I ragazzi riflettono sulla società in cui l’imperativo è “devi divertirti!”
Stavamo lavorando in aula all’Anno Unico. Si parlava libertà, aspettative, imposizioni sociali. Propongo ai ragazzi un video che avevo da poco scoperto, intitolato “this is a generic millenium ad” (che da allora riproporrò spesso in aula, anche nelle formazioni con insegnanti e formatori). Lo scopo di chi l’ha prodotto è quello di raffigurare – attraverso un lavoro di cut-up di altri video – l’immagine stereotipata che le pubblicità mostrano dei giovani. Un’opera che dipinge in modo didascalico la pressione a cui le nuove generazione sono di continuo esposte: bisogna essere sempre allegri, avere mille amici, partecipare agli eventi giusti, mostrarsi originali e di successo tra i pari. Il video è molto evocativo, se utilizzato in maniera esperienziale, attenti alle risonanze che suscita, può aprire spiragli di consapevolezza interessanti.
“Tu sei unico. Tu sei differente. Tu sei speciale. Noi lo sappiamo. Noi capiamo tutto di te. In particolare il linguaggio che usi quando sei online. Come T.O.T.S. B.R.B. e “Join the conversation”. l’hai detto, vero? Il fatto è che sei libero. Libero dalle parole con le vocali!. Libero dai limiti del colore naturale dei capelli.. I tuoi capelli sono completamente rosa. Tu balli tutto il tempo. In strada. Nella tua camera. E sicuramente con il tuo eclettico gruppo di amici. Wow Ephram suona l’ukulele! Chi se lo aspettava? Questo è il modo in cui i millennials si comportano… “
Al termine della proiezione chiedo ai ragazzi se c’è qualcosa nel video che li ha colpiti, cosa hanno pensato o sentito dentro di loro mentre lo guardavano. Dopo un primo momento di silenzio gli interventi che si susseguono sono molti. Il vissuto di fondo è un mix tra lo sturpore di fronte alla rivelazione di qualcosa di assolutamente nuovo e l’esclamazione “è ovvio che è così“! Il fatto che si possa tematizzare qualcosa che ogni adolescente sa ma che difficilmente viene detto pubblicamente li colpisce. Dicono “è vero, è così..”, “Devi sempre divertirti.. uscire.. magari non hai voglia però non puoi.. sei uno sfigato se non esci..”, “devi farti vedere..”, “devi far vedere che hai tanti amici..”, “magari tu vuoi stare da solo ma non puoi..”
Il disegno di felipe
Mentre proseguiva la condivisione Felipe, che di solito si coinvolgeva molto in questo tipo di riflessioni, non parlava, era molto impegnato a disegnare. Ad un certo punto mi porge il disegno. Mi dice “Ecco, questo è quello che succede!”. Il disegno rappresenta un ragazzo con in testa un casco. Questo casco è uno “smile”, l’emoji che rappresenta un volto sorridente. Nel foro della bocca spalancata si intravede il suo volto reale, che invece è triste, affranto. Sulla sua maglietta c’è un segnale di divieto con all’interno un viso triste: “vietato non sorridere”. Alle sue spalle una città in macerie.
Chiedo a Felipe se ha voglia di mostrare e raccontare a tutti il disegno. “Questo rappresenta come mi sento” dice ai compagni “questa società ti obbliga a farti vedere in un certo modo, soffoca delle parti di te”. Gli chiedo cosa rappresentano le macerie dietro al personaggio “sono i problemi di tutti i giorni, che sono tanti, ognuno ha i suoi, le tensioni con i genitori, la scuola, trovare lavoro.., e poi sono il nostro passato, le storie, le sconfitte..”. Dice che non sono cose di cui parli tanto, te le tieni dentro, i genitori o li ingigantiscono o li sminuiscono, allora alla fine non ti rivolgi più a loro, con gli amici in compagnia non se ne parla, ci si diverte, bisogna essere sempre presi bene. Magari c’è qualche amico con cui ne parli ma solo con pochi.
Christopher si inserisce: “…devi fare un pò il coglione. quando sei fuori, devi far ridere gli altri.. fumare.. non è che puoi parlare dei tuoi problemi.. “
La chat come luogo sicuro dove essere se stessi
Chiedo a Christopher se ci sono dei momenti in cui invece riesce davvero a parlare dei suoi problemi. Lui risponde: “in chat!“ Io sono sinceramente sorpreso “in chat?!” .. “si in chat, nella chat dei videogiochi on line” (Christopher è un gamer “duro”) “Io ho cosciuto in chat delle persone con le quali parlo dei miei problemi, gli racconto le mie storie e loro le loro..”
E perchè questo non succede con gli amici che vedi tutti i giorni? Perchè in chat non li vedi. Non ti vedi in faccia. E non ti giudicano. Puoi parlare tranquillo.
