tessere alleanze, ricreare nuove comunità con nuove parole d’ordine, provare a inventare nuovi racconti. E forse dobbiamo farlo con loro, incontrandoci in modo autentico senza giudicarci, come è accaduto quella mattina a scuola, a partire da un video trap.
Dal soggetto di un video musicale scritto in modalità partecipativa emerge il desiderio di rallentare e di incontro autentico (ora più che mai)
Ecco fuori dal cassetto il racconto di un’attività fatta con i ragazzi in tempi “pre-covid”, ma che non perde oggi la sua attualità, anzi. In un’epoca di legami deboli e di iperstimolazione, che con la pandemia si sono trasformati in isolamento e sovraesposizione ai dispositivi digitali, i ragazzi cercano spazi dove il ritmo rallenta, e alla base c’è la qualità della relazione. E noi educatori/formatori/insegnanti come ci poniamo?
L’idea di Filippo Corbetta, regista e amico, era semplice e forte: raccontare nel videoclip a cui stava lavorando la fuga di due ragazze adolescenti dalle aziende in cui erano in stage. Una sorta di Thelma e Luise dei giorni nostri: la prima ruba il furgone dell’azienda in cui è ospitata, va a recuperare la seconda che – all’inizio un pò titubante – sale a bordo, e insieme fuggono via.
La questione centrale per la stesura del copione era a questo punto capire dove sarebbero potute andare. Filippo aveva qualche idea ma era convinto che chiedere direttamente ad adolescenti della stessa età delle protagoniste sarebbe stato molto interessante e più realistico. Concordiamo allora una data in cui sarebbe venuto a trovarci all’Anno Unico per discuterne con i ragazzi.
OGNI INCONTRO E’ PREZIOSO
Il giovane regista si siede così tra di noi in classe un giovedì mattina. Prima di entrare nel vivo dell’argomento decidiamo, come sempre accade quando abbiamo ospiti, di chiedergli di raccontarci la sua storia. In un mondo difficile da decodificare come il nostro ascoltare storie di vita, soprattutto di chi non ha molti anni più dei ragazzi, è sempre preziosissimo. In particolare era interessante ascoltare la storia di una persona che per passione ha scelto la professione di filmmaker, consapevole della difficoltà di portare avanti il proprio progetto. Gli stimoli di riflessione emersi in poco tempo sono stati moltissimi: cosa vuol dire vivere di “arte”, la precarietà, le soddisfazioni, i compromessi, i momenti di sconforto, i viaggi, la necessità di imparare a mediare tra le richieste del committente e la propria ricerca artistica e tanto altro.
ALLA RICERCA DI IDEE PER IL VIDEO
Chiusa questa parte abbiamo avviato il “focus group” per la raccolta di idee per la sceneggiatura del video. I ragazzi all’inizio erano un pò reticenti, come è giusto quando si incontra una persona nuova, in breve tempo però la discussione si è animata.
La domanda di partenza è quindi stata “dove andresti con una tua amica/o se aveste un furgone a vostra disposizione?”
Se qualcuno tra i lettori ha immaginato che i ragazzi avrebbero risposto “a fare shopping”, “a divertirsi, a spaccarsi!” non conosce bene i “nuovi” adolescenti. Certo, tra le tante idee all’inizio sono emerse anche questo tipo di proposte, ma quella che infine ha prevalso è stata ben diversa.
ALLA RICERCA DI SPAZI DI VUOTO E INCONTRO
Quello che maggiormente emerge dai suggerimenti dei ragazzi non è stata una meta ricca di stimoli, di rumore, di persone, ma uno spazio di tranquillità, di intimità, di vuoto:
In riva al mare la sera! in una fabbrica abbandonata! a parlare, a fumare una sigaretta con calma… al tramonto… ci dicono
si è imposta la ricerca di uno spazio sereno, “notturno”, al riparo dalla frenesia del quotidiano. Passa quindi l’idea della fabbrica abbandonata.
OGNI POSTO TRANQUILLO NON E’ MAI TRANQUILLO
Barbara prima si lascia cullare dall’idea che i protagonisti guadagnino la propria tanto ambita tranquillità, ma poi rimane pensierosa; rialza lo sguardo dicendo agli altri che nella realtà non si può mai stare tranquilli, c’è sempre qualcuno che mette i bastoni tra le ruote. Propone allora che ad un certo punto spuntino fuori dei bulli, maschioni seducenti, che si riveleranno poi personaggi senza scrupoli che cercavano solo di “divertirsi” con le due ragazze. Ribadisce che questo è un mondo dove le persone sono false e non ci si può fidare di nessuno, ognuno segue il suo interesse, che le ragazze vengono cercate solo se “la danno”. Gli altri, in particolare le ragazze, annuiscono, è un momento importante di solidarietà femminile, e un chiaro messaggio ai maschi. Insieme propongono a Pippo che nel video le ragazze trovano la forza di dire “NO”, allontanare gli aggressori e ritrovare la loro pace. Una proposta scenica che, recitata nel video, avrà una certa forza simbolica.