Porto a casa questa scoperta. La chat, il luogo che per tanti adulti è un luogo negativo, dove con le persone si intessono solo rapporti superficiali, se non pericolosi, è invece per molti ragazzi uno spazio “safe”, al riparo del richiamo alla prestazione, all’essere sempre brillanti e goliardici, come invece richiede il rituale pubblico delle compagnie di adolescenti.
Un rito di chiusura: mostriamo le macerie
La lezione volge al termine e decido di proporre un piccolo rito di chiusura di questa attività, convinto che questi temi avremo dovuto sicuramente riprenderli.
Dico che la nostra missione è contrastare questa spinta della società a volerci sempre brillanti e performanti, far si che anche la parte oscura, le macerie, abbiano la possibilità di mostrarsi.
Utilizzando la lavagna come sfondo di proiezione e il proiettore ancora acceso, fermo a mostrare uno degli ultimi fotogrammi del video, chiedo se qualcono di loro voleva alzarsi e disegnare con il pennarello delle macerie, come sfondo agli attori felici ritratti nel video, come primo atto “psicomagico” per sancire i nostri intenti. Nel minuto seguente compaiono come “quinte” della rappresentazione in video case diroccate che richiamano il disegno di Felipe.
Guardiamo insieme il risultato, skippando anche tra i fotogrammi, Sorridiamo per le immagini che si creano. Ora le macerie sono presenti, le vediamo e forse insieme possiamo cominciare ad affrontarle insieme.
Ringrazio i ragazzi, dico che le loro riflessioni sono state molto interessanti per me, che spero che l’Anno Unico sia anche questo, un posto che possa anche accogliere la parte non luminosa di noi, in cui non ci sia l’obbligo per nessuno di mostrare felicità forzata. Li saluto, si alzano, “bella!..”, a domani..
Re-inventare uno spazio pubblico e sperimentare l’intensità della poesia, attraverso un’ “occupazione” notturna, scene teatrali e l’intimità del buio
Le idee in pillole: 1 – “Occupare” un luogo pubblico per incantarlo, creare un temporaneo spazio di magia in cui : – le relazioni nel gruppo sono più intense – le relazioni con lo spazio si ristrutturano – Un tema di apprendimento come la poesia può essere affrontato nel setting che più gli si addice, quello notturno 2 – Lavorare sulla poesia in una prospettiva immaginale 3 – Proporre cicli di codifica-decodifica trasformando la poesia in scena teatrale attraverso l’utilizzo di oggetti mediatori quali teli e maschere
L’intento era presentare ai ragazzi la poesia in tutta la sua forza, scrollarle di dosso quella patina di cui spesso è ricoperta a scuola, che la disarma, la rende sterile. E poi, come richiedeva il progetto in cui l’attività era inserita, bisognava aiutarli a riavvincinarsi, in modo inedito, ai locali della biblioteca.
Ci voleva un’azione forte, destabilizzante.
“Perchè in biblioteca non facciamo un’irruzione a notte fonda? Entramoci avvolti dall’oscurità, intrufoliamoci a leggere, scrivere, dare vita ai versi!”
Mi ricordo le facce stranite dei colleghi quando ho proposto l’idea al tavolo di coordinamento del progetto Biblio.net, facce che presto si sono fatte complici. Ilaria DeLorenzo, compagna di mille scorribande educative, ci è stata subito, per lei era un invito a nozze.
E così, dopo un pomeriggio passato con i ragazzi a parlare di poetry slam e comporre testi di spoken word, una cena e una serata insieme, allo scoccare della mezzanotte ci siamo avventurati tra gli scaffali pieni di libri. Era completamente buio, tranne la luce dei lumini che io e Ilaria avevamo posizionato ovunque (tanto che più di una volta la direttrice ci ha chiamato per assicurarsi che non scattasse l’allarme anti-incendio..). A terra avevamo sparso testi di poesie e canzoni. Nei locali risuonava una musica un pò magica che non si capiva bene da dove arrivasse (tutta la prima parte della conduzione l’ho passata ad una consolle allestita su un soppalco della biblioteca, divertendomi a mixare colonne sonore, tappeti di musica ambient, classica contemporanea ed elettronica cercando di costruire – anche a livello sonoro – l’atmosfera giusta per il lavoro).
I ragazzi sono hanno iniziato la propria esplorazione con una pergamena in mano che riportava la consegna:
Quando avrai trovato una poesia – o la parte di una poesia – che ti risuona, che per ragioni anche imperscrutabili ti chiama, lasciati scegliere da lei.
Cerca allora un luogo propizio per accostarti a lei nella sua dimensione immaginale, affinché tu riesca a captarne il potere simbolico.
Scegli un luogo comodo e accogliente.
Ora leggi e rileggi più e più volte la poesia.
Non giudicarla, non chiederti se è bella, brutta, scritta bene o male,
Se per caso ne conosci l’autore rimuovi tutto ciò che sai.