… E NE E’ NATO UN VIDEO DAVVERO BELLO
I suggerimenti dei ragazzi, filtrati e ri-interpretati dalla sensibilità e dalla capacità tecnica del regista (nonchè dalla bravura delle attrici) hanno portato alla creazione di un video veramente bello, che ha anche vinto diversi premi. Lo potete vedere qui sotto. Quando è uscito, diverso tempo dopo la mattinata appena raccontata, lo abbiamo visto insieme in classe, rievocando le nostre riflessioni, integrando con nuovi spunti dati dalla visione. In un ottica freiriana si è trattato di interrogarsi, “problematizzare” a partire da un determinato tema che risuona nel gruppo e “codificarle” in un prodotto artistico che aiuti a portare ulteriori elementi inediti di riflessione.
Per noi formatori è stato sicuramente un tassello in più per conoscere meglio i nostri ragazzi, questi adolescenti della generazione sovrastimolata, dell’individualismo estremo (dell’isolamento…), che come desiderio hanno spazi di vuoto, di serenità, di incontro intimo e autentico.
Non voglio imparare a non aver paura, voglio imparare a tremare
Non voglio pacificare tutto,
voglio esplorare la realtà anche quando fa male
Questi sono gli stendardi realizzati nello Spazio Donna Zen gestito dall’associazione Handala, esposti al palazzo delle Aquile di Palermo, nel contesto delle azioni organizzate per la giornata del 25 novembre 2020 dal movimento “Non una di meno”. Non riesco ad aggiungere parole. In questa poesia di Livia Chandra Candiani c’è tutto. Un manifesto esistenziale, pedagogico, radicalmente contro-culturale per la nostra epoca. In fondo, dopo le immagini, trovate il testo completo.
Imparare a tremare
Non voglio imparare a non aver paura, voglio imparare a tremare Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce. Non voglio imparare a non arrabbiarmi, voglio sentire il fuoco, circondarlo di trasparenza che illumini quello che gli altri mi stanno facendo e quello che posso fare io. Non voglio accettare, voglio accogliere e rispondere. Non voglio essere buona, voglio essere sveglia. Non voglio fare male, voglio dire: mi stai facendo male, smettila. Non voglio diventare migliore, voglio sorridere al mio peggio. Non voglio essere un’altra, voglio adottarmi tutta intera Non voglio pacificare tutto, voglio esplorare la realtà anche quando fa male, voglio la verità di me Non voglio insegnare, voglio accompagnare. Non è che voglio così, è che non posso fare altro.
[Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Torino, Einaudi 2018]
Educatori e insegnanti gamers, geeks, otaku, viaggiatori dell’immaginario, sognatori introversi unitevi! Le vostre competenze sono preziose, oggi più che mai
La cosiddetta cultura nerd fa riferimento ad una realtà complessa e talvolta controversa, che spesso si associa ai ragazzi meno “cool”: a volte introversi, facile bersaglio dei “fighi della scuola”, avete presente i ragazzini protagonisti di Stranger Things? In questo articolo spiegherò perchè sono convinto che, nella società dell’utilitarismo, del rumore e dell’apparire, questo universo possa portare un contributo da non sottovalutare nei nostri ambiti di lavoro, se approcciato da un prospettiva di educazione critica. Un valore ancora più importante oggi, quando questi mondi sono uno dei pochi ambiti di “resistenza” e crescita per adolescenti in condizione di ritiro sociale.
Non è una novità
Una pedagogia nerd in realtà esiste già da molto tempo, anche se forse non si è mai utilizzato un nome per riunirne riflessioni e pratiche. E’ promossa da lungimiranti educatori, insegnanti, animatori sociali (magari anche tu che leggi) che sanno cogliere il valore di crescita e di mediazione con il mondo di fumetti, serie tv, ambienti fantastici, o che nei propri contesti animativi e di cura propongono giochi di ruolo, scrittura immaginativa che apre sguardi nuovi, attività basate su originali approcci ai videogame e al mondo digitale. Dare un nome a tutto ciò non è detto che sia così importante, contribuire valore e contribuire al suo sviluppo sicuramente si. Il “Manifesto della pedagogia nerd” che segue è allora solo un gioco, il tentativo di rilanciare questa ricchezza e aprire spazi di confronto.
MANIFESTO DELLA PEDAGOGIA NERD
1- Valorizzare la produzione culturale degli universi nerd
E’ necessario valorizzare in un’ottica pedagogica la produzione culturale e alle pratiche legate ai cosiddetti universi “nerd”: romanzi fantastici (speculative fiction, fantascienza, weird…), fan fiction, anime, manga, supereroi, giochi di ruolo, videogames, quali risorse di riflessione su sé stessi e sul mondo, strumenti di apprendimento e di crescita. Sollecitare e supportare la conoscenza base di questi fenomeni culturali da parte di insegnanti, educatori e genitori, per aprire piani di comunicazione con i bambini e gli adolescenti che ne sono appassionati, e in generale arricchirsi di una risorsa preziosa per comprendere la contemporaneità.
2- Riscoprire che il gioco e l’immaginazione sono risorse fondamentali di apprendimento non solo per i bambini
E’ necessario valorizzare la pratica del gioco tra cui quello da tavolo, di ruolo, di cosplaying, di immaginazione; riscattarlo dalla convinzione comune che sia solo patrimonio dell’infanzia (mentre quasi solo lo sport sia riconosciuto come attività ludica degna di essere praticata da giovani e adulti).
3- Valorizzare gli educatori, gli insegnanti, i formatori nerd
Con il passare degli anni incontriamo sempre più educatori e formatori che in modi diversi si possono iscrivere al grande universo “nerd”. E’ fondamentale valorizzare le loro competenze in tal senso, conferire loro dignità e sostenerli nello sviluppare pratiche generative nel lavoro educativo e formativo. E’ importante inoltre valorizzare la figura di educatori riservati, introversi, in opposizione al mito, in particolare in ambito maschile, dell’ “animatore-maschio-alfa”.
4- Sviluppare la progettazione e sperimentazione di attività didattiche ispirate o focalizzate all’immaginario nerd.
E’ necessario progettare e portare in contesti di apprendimento formali e non-formali attività ispirate ai mondi fantastici, al gioco di ruolo, a tutto ciò che del vasto contesto culturale nerd può essere utile per creare attivazioni generative, senza snaturarne il valore originale.
5- L’attitudine nerd: essere introversi, riflessivi, non è un difetto ma un valore.
E’ necessario valorizzare l’attitudine, il modo di apprendere e di relazionarsi con il mondo delle persone meno estroverse; individui che possiedono spesso mondi interiori, capacità riflessive e doti immaginative particolarmente sviluppati. Dobbiamo portare alla luce la realtà che essere timidi non è un difetto, che ci sono modalità di socializzazione differenti rispetto a quelle rumorose delle feste, degli aperitivi, del ballo; che il silenzio è un valore, che la solitudine, se vissuta serenamente, non è per forza un problema (n.b.: non vogliamo qui avvallare l’equazione nerd=introverso, ma sottolineare quanto l’universo nerd rivaluti questa condizione).
6- Riscoprire il valore dell’inutile in contrasto alla società della prestazione
E’ fondamentale riscoprire l’importanza pedagogica, sociale e politica di ritagliare spazi nella propri vita dedicati ad attività che non hanno un fine utilitaristico, alla perdita di tempo. Si tratta di esperienze contro-culturali fondamentali a contrastare l’attuale società della prestazione e dell’utilitarismo.
7 Creare spazi generativi in cui sia valorizzato il potenziale contro-culturale dell’universo nerd, ridimensionandone la parte consumistica
L’universo nerd è (come, ahimè, gran parte delle sottoculture) colonizzata dal mercato (dalle grandi produzioni hollywoodiane ad ogni tipo di gadget legati a produzioni audiovisive, fumetti, libri). La Pedagogia Nerd mira a contrastare il predominio della sfera commerciale tornando invece a valorizzare le potenzialità del gioco e degli universi immaginari come strumenti di “visione” e di cambiamento sociale da sempre insiti in tali pratiche. La strada è quella di privilegiare la dimensione di autoproduzione e autorganizzazione (DIY) e di fiction speculativa (immaginazione, fantasy e fantascienza come strumento di riflessione critica sul mondo).
Una poesia collettiva per prenderci cura di noi che di lavoro ci prendiamo cura. Dare forma in versi ai vissuti della ripartenza
Il testo che segue lo abbiamo scritto durante un laboratorio on line di formazione formatori (do you know AlieniOnLine?…), riflettendo sulle potenzialità della poesia nel lavoro a distanza con gli adolescenti.
Nasce come esercitazione, come gioco leggero per esploratori di nuove possibilità.
un pad, un foglio di testo open source, etico e sottile, e le nostre parole
Rileggendolo ho pensato che fosse importante pubblicarlo. In mezzo a tutto il vociare di questi giorni sui giovani, sulla scuola, sugli insegnanti, sugli educatori, noi operatori in prima linea forse abbiamo più bisogno di silenzio e parole incarnate. Abbiamo bisogno di fare un passo a lato, guardare dentro e guardare oltre, di visioni, di ri-connetterci con noi stessi e tra di noi, prenderci cura di noi.
Se qualcuno vuole ‘sentire’ come stiamo vivendo questi giorni, quelli che seguono sono i nostri appunti in versi. Se qualcuno vuole proseguire questa poesia collettiva, ci mandi le sue immagini, le sue visioni, le sue metafore.
Questa ripartenza – poesia collettiva
Questa ri-partenza è grigio nebbia con fasci di luce è pongo plasmabile montagne alte che ti attraggono e ti spaventano scalpitare allo start con i pesi alle caviglie sono sereno sapendo che le nuvole sono veloci a coprire il cielo, e la tempesta torna in fretta tengo stretto il manubrio di gomma rigida un ritmo difficile da ballarci sopra ci sono
Parto giallo cammino scalzo con i piedi al caldo non c’è più il deserto in paese ma la sabbia è rimasta affondo lascio tracce guardo le scie sento l’umidità della tempesta sta arrivando? ruvida mi riempie occhi e orecchie di suoni morbidi di battiti sordi
Settembre in bianco e nero, una fotografia da ricolorare, un ritorno lento alla velocità, un passo verso un futuro meno tracciato, carico di previsioni senza un cielo azzurro, toccando l’incertezza ma con la speranza che sapremo suonare come un’orchestra.
Lo stridìo assordante della metro. Quando fa caldo e ci sono i finestrini abbassati ma qualche bocchettone dell’aria condizionata ancora funziona e ti congela. Quello stridìo, che non sai se la metro resta sui binario deraglia.
la ri-partenza è funambolica…. il tempo arricciato e allungato si snoda perdendo i suoi soliti confini. Mi sento grigia e gialla a secondo dell’aria che sento. Vorrei più silenzio e meno folla di rumori superficiali, più silenzio per sentire e capire
Questa partenza è di un bianco sporco di plastica dura, un piccolo pezzo di Lego correre sotto la pioggia è cumuli, nembi, cirri, strati da cui arriva un tuono lontano e il grido di un falco
Questa ri-partenza è un vetro appannato su cui passare le dita e vedere attraverso. La pioggia ci batte sopra, appoggi la mano per sentirene le vibrazioni, trema la mano, trema il corpo,…..sarò pronto?