Affinchè l’esperimento riesca prova ad annullare te stesso e il tuo vissuto, non cercare parti di te e della tua esperienza tra i versi.
Rimani sulle parole, sulle immagini che la poesia ti suggerisce, ti propone, con cui il testo ti pervade.
Focalizzati sulle immagini che la poesia fa scaturire
COSA VEDI?
Annota ogni visione sul tuo blocco”
L’intento era lavorare sul potere immaginale e simbolico della poesia. Per questo eravamo andati, giorni prima, a consultarci con Paolo Mottana, che ci aveva dato qualche prezioso consiglio (se sei incuriosito dalla pedagogia immaginale clicca qui).
E’ iniziata un’esperienza di esplorazione solitaria, di contemplazione e meditazione, di ricerca di visioni. E’ stato un lavoro dello stare, dell’attesa, del silenzio fuori ma soprattutto dentro.
In un secondo momento i ragazzi si sono ri-incontrati, appartati in piccoli gruppi hanno condiviso le visioni.
A questo punto sono comparsi intorno a loro teli e maschere. Utilizzando questi oggetti mediatori ogni gruppo era invitato a dare corpo alle immagini emerse con un breve scena teatrale, in un processo trasformativo di appropriazione e re-invenzione.
E’ difficile raccontare a parole la bellezza di quello a cui abbiamo assistito poco dopo. Vi lascio alle immagini del video che postato all’inizio dell’articolo che rimangono una, seppur limitativa testimonianza.
Sicuramente è stato un momento che ricorderanno a lungo, una TAZ generativa, un “atto insensato di bellezza” .
Utilizzare youtube con gruppi di adolescenti come strumento di apprendimento riflessivo
L’idea in pillole: Si chiede ai ragazzi di indicare titoli di video che loro ritengono particolarmente significativi. In seguito si guardano insieme. Il conduttore, attraverso specifiche domande e sollecitazioni, aiuta il singolo e il gruppo a fare i “movimenti dell’apprendimento esperienziale“, costruendo apprendimenti riflessivi.
La consegna
Entro in aula. Dopo una mezzoretta di aggiornamentochiedo ai ragazzi di scrivere su un bigliettino il titolo di un video reperibile on line che reputassero significativo. Un video che raccontasse qualcosa di loro o in generale dell’essere adolescenti oggi, del mondo che abitano. Chiedo che, al di là delle parole, fossero le immagini l’elemento comunicativo centrale. Potreva essere un video musicale, una pubblicità, il trailer di un film..
I ragazzi si mettono a scrivere subito, quasi senza rifletterci, pare che nessuno avesse difficoltà a trovare il titolo, qualcuno anzi mi chiede: “posso scriverne 2? 3?”. Io rispondo che va bene, ma cercando di metterli in ordine per importanza, in modo che uno, anche per pochissimo, la spunti sugli altri.
IL FIORELLINO DENTRO
Ritirati i bigliettini ci spostiamo nello spazio allestito per la proiezione. Vedremo i video uno a uno. Chiedo se qualcuno di loro vuole proporre il proprio per primo.
Si offre Diego. Subito ci tiene a precisare che non si tratta di un vero e proprio video, ma è solo una canzone accompagnata da un’immagine statica di una una ragazza “manga”.
Ok, anche se non era esattamente quello che avevo chiesto. Cerco il video su youtube e clicco play. La ragazza dell’immagine è molto bella, stesa che guarda il soffitto. La canzone ha una melodia triste. Diego dice che è una canzone “depressiva”. Il testo è in inglese, scorre in un angolo dello schermo, proviamo a tradurlo insieme ma lui ci dice che non sono importanti le parole. Lui ascolta questo pezzo quando pensa alla sua ragazza che vive in Svizzera, che può vedere solo nei mesi estivi. Ci racconta che lei è così come l’immagine del video, così bella. Gli occhi di Diego si fanno lucidi. Gli chiedo se vuole dare un nuovo titolo a questo pezzo, a partire dalle cose che ci ha detto, lui risponde senza pensarci troppo: “vorrei che tu fossi qui”. Alejandro, che fino a quel momento era sembrato distratto, vede Diego commosso ed esclama ad un tratto: “dentro di lui c’è un fiorellino”.
Io dico che forse c’è un fiorellino dentro ognuno di loro, e di noi. Solo che qualcuno lo tiene ben nascosto, lo ha messo in un’armatura perché è molto delicato.
Propongo di affiancare al titolo dato da Diego anche “Il fiorellino dentro”.
Alcuni annuiscono.
LACRIME
Il secondo a proporsi è Marco, ci dice che non vorrebbe condividere un video ma una canzone. Che la cosa importante è il testo (figuriamoci se ce ne è uno che segue la consegna!) È un pezzo hip-hop di Luchè. Se la cosa importante è il testo allora ho bisogno del testo: attraverso google lo recupero velocemente, lo copio su un foglio word e lo proietto, ingrandendolo il più possibile in modo che tutti lo potessero leggere.
Parte il pezzo, lo ascoltiamo mentre io faccio scorrere le parole. Al termine dell’ascolto chiedo a Marco di individuare il passaggio nel testo che gli risuona maggiormente. Lui indica questi versi:
Quando avevo
bisogno di lei
Mi trovai con un coltello nella schiena
E un
addio scritto a penna
E mo’ non credo più nell’amore
io lo evidenzio in neretto nel testo proiettato.
Marco racconta che gli ricorda una storia d’amore finita male. Che c’era questa ragazza che si era presa gioco di lui, lo aveva lasciato più volte e poi era sempre tornata chiedendogli di rimettersi insieme. Lui ci era sempre ricascato, finché un giorno ha trovato la forza per parlarle chiaro, dicendole quello che pensava, che non voleva essere più trattato in quel modo. Chiedo a Marco se quella vicenda gli ha portato qualche insegnamento. Lui risponde che ha capito che è meglio parlare chiaro e il prima possibile anche se abbiamo paura, che il silenzio a volte è un buon alleato ma non sempre.
Dopo un momento di silenzio Marco riprende la parola, vuole aggiungere un’altra riflessione: “anche a me è capitato in un modo simile di prendermi gioco di alcune persone, questa cosa mi fa pensare..”
Gli chiedo se c’è un altro passaggio del testo che vorrebbe sottolineare. Lui ci indica questo:
So che non è facile Credere ai miei occhi quando sono fragile Guardare attraverso le mie lacrime
La parola lacrime tocca molti del gruppo, avevamo appena intravisto quelle di Diego. Sembra che emerga ancora più forte quella sensazione di vulnerabilità, quel fiorellino interiore protetto dietro i loro fisici e atteggiamenti che paiono inattaccabili. La cosa forse più importante educativamente e che ci si inizia ad accorgere che siamo in un gruppo in cui anche le vulnerabilità possono emergere ed essere accolte. Non una cosa da poco.
SI NASCE E SI MUORE, CI SI INCONTRA E CI SI LASCIA
Il video seguente è di Paolo. Ci propone Daniele Marino, cantante neo-melodico che non conoscevo, ma a quanto mi raccontano i ragazzi molto famoso.
Il video comincia con un incidente d’auto. Due fratelli camminano sul marciapiede, quello più grande è distratto dal telefono e attraversa la strada mano nella mano con quello più piccolo. In quel momento passa un’automobile e quest’ultimo viene colpito e buttato a terra sulla strada.
A questo punto il video comincia un surreale botta e risposta tra il cantante e il bambino steso sull’asfalto, il primo che chiede perdono e si dispera, il secondo che riflette sull’ineluttabilità del destino. Durante questo dialogo i protagonisti ripercorrono tutta la loro vita, e si scopre che anche la loro mamma è scomparsa prematuramente. Sebbene il video, ai miei occhi, rasenti il ridicolo, la tensione emotiva nel gruppo è molto alta. Ad un certo punto decido di fermarlo perché i ragazzi sembrano non riuscire più a reggerlo, e perchè so che per un di loro la ferita per la morte del padre è profonda e ancora aperta. Quando si lavora coinvolgendo i vissuti personali uno dei compiti più difficili del formatore è quello di mantenere una temperatura emotiva sufficiente per dare intensità e profondità al lavoro, ma non oltre quella che il gruppo può reggere e gestire.
Paolo racconta che questo video gli fa pensare al suo fratello in Ukraina, che non ha mai più visto da quando è stato adottato e ha lasciato quel paese. Sentendo quelle parole Samuele e Diego in contemporanea dicono “Anch’io sono ukraino!”. Era il secondo giorno di Paolo all’Anno Unico, questa “carrambata” ha generato subito un legame, o quantomeno un ponte importante.
Dopo aver nominato suo fratello il volto di Paolo si era coperto di un velo di tristezza, durato finché all’improvviso non si ricompone e dice: però mi sta per nascere un nipotino, il figlio di mia sorella, e sono felice!
Si avvia allora tra i ragazzi un discorso sulla vita, sul fatto, ovvio ma forse impossibile da realizzare nella sua enormità che nella vita si nasce e si muore, ci si incontra e ci si lascia. Io penso a quanto sia importante lavorare su questi argomenti oggi, in un mondo in cui la cultura dominante nasconde il dolore (o lo trasforma solo in pornografia emotiva) e nega il limite e la fine.
PERDONAME MADRE POR MI VIDA LOCA
Ora tocca al video di Deborah. Ci propone la canzone di un rapper russo, Kalin Ryse Nikolov; il pezzo si intitola Mama I’m a criminal. Il video è molto violento, utilizza le prime immagini del film Batman il cavaliere oscuro in cui un gruppo di malviventi vestiti da clown rapinano una banca, uccidendosi a vicenda uno alla volta. Mi chiedo cosa ci voglia comunicare con delle immagini così forti e come potrò lavorare su questo video.