Questa ri-partenza è tinta di un pallido verde come una tenue speranza, è un legno sospinto a riva dopo un lungo naufragio, è un vecchia foto di amici che ora si ritrovano cambiati, è uscire da schemi ripetuti, è un cielo rosa in un tramonto estivo vellutato, morbido, che accompagna un sussurro: “è vita”.
Questa partenza è scricchiolante di foglia vola nel vento leggero cadrà? si alzerà? la accompagno con lo sguardo Riparto verde come quel prato al pascolo Rimbalzo come una pallina di gomma dentro un oceano dove non tocco. Questa partenza è rossiccia, il cielo della sera. È dura e fragile, un righello che si piega. Le nuvole coprono tutto. Camminare veloce sui tacchi, e piove. Tocco il terreno ed è bagnato e caldo, sento il rumore delle gocce di pioggia che cadono.
Questa ripartenza Cangiante e opaca Un filo sottile, uno zaino pieno Saltare da un sasso all’altro, scivolosi, sul torrente Resto asciutta Ingannevolmente tiepida, serena a tratti, con nuvole sospette all’orizzonte Che possono cambiare fronte Un prato invitante, una strada in pianura, montagne aspre vicine Prendere un respiro, allacciare bene le scarpe comode
Questa ripartenza è il tiepido arancio è costanza è la pista nel deserto, motori rombanti temporali devastanti fresco e morbido gelato, da mangiare con le mani violini ritmati, colpi sferrati, cori vibrati
la mia ripartenza è fluida e malleabile è magma incandescente è salita sotto nuvole e vento è un filo sospeso sopra punti di domanda è rosso fuoco, ma anche giallo sole è alternanza tra rulli di tamburi e flauti leggeri come l’erba morbida e fragile
la (ri)partenzaè a righe bianche e nere elastico che si tende ma non si spezza è maionese in creazione, vortice necessario per non impazzire Questa partenza è giallo intenso come il sole fuoco che abbaglia e brucia attrae e fa paura mi avvicino e mi allontano cerco ombra e fresco nel caldo torrido silenzio assordante
Questa ripartenza la voglio giallo sole ma è resistente come l’acciaio… le nuvole vanno e vengono mentre cammino in salita. Forse pioverà ma sento il calore di un suono amico in lontananza, una tromba che suona
La mia ripartenza fumo negli occhi la finestra si spalanca e salto fuori il vento che spazza in girostare cercare vie nuove tra il rumore di fondo freddo e il silenzio del tuo sguardo. Settembre, è un vivido magenta che incastra il pensiero, è argilla nelle mani, è ondeggiare in mezzo al mare, ed è ventoso, chiudo gli occhi e mi lascio cullare da una musica dolce
Questa ripartenza è sfuocata Intravedo opportunità Percepisco timori, paure. Allungo la mano Incontro fumo Mi faccio strada tra la nebbia Avanzo titubante nell’ignoto Dei giorni che verranno Rosso, di Ferrocome una madonna che scavanella pioggia e sente un colpo che crea una musica. Bella Musica!
Questa partenza è grigio chiaro, è nuvole che si rincorrono tra spiragli di cielo è il brusio delle onde, un ritmo sempre pronto a cambiare so galleggiare, (ri)imparo a nuotare La bici cade in un sorriso sbucciato il solletico dell’erba alta sul palmo che gira e piove nel silenzio infranto dall’ape e l’attesa del suo lavoro d’oro al mattino con i progetti freschi spalmati di burro
Passata la fase del lutto e dell’impotenza, passata quella dell’aggancio nei territori del digitale e della prima sperimentazione di nuove pratiche, siamo infine entrati in un’ ipotetica fase tre, che potremmo definire della “strutturazione aperta”.
Dopo più di un mese di sperimentazione, dopo aver testato gli strumenti a cui i nostri ragazzi rispondevano meglio, il loro grado di tenuta, aver ascoltato i loro ritorni, si è potuto andare a definire un piccolo modello, un dispositivo che ha una sua forma specifica, seppur ancora “aperto” passibile di modifiche, anche importanti.
Abbiamo
quindi ordinato in modo stabile gli interventi raccontati in queste
pagine osando qualche
aggiunta (una videolezione di matematica e una di grafica a
settimana).
In
questo momento
quindi
la
nostra
settimana
si presenta così:
– ogni mercoledì invio delle consegne per un’attività riflessiva, degli esercizi di matematica e inglese
– una chiamata individuale da parte del tutor in cui fare il punto su vissuti personali e questioni scolastiche.
– un appuntamento conviviale di condivisione di gruppo dei nostri vissuti, caratterizzato anche da leggerezza e risate insieme.
– una videolezione “pillole di matematica”
– una videolezione “gocce di grafica”
– una trasmissione radio settimanale principalmente inerente a temi delle attività riflessive.
Inoltre, a sancire questa “fase della strutturazione” abbiamo fornito ai ragazzi due spazi web di riferimento, uno integrativo di “appoggio” a tutta l’attività proposta, e uno personale, un diario di bordo condiviso solo tra l’allievo e noi.