Ho imparato che in queste situazioni la cosa migliore da fare è evitare elucubrazioni e chiedere direttamente al ragazzo la strada da percorrere con lui. Il video è un oggetto mediatore tra di noi (e tra il ragazzo e se stesso), è importante quindi capire quale aspetto del video risuona in lui, quello che ci vuole comunicare attraverso quell’opera. Il rischio è che noi formatori coinvolgiamo i ragazzi nell’indagine di aspetti che colpiscono noi, andando completamente fuori strada rispetto le risonanze dell’adolescente. A volte i ragazzi ci portano un video o un opera d’arte perchè entrano in contatto con piccoli particolari che a noi possono sfuggire o sembrare secondari. Rimanendo in ascolto attento e mettendo da parte il nostro ego da quei piccoli spiragli possono nascere riflessioni importanti.
Mi rivolgo quindi a Deborah: “Quali tra queste immagini ti risuonano di più Debby? perché?”. Lei mi risponde, spiazzandomi, che non gli interessano le immagini, che lei quella canzone di solito la ascolta in cuffia mentre cammina per la città: non le importa il video e nemmeno il testo (che non capisce). Vuole porre l’attenzione solo sul titolo.
Sbang!! Se avessi iniziato a proporre stimoli sull’analisi delle immagini avrei sbagliato completamente!
Deborah è lapidaria “questo titolo evidenzia la difficoltà di dire le cose di cui ci vergogniamo alle persone a cui vogliamo bene”. Si vede che non ha voglia di approfondire troppo, però è bastata questa frase per far passare una scarica emotiva e di rispecchiamento in tutto il gruppo. Lo si vede da come per un istante sono cambiate le espressioni. La delusione e la paura di deludere sono alcuni tra i sentimenti più presenti all’Anno Unico: la delusione dei famigliari per il fallimento scolastico, per alcuni anche i guai con la legge in cui si sono cacciati.
Alejandro, che viene dall’Ecuador, ci racconta che i carcerati appartenenti alle gang si facevano tatuare sulla palpebre la scritta “perdoname madre por mi vida loca”. La ragione per cui o scrivevano proprio sulle palpebre era perché così gli altri, in particolare la propria madre, lo avrebbero visto solo quando sarebbero morti.
Alejandro sottilinea la dimensione della vergogna che vivono queste persone nei confronti di chi amano di più. I ragazzi non esplicitano i motivi, per ognuno diversi, della loro vergogna, ma con breve frasi o cenni del corpo si mostrano coinvolti e partecipi al tema che risuona di volto in volto.
SUPER SAYAN
E’ il momento di andare verso una chiusura, ci sono altri video da vedere ma vanno rinviati alla volta successiva. Il lavoro è stato intenso. Faccio spontaneamente i complimenti ai ragazzi, per la loro profondità, per i discorsi importanti che avevamo fatto. Ci sentivamo tutti appesantiti. Io avrei proposto un giro di sharing ma non mi sembrava ci fosse la predispozione adatta. Qualcuno dice: Perchè per rilassarci un po’ non ci guardiamo Dragon Ball? In risposta arriva un coro di “si dai!” “ci sta!”. Io dico ok, senza pesarci troppo, abbiamo tutti bisogno di un momento di decompressione. Chiedo loro quale stralcio di Dragon Ball vorrebbero vedere. Sono tutti d’accordo, chiedono quando per la prima volta Goku si trasforma in Super Sayan.
Lo vediamo insieme. “Mi vengono i brividi!” esclamano tanti durante la proiezione (anche un giovane collega, entrato nel frattempo in aula). Raccontano che gli veniva in mente quando quella scena l’avevano vista per la prima volta da bambini “Il mio più grande desiderio era diventare dei Super Sayan!” dice uno. Qualcuno dice che si chiudeva in bagno e urlava come Goku per trasformarsi. Ma non succedeva niente. Altri rispondono “anch’io!”.
Mi è subito venuto alla mente quando da bambino io sognavo di trasformarmi in Hurricane Polimar un eroe delle anime dei primi anni ottanta.
Interviene Corrado, con tono di voce serio: “…è che ad un certo punto ti accorgi che non puoi trasformarti. Diventi grande e capisci che non puoi essere un Super Sayan. Capisci che nella vita devi sbrigartela da solo..”
Penso che la prossima volta mi piacerebbe ripartire da qui, mi stupisce quante cose importanti emergono semplicemente dandogli gli strumenti per raccontarsi e riflettere.
IO CREDO IN ME
Le tre ore di aula stanno per terminare. I ragazzi chiedono se come conclusione della giornata potevano vedere insieme la sigla di Naruto (ormai siamo entrati nel mood “gli anime che mi hanno aiutato a crescere”..). Io non l’avevo mai vista, anche se della lunga serie di questo cartone animato ho visto buona parte. Il titolo è didascalico, pura pedagogia nerd: “io credo in me”.