Ritengo sia importante ad un certo punto sancire una nuova struttura, dare una forma e magari un nome al nuovo “villaggio”. Lo è per sottolineare che quello che abbiamo creato non è una brutta copia di quello che avevamo prima ma è qualcosa di nuovo, con pro e contro, ma con una sua dignità e forse bellezza.
Uno spazio virtuale (accogliente) che sia la casa della scuola on line
Un elemento importante che ha caratterizzato questa fase è la creazione di una sorta di rifugio dell’Anno Unico in quarantena nel cyberspazio. In questo luogo (utilizzando l’applicazione Padlet) i ragazzi possono trovare il calendario, le consegne e i testi dei compiti assegnati per quella settimana, i podcast delle trasmissioni radio, l’archivio dei compiti delle settimane precedenti. Inoltre è presente una sezione che abbiamo chiamato “compiti a buffet”, che contengono ulteriori attività esperienziali (principalmente) ed esercizi legati alle materie di base in modo che, nell’ottica che ognuno segua il proprio bio-ritmo, i ragazzi possano personalizzare il loro programma di lavoro individuale.
La pagina contiene inoltre materiale per ripassare alcuni argomenti delle materie di base (immagini, fogli di testo, videolezioni in un’ottica di flipped classroom) e uno spazio di condivisione di lavori riflessivi svolti dai ragazzi.
Questo spazio, fruibile anche attraverso app mobile, vuole essere anzitutto un punto di approdo per i ragazzi, un luogo ordinato che resiste alla frammentazione e al “rumore” che può generare il mondo digitale.
Una casa bella
Un’attenzione che abbiamo avuto è stata la resa estetica. Ci tenevamo che la casa virtuale dell’Anno Unico potesse essere bella, avesse una sua forza simbolica anche nella cura grafica sempre nell’ottica di coltivare spazi digitali il più possibile “caldi”. Abbiamo quindi scelto la grafica di fondo e soprattutto le immagini. In particolare sono state utilizzate diversi screenshot tratti all’anime “Nausicaa della valle del vento” del regista Hayao Miyazaki, come riferimento simbolico dell’approccio che vogliamo ci animi. In questo lungometraggio animato i personaggi devo stare molto attenti nelle loro azioni e portare sempre maschere antigas perché l’aria è divenuta irrespirabile e la natura ostile. La protagonista Nausicaa è un’adolescente che porta la propria vitalità e desiderio di rapportarsi in modo generativo anche nella “giungla tossica”, tessendo relazioni, inedite alleanze, apprendendo e ponendosi in maniera trasformativa.
Fornire ai ragazzi uno spazio personale un pò zaino, un pò diario, un pò specchio che li mostra crescere.
Oltre alla pagina web ogni allievo ha a disposizione una seconda pagina che, a differenza della prima, è accessibile solo a lui e a noi. Si tratta di uno spazio dove poter raccogliere tutte le attività svolte, ma anche le riflessioni, i pensieri, tutto ciò che può essere importante dal punto di vista della crescita personale e dell’apprendimento che sta avvenendo in questo periodo, elementi magari emersi nei dialoghi settimanali con i tutor.
Questo spazio ha un valore integrativo, aiuta a mettere in ordine quanto conquistato e vissuto durante il viaggio, come metaforico zaino o diario di bordo. Inoltre può divenire anche uno strumento valutativo e soprattutto autovalutativo, strumento riflessivo in cui emergono potenzialità, passi avanti, si registra lo sbocciare di “fiori nel caos”.
La
scelta del software
Per realizzare la pagina integrativa e il diario personale abbiamo scelto di utilizzare, come accennato, l’applicazione Padlet; purtroppo abbiamo dovuto accontentarci di un software proprietario e non esattamente rispondente al nostro ideale (è bello pensare che un giorno si possa sviluppare un software open source immaginato appositamente per l’apprendimento esperienziale, pensato da formatori e coder insieme…). Ad ogni modo, tra altre opzioni che abbiamo vagliato era quella che meglio poteva avvicinarsi alle nostre esigenze di base: facilità nell’utilizzo condiviso dell’interfaccia, una certa elasticità nella personalizzazione del layout, la possibilità di incorporare file multimediali ed esporre in modo chiaro molti materiali in un contesto grafico gradevole. Si tratta di una piattaforma spesso usata nelle scuole elementari. Ritengo che per ragionare su un lavoro a distanza per adolescenti e adulti in una prospettiva di lavoro esperienziale può essere molto utile creare sinergia con il lavoro di ricerca dei colleghi che lavorano con i più piccoli,che, per sensibilità pedagogica e necessità dei propri piccoli utenti, sono forse più inclini a sperimentare soluzioni originali che tengano in considerazione anche gli aspetti relazionali ed emotivi.
Questa è una delle attività a distanza proposte ai nostri adolescenti durante il periodo di quarantena, in cui si sentiva forte l’urgenza di rielaborare i vissuti emotivi di una situazione così particolare (qui ma anche qui racconto il dispositivo che abbiamo creato per la formazione a distanza con ragazzi in dispersione scolastica)
Abbiamo inviato ai ragazzi il testo di due poesie: “Paura” di Raymon Carver e “Ciò in cui credo” di James Ballard (in una versione ridotta). Quest’ultima l’avevo scoperta da adolescente su Decoder e mi aveva subito catturato: credo che contenga tutti gli elementi che possono far innamorare un adolescente della poesia: trasgressiva, visionaria, con parole “armate” e fragili insieme.