I ragazzi vanno a sdraiarsi nell’ “angolo morbido” dell’aula dell’Anno Unico. Sono un pò scomodi per vedere la proiezione ma hanno voglia di “accucciarsi”. Cercano un momento di cura, rifugiarsi un attimo nella loro infanzia. Si tratta di un viaggio regressivo ma sereno, che genera gruppo, voglia di tornare a quel momento della loro vita in cui ancora credevano nel futuro. Si accoccolano, e parte la musica..
ps: i nomi potrebbero non essere proprio quelli reali..
Venerdì 22 e sabato 23 marzo si terrà il terzo modulo del percorso “ALIENI. Formazione per il lavoro con i nuovi adolescenti” promosso da METODI.
Per riflettere su come relazionarci con i vissuti di rabbia, conflittualità, tensione dei nuovi adolescenti.
Pratiche di GUERRIGLIA EDUCATIVA per coltivare fiori in un’epoca di caos e impotenza.
Sempre più nei servizi e nelle scuole si ha a che fare con adolescenti a cui è sconosciuto il senso del limite, alterati psico-fisicamente da sostanze e/o da notti insonni, non ribelli ma carichi di una aggressività distruttiva e autodistruttiva.
Si tratta di situazioni in cui alle criticità – che ben conosciamo – di crescere in situazioni di povertà culturale, sociale ed economica, si sommano le problematiche nuove tipiche di crescere nel nostro tempo.
Atteggiamenti di questo genere producono negli operatori senso di impotenza e frustrazione, disagio e sofferenza che si amplificano quando divengono loro stessi bersaglio della provocazione e dell’aggressività.
E’ possibile in queste situazioni continuare a fare il nostro lavoro? Come? E’ possibile coltivare fiori in questo caos che non è solo dentro e fuori i ragazzi, ma anche dentro e attorno a noi?
Attraverso un lavoro di tipo esperienziale e psicodrammatico ci si concentrerà nell’analisi e nella condivisione di casi reali e nello sviluppo di strategie alternative di “guerriglia educativa”. Pratiche di emergenza non solo finalizzate a “sopravvivere” ai nostri ragazzi ma anche ad aprire spiragli di crescita e apprendimento, fiori nel caos del quotidiano.
Conducono:
Davide Fant
Formatore e ricercatore. Responsabile di un servizio sperimentale per adolescenti in situazione di abbandono scolastico. Si occupa di consulenza e formazione in contesti socio-educativi e scolastici. È autore di Pedagogia hip-hop – gioco, esperienza, resistenza (Carocci, 2015)
Cristina Bergo
Psicologa, psicoterapeuta e psicodrammatista. Ha sviluppato percorsi di prevenzione delle dipendenze e programmi centrati sulle metodologie attive e le life-skills per il lavoro nelle scuole e con i giovani in situazioni di vulnerabilità.
Si può giocare con la prospettiva di assenza di futuro che pervade i più giovani (e non solo)? Quando la catastrofe arriverà i nostri adolescenti “sdraiati” rimarranno sul divano? Storia di una contro-esperienza educativa
Le tende erano piantate nel frutteto della cascina Santa Brera, a San Giuliano Milanese. La proposta era quella di vivere un’esperienza di vita comunitaria in cui i ragazzi avessero la possibilità di cucinare insieme, sperimentarsi in laboratori di trasformazione come la falegnameria o la sartoria, dialogare con la natura. La sfida più grande era però trascorrere quattro giorni il più lontano possibile da qualunque tipo di attività commerciale, senza possibilità di fare acquisti (almeno in negozi fisici), in un momento storico in cui il mercato ha completamente saturato la vita delle persone.
Per ragazzi abituati ad una vita comoda e a genitori molto attenti ai bisogni e capricci dei propri “cuccioli d’oro” si trattava di un contesto molto sfidante. A spingere la prova ad un livello ancora più alto c’era il fatto che nel periodo in cui si tiene la settimana alternativa, i primi giorni di maggio, spesso piove: la cascina diventa un mondo di fango e umidità, e molte attività diventano davvero una sfida epica.
GIOCHIAMO L’ASSENZA DI FUTURO E LA CATASTROFE
Ogni anno proponiamo uno sfondo integrativo, un tema, un’ambientazione fantastica differente che avvolge l’intera esperienza. Questa volta si è deciso di sfruttare per la nostra narrazione proprio la sventura climatica, che dalle previsioni si prospettava più infausta del solito.
Abbiamo detto ai ragazzi che le difficoltà erano volute e programmate, che noi eravamo in contatto con un deus ex-machina che provocava gli eventi climatici infausti (e altre difficoltà assortite) a comando. La ragione era che l’apocalisse era alle porte, e che quello a cui sarebbero stati sottoposti era un training per formare un gruppo di giovani in grado di sopravvivere a tale catastrofico evento. Questo era necessario perchè le eccessive cure dei genitori contemporanei avevano cresciuto generazioni forse incapaci di affrontare situazioni estreme come quella che si prospettava.
L’ispirazione è venuta dal libro di Margaret Killjoy “Guida steampunk all’apocalisse” (AgenziaX, 2008) un vero e proprio manuale in cui si spiega con ironia (ma non troppo) perché il mondo potrebbe finire a breve e cosa si potrebbe fare per sopravvivere al cataclisma. In modo molto pratico il libro racconta come costruire rifugi di emergenza in scuole abbandonate, recuperare acqua potabile quando ogni fonte sembra contaminata, oppure riutilizzare in molteplici modi resti di automobili.
Anche noi in cascina abbiamo analizzato con loro tutti i motivi per cui il mondo come lo conosciamo potrebbe collassare da un momento all’altro, gli studenti non hanno fatto fatica a produrre un lungo elenco: la guerra nucleare, lo scontro tra civiltà, ma sicuramente il surriscaldamento globale era al primo posto.
Si è così avviato un gioco durato tutti i giorni del campeggio, in cui si è messa in scena la mancanza di futuro, ritratta in modo estremo, come in molti film e serie tv di genere distopico che i ragazzi conoscono bene, proponendo loro di abitare questo spazio e r-esistere, continuare a giocare e vivere pienamente anche nella catastrofe. Si è creato un ambiente ludico in cui teatralizzare lo sconforto per provare ad affrontarlo con occhi nuovi.
Il riferimento può essere sicuramente ad Enrico Euli, e il suo originale approccio alla “pedagogia delle catastorfi” (Casca il mondo, La Meridiana, 2007), in cui la tesi di fondo è che in un mondo in cui la paura, l’ansia della fine fanno da sfondo, e ci sono realistici indizi che la terra sia sotto minaccia, il lavoro educativo deve anzitutto formare a relazionarsi con questa situazione, non rimuoverla ma imparare a reggerne lo sguardo
Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un ossimoro: come possiamo conciliare l’ideale educativo con la distruzione e la morte che ci devasta? Eppure, a mio parere, divenire oggi consapevoli della catastrofe in corso, costruire assieme agli altri la capacità di “reggerne lo sguardo”, di ammetterla e riconoscerla, di esprimerla e elaborarla in qualche modo condiviso, è l’unica “missione” degna di dare un senso attuale e profondo all’educazione e alla formazione. (ivi p. 60)
La prospettiva di Euli non è però
mortifera, ma foriera di vita
Pedagogia delle catastrofi (o della non conoscenza): possiamo imparare a vivere la catastrofe non come una condanna, ma – giocosamente – proprio come una liberazione, con quell’intenso e profumato desiderio di liberarsi della libertà che inizio a sentire da tempo in me, e in altri.. (ivi, p. 191)
RESISTERE QUANDO NON C’E’ NULLA DA PERDERE, E ANCHE DIVERTIRSI
Quello che è successo durante i quattro giorni ha stupito anche noi. Il gruppo (sì, gli stessi adolescenti “sdraiati”, sempre attaccati al cellulare..) hanno accettato la sfida con un entusiasmo impensabile a priori. Quando alcune tende hanno iniziato a cedere – e abbiamo proposto noi ai ragazzi di dormire nella stanza che avevamo a disposizione nel fabbricato della cascina – sono stati loro a dire di no, hanno cercato di ripararle nel modo migliore possibile, e non si sono spaventati quando un esercito di formiche ha tentato di conquistare una tenda. Nel laboratorio di falegnameria hanno costruito armi per difendersi dai predatori e amuleti magici per scacciare la cattiva sorte, hanno prodotto vestiti riadattando gli “scarti” del precedente mondo consumistico in qualcosa di originale e stiloso, cucinato risotto con le erbe colte direttamente nel bosco e focacce cotte nel forno a legna, perché probabilmente i supermercati la fuori non avrebbero retto il cataclisma, e perché parafrasando una celebre detto “l’apocalisse non è un pranzo di gala”, ma forse ci si può trattare “da signori” comunque.
Questa grande mobilitazione dei ragazzi non è avvenuta per fini utilitaristici, non si è fatta nessuna operazione di gamificazione: non c’erano “punti” da spendersi a scuola una volta tornati (se fossero tornati..). Il coinvolgimento è avvenuto semplicemente per la bellezza dello sfidare se stessi, perché non c’era niente da perdere, perché le difficoltà erano accettate a priori e non restava che danzarci sopra. Peril divertimento di un’esperienza-limite vissuta insieme, in una follia (consapevole) collettiva di cui i formatori erano i primi complici.
E’ stato l’attraversamento di uno spazio liminale (Turner, 1986), di
una sfida che trasforma, come un rito di passaggio tribale.