Credo nel potere che ha l’immaginazione di plasmare il mondo, di liberare la verità dentro di noi, di cacciare la notte, di trascendere la morte, di incantare le autostrade, di propiziarci gli uccelli, di assicurarsi la fiducia dei folli. Credo nelle mie ossessioni, nella bellezza degli scontri d’auto, nella pace delle foreste sommerse, negli orgasmi delle spiagge deserte, nell’eleganza dei cimiteri di automobili, nel mistero dei parcheggi multipiano, nella poesia degli hotel abbandonati. (…) Qui il testo completo
“Paura” di Carver l’ho scoperta invece più di recente, e mi ha colpito per la semplicità con cui affronta temi molto forti e molto vicini ai vissuti dei ragazzi; ogni volta che la si propone in aula apre a mille risonanze e riflessioni:
Paura di vedere la macchina della polizia fermarsi davanti casa. Paura di addormentarsi la notte. Paura di non addormentarsi. Paura del ritorno del passato. Paura del presente che fugge. Paura del telefono che squilla nel cuore della notte. Paura delle tempeste elettriche. Paura della signora delle pulizie con un neo sul viso! Paura dei cani che mi hanno detto che non mordono. Paura dell’ansia! (…) Qui il testo completo
L’attività
Come riscaldamento abbiamo chiesto ai ragazzi di immergersi nelle poesie scegliendo due versi che risuonavano in modo particolare in loro raccontando il perchè.
In seguito la sfida lanciata è stata quella di scrivere anche loro due poesie di 10 versi ciascuna, strutturate esattamente come quelle che di Carver e Ballard. Nella prima ogni verso doveva cominciare con “paura di…”, nella seconda “credo in….”
In periodi di destabilizzazione, dare nome alle proprie paure e ricordarsi i propri riferimenti saldi può avere un grande valore.
Ci ha stupito il fatto di aver ricevuto testi da quasi tutti i ragazzi, anche da quelli che si sono sempre dichiarati meno interessati o reticenti all’attività poetica (potrai averne degli assaggi nel testo al termine dell’articolo)
La forza dell’anafora e di proporre esempi evocativi
Un lavoro di questo genere ha due punti di forza importanti che ne facilitano la riuscita: – l’utilizzo della figura retorica dell’anafora (la ripetizione di una o più parole all’inizio di ogni verso), una modalità di scrittura immediata, che facilita l’attivazione e l’indagine non superficiale di sè (è importante richiedere la scrittura di un numero di versi non troppo basso, in modo da incoraggiare una ricerca introspettiva che superi il “copione stereotipato”). –La possibilità di partire da due testi fortemente evocativi come esempio. Attraverso la lettura delle poesie che gli avevamo inviato i ragazzi hanno colto immediatamente che avremmo accettato i loro contenuti senza censure, e che potevano far convivere nei propri componimenti contenuti più e leggeri e altri più profondi.
Una restituzione all’altezza del lavoro svolto
Era fondamentale una restituzione ai ragazzi, dato anche il valore delle loro produzioni; la condizione di formazione a distanza richiedeva però un’idea speciale. Dopo un pò di riflessione ho deciso di estrarre un verso dalla poesia di ogni ragazzo e di “mixarli” insieme creando un nuovo testo da inviare loro (un lavoro di cut up poetico molto hip-hop, ispiratomi da Saul Williams, il mio artista di poetry slam preferito). E’ stato particolare anche il modo in cui è stato recapitato il testo: l’ho letto su una base di Lil Peep, registrato e inviato come podcast, nella cornice di “Radio Anno Unico”, attivata come strumento di comunicazione “notturno” proprio per il tempo di quarantena.
Realizzare questo testo non è stato immediato, ci ho messo parecchio tempo ma ci tenevo che il risultato “suonasse” e che potesse restituire loro tutta la bellezza di cui i ragazzi erano stati capaci, una bellezza che ha anche un potere di cura.
Il risultato
Si narra che nel gruppo di what’s app dei ragazzi sia girato un messaggio che diceva qualcosa tipo “oh! ascoltate l’audio che ci hanno mandato.. alla fine siamo dei cazzoni ma quando ci mettiamo siamo straprofondi…” . Non poteva esserci soddisfazione maggiore.
Qui potete ascoltare il podcast inviato ai ragazzi in cui leggo il testo:
E qui il testo:
Paura che il tempo sia troppo veloce paura che il tempo si blocchi paura del futuro – paura della morte paura delle ambulanze a sirene spiegate paura di emozioni troppo forti paura dell’amore – del coraggio – della mia ansia di non essere all’altezza – di non essere abbastanza paura che mi privino dei miei diritti paura di essere usata paura del caos – della libertà eccessiva paura – anzi voglia – di anarchia paura delle conseguenze paura di dover sopravvivere sempre paura di non addormentarmi paura dei ragni paura di vedere i miei nonni, i miei genitori, i miei fratelli e i miei parenti morire paura di fingere – di fallire paura di essere rinchiusi – paura di uscire paura di volare per paura di cadere paura di rimanere soli paura che la polizia sta volta si fermi proprio da me paura della paura paura di una casa senza famiglia paura di un nemico senza volto e spietato paura per il mio pianeta ormai affaticato.
Credo nel divertimento tra amici nei pensieri d’amore che ti cambiano l’umore nelle lunghe riflessioni fatte per farti sentire in colpa, credo negli interminabili sospiri con la testa sotto il cuscino. Credo alla distanza di due anime – Credo nelle anime vaganti – nella mia anima vagante credo a chi ne ha passate tante – a chi si è sempre rialzato credo anche a chi non ce l’ha fatta credo nelle seconde possibilità, anche se poi sbagli… e basta. credo nel non farcela – che niente sia mai abbastanza – credo nell’ansia credo nelle vittorie insanguinate di coraggio costante, nelle spiacevoli ricadute nonostante l’ esperienza, nella furbizia che ti sei creata perché altrimenti ti avrebbero schiacciata. credo all’ amore di due corpi – che il destino non esista, che il futuro va creato credo nel mio gatto, che ritorni! perchè mi manca tanto credo nelle sconfitte – nell’essere fragili credo che la vita abbia riservato qualcosa per ognuno noi credo nella parole, quelle vere credo che tutto andrà bene credo che sia importante avere – qualcosa in cui credere credo in cose che è meglio lasciar perdere credo nelle promesse, anche se non ne hanno mai mantenuta una credo in me stesso credo che oggi nessuno sappia veramente stare solo credo nei miei fratelli anche se a volte rompono credo che sto impazzendo credo nella natura che si sta riprendendo il suo spazio nel mondo. credo nel rifugio della propria ombra credo nella pace dopo la tempesta, nella segretezza della disperazione, nel buio più cupo di un cielo senza stelle. credo nelle lacrime che sussurrano rassegnazione, nei pianti che ammazzano la voce, nella disperazione – più forte di un temporale. credo nella complicatezza dell’amore credo che bisogna lottare per avere quello che si vuole
Gilles Deleuze e Felix Guattari ci suggeriscono che le “forze del caos” possono essere fronteggiate “costruendo ritornelli”, creando ritmi che marcano dei confini nello spazio-tempo indeterminato. Un po’ come i bambini che disegnando un cerchio con il gesso sulla strada, ritagliano la propria casa, uno spazio abitabile entro cui giocare. I due filosofi francesi facevano riferimento all’arte come strumento privilegiato per generare questi ritornelli, marcare questi confini nel caos, rimanendone però in dialogo. Il lavoro sopra descritto nello scorso articolo di produzione poetica e diaristica proposto ai ragazzi può probabilmente attivare un processo simile.
Si può parlare di ritmo come strumento per affrontare il caos anche in riferimento all’importanza – in una situazione come questa di assenza di impegni vincolanti imposti dall’esterno – di scandire momenti diversi nella propria giornata, mantenendo un controllo sul tempo. Un post che è molto girato sui social network nelle scorse settimane conteneva una citazione attribuita ad una scrittrice russa (di cui non sono riuscito a recuperare molte altre informazioni) che recita così: “Una volta la nonna mi aveva dato un consiglio: Nei periodi difficili, vai avanti a piccoli passi / Fai ciò che devi fare, ma poco alla volta / Non pensare al futuro, nemmeno a quello che potrebbe accadere domani / Lava i piatti. Togli la polvere / Scrivi una lettera. Fai una minestra / Vedi? / Stai andando avanti passo dopo passo. / Fai un passo e fermati. Riposati. / Fatti i complimenti. Fai un altro passo. Poi un altro. / Non te ne accorgerai, ma i tuoi passi diventeranno sempre più grandi. / E verrà il tempo in cui potrai pensare al futuro senza piangere.” Al di la della retorica un pò consolatoria, perfetta per l’ambiente dei social network, il brano contiene un messaggio che potremmo immaginare che sia consegnato simbolicamente da un anziano (la generazione più martoriata in questi giorni) che ha vissuto la povertà, magari la guerra, ai più giovani rimasti orfani della scuola.
Il suggerimento è di stabilire ritualità nella propria quotidianità, non lasciarsi andare ma coltivare impegni dando valore al tempo presente, un tempo “liscio” in cui possono avere gioco facile piattaforme come netflix, youtube, instagram, progettate per generare dipendenza, rapire nella “zona della macchina” (Dow Schull) in cui il presente scompare, lasciando poi però una sensazione di immobilità, impotenza, disistima.
Molti ragazzi con cui lavoriamo raccontano di situazioni in cui si sentono completamente in balia di queste piattaforme, invertendo talvolta il ritmo sonno-veglia. Imporre un ritmo proprio, lo sviluppo di un’autodisciplina che renda liberi di disporre di sé, si rivela obiettivo educativo ancora più importante.
Uno
spazio di azione difficile
Ma cosa possiamo fare noi per sostenere i ragazzi su questo fronte? Sicuramente è uno dei campi in cui abbiamo meno possibilità di essere incisivi. La nostra azione si innesta nel territorio educativo totalizzante che è quello dei contesti famigliari dei ragazzi, uno spazio-tempo fuori dalla nostra influenza.
Proverò comunque, sulla scorta delle riflessioni e sperimentazioni attuali, ad evidenziare alcune piccole possibilità di movimento:
a-
Sostenere
a distanza
Con i ragazzi possiamo anzitutto tematizzare la questione, accogliere le loro storie, le difficoltà, le loro ritualità quotidiane o la difficoltà di costruirne. Si può ascoltare in modo non giudicante come è organizzata la loro giornata e suggerire individualmente impegni minimi alla loro portata, che possano davvero generare piccoli scarti. Quando è possibile è molto utile creare sinergia con la famiglia, sostenendo i ragazzi nel chiedere ai genitori (è importante che lo facciano loro stessi) un aiuto a mantenere delle ritualità che in prima persona si sono proposti. Allo scopo di supervisionare anche questo aspetto abbiamo deciso di dedicare ad ognuno un contatto settimanale con il tutor.
b-
Spostare
lo sguardo dal futuro ad un presente che vale la pena venga vissuto
Il consiglio della nonna per affrontare tempi difficili è quello di non pensare al futuro, ma di concentrarsi sul presente. Si tratta di un approccio che all’Anno Unico abbiamo fatto nostro già prima di quest’emergenza: siamo chiamati a lavorare con ragazzi in dispersione scolastica (per cui simbolicamente si è interrotto il “viaggio verso il futuro”) in un momento storico in cui lo stesso futuro ha cambiato di segno, da speranza diventato una minaccia (era già così anche prima del virus…). In questo contesto è risultato prezioso rivalutare la dimensione del presente, il valore di ogni passo, concentrarsi su ciò che oggi, un giorno dopo l’altro, può far sentire “di più” (Freire) senza comunque rinunciare alla dimensione del desiderio.
Declinato in questa situazione il suggerimento è di sottolineare con i ragazzi come il momento attuale non sia una spiacevole parentesi in attesa che il mondo ricominci, ma un tempo-risorsa in cui al contrario tutto si fa più intenso, così anche le possibilità di crescita e di cambiamento, indipendentemente da quello che sarà poi. La quarantena diventa in questo modo una sorta di rito di passaggio, uno spazio dove la quotidianità si sospende ma il processo trasformativo accelera.
Un
esempio di
questo si è appena visto con Monica:
nel suo diario scrive che è molto dispiaciuta che tutto
questo
stia accadendo proprio ora,
nel momento
in cui (dopo tre anni
di
assenza da scuola) stava cercando di cambiare sfruttando
al massimo l’occasione dell’Anno Unico per riprendere
il proprio percorso formativo.
L’attuale
destabilizzazione potrebbe
compromettere la possibilità di raggiungere
gli obiettivi minimi per l’inserimento
nella nuova
scuola.
Noi
formatori,
che
eravamo
ignari
di questa preoccupazione, avevamo semplicemente
osservato
che lei,
dall’inizio del lockdown, stava
mettendo
un impegno ancora più forte di
prima nel
portare
a termine le attività assegnate, mostrando
particolare sensibilità nel lavoro più riflessivo, e
ci commuoveva il fatto di vederla seguire
le video-lezioni del primo pomeriggio mentre riordina
la cucina, in una casa dove il suo contributo nelle faccende
domestiche è fondamentale.
Dopo aver letto quelle parole sul suo diario le abbiamo restituito che noi non sapevamo cosa sarebbe successo dopo, se a settembre ci sarebbero state le condizioni per l’inserimento che tanto desiderava. Però quello che potevamo fare era testimoniare quello che stava accadendo nel presente, che per lei era davvero l’anno del cambiamento, che avevamo di fronte una ragazza che stava crescendo velocemente, un processo irreversibile al di là di come sarebbe andata scolasticamente nei mesi immediatamente successivi. Una restituzione del genere l’ha colpita e in qualche modo forse ridato senso al suo fare.
Sostenere un’ecologia del tempo attraverso il ritmo dei nostri stimoli
Un’altra
possibilità tra quelle a nostra disposizione è
relazionarci
nei
confronti dei
ragazzi in
modo “ritmico ed
ecologico”.
Se la scuola o
il lavoro educativo in presenza ha orari rigidi (anche
eccessivamente)
il
lavoro a distanza talvolta rischia di essere troppo destrutturato,
basandosi
sui contributi individuali di
formatori e operatori, non
sempre coordinati: ognuno invia le proprie comunicazioni in qualsiasi
orario, il suo carico di compiti senza conoscere quanto affidato dai
colleghi.
Un
forte coordinamento nell’interfacciarsi con i ragazzi, rispettando
un loro sano bio-ritmo
può
essere un punto di partenza importante.
Come
equipe
noi
ci
siamo ci
siamo presi questi impegni:
– Dare regolarità alle nostre comunicazioni: I messaggi dei compiti, i colloqui telefonici, le videochat, le trasmissioni radio sono appuntamenti che si devono ripetere ogni settimana il più possibile sempre negli stessi giorni e orari, evitando la frammentazione. (Questo richiede una forte autodisciplina anche da parte nostra, dato che non tutti, chi scrive prima di tutto, annoverano la puntualità e l’ordine tra le loro qualità migliori)
– Far si che il carico di lavoro e coinvolgimento nelle attività sia tarato sulle possibilità ed esigenze dei ragazzi. Significa trovare quel delicato equilibrio tra attivarli in modo significativo, far sentire la nostra presenza ma senza superare il limite sottile al di là del quale si produce ansia, che per qualcuno si declina in iperattività per essere “all’altezza”, sacrificando tempi per altre attività o il riposo, mentre per altri in una resa a priori.
– Dare la possibilità di personalizzare il carico di lavoro. Instaurare un’attenzione individuale e fornire le risorse affinchè i ragazzi possano costruirsi un proprio programma di lavoro, variando carico e tipologie di attività a seconda della propria situazione e dei propri obiettivi. A