L’esperienza si è conclusa con una cerimonia notturna. Abbiamo accompagnato i ragazzi nel bosco dove sono stati accolti da una sfera colorata di luce che illuminava gli alberi producendo un effetto psichedelico e una musica evocativa di sottofondo (le casse usb e mille gadgetlow-cost hanno risolto tanti problemi e aperto molte possibilità per effetti speciali D.I.Y.). I ragazzi sono stati chiamati uno ad uno e gli è stato conferito il titolo di “Survivor dell’apocalisse”. Per ognuno, prima dell’assegnazione del titolo, con una grande spada in legno autocostruita posata sul capo, sono state citate le “evidenze” del loro valore. Prendendo spunto da ciò che avevano riportato sui loro diari e condiviso in gruppo, sono stati ricordati i momenti in cui avevano esposto un’idea creativa per superare un problema, affrontato un timore, portato serenità e bellezza nel gruppo, agito oltre lo stereotipo di sé che generalmente vestivano.
Quello che stupiva era che al posto di bambini, a cui spesso si propone questo tipo di attività, c’erano ragazzi del cfp, tutti lì che stavano al gioco, tra il divertito e l’incredulo, riconoscendo, nella surrealtà del momento, l’autenticità delle parole che venivano proclamate, che segnavano il loro valore e la loro reale trasformazione in atto.
FUGHE, CONTRO-ESPERIENZE, ALLUCINAZIONI COLLETTIVE CHE GENERANO TRASFORMAZIONI
Quella appena raccontata è un’esperienza di fuga creativa; credo che oggi nel mondo educativo e nella scuola il concetto e la pratica della fuga vadano ampiamente rivalutati. E’ il movimento del sottrarsi (Le Breton 2016), prendere le distanze da una situazione satura, cristallizzata, orfana di visioni. A questa però si può aggiungere la dimensione immaginativa, attraverso la quale il sottrarsi agli stereotipi e alle ineluttabilità della quotidianità può portare alla generazione di universi e percorsi di crescita e di socialità nuovi.
Si tratta di uscire dalla quotidianità della realtà scolastica (e di vita in generale) e abitare luoghi altri, in cui le relazioni, i compiti, i panorami, i riti sociali sono diversi. Mi piace chiamare questi contesti “contro-esperienze”, spazi immersivi di alterazione e sovversione del percepire il mondo, non solo cognitivamente ma attraverso tutti i sensi. In queste situazioni l’apertura al fantastico è un valore aggiunto che catalizza la dinamica trasformativa dando la licenza di osare, di vedere qualcosa che non c’è ancora o che è nascosto, e di farlo nel piacere del gioco.
Ci siamo rifugiati in un bosco, in una cascina, sottratti dallo sguardo e dal giudizio del mondo fuori per creare delle nuove micro-comunità, Zone Temporaneamente Autonome (Bey, 1993) per sperimentare nuove possibilità, lontani dagli occhi indiscreti di chi dice “non si può!”.
TEMATIZZARE L’INELUTTABILITA’ DELLA SCONFITTA APRE AL GIOCO E ALLA VITA
L’espediente immaginativo di dire “non c’è futuro”, “la situazione è tragica”, “è praticamente impossibile sopravvivere” invece che portare scoraggiamento ha aperto a nuove possibilità di sentirsi vivi, di esserci, ha dato il via alla dimensione del gioco, dell’immaginazione poietica.
Si tratta di un’ “allucinazione collettiva”, condivisa e consapevole, in cui il mondo è stato sovvertito per un periodo circoscritto di tempo. Ma quando ne siamo usciti ci siamo accorti che non eravamo gli stessi, non solo gli adolescenti, ma neanche noi formatori.
Gli alunni coinvolti in queste esperienze sono tornati alla quotidianità sentendosi, in forme e modi diversi, cambiati, percependo che “qualcosa è successo”. Sono cresciuti nell’autonomia, nella responsabilità, hanno sviluppato apprendimenti tecnici, hanno soprattutto maggiore fiducia e serenità anche nell’abitare ciò che non controllano. Hanno stretto e approfondito legami interpersonali con i pari e i formatori in quel modo speciale che avviene solo tra chi è stato compagno di un viaggio intenso, un po’ magico e difficile da raccontare a chi non c’era.
Hanno sperimentato che esistono alternative, che esiste un modo di relazionarsi, di porsi, di sentire e sentirsi differente da quello quotidiano, che non tutto è ineluttabile, che forse si può ancora scegliere a che gioco giocare (basta essere certi di non avere più speranze)
Questo articolo è un estratto re-editato del mio saggio “Adolescenti tra notti, boschi, fate e catastrofi. Esperienze scolastiche ai confini della realtà” contenuto in “Una scuola possibile. Studi ed esperienze intorno al Manifesto «Una scuola»” a cura di F.Antonacci e M.Guerra (Francoangeli 2018)
RIFLESSIONI E STRUMENTI EDUCATIVI
PER UN’ECOLOGIA DEL DIGITALE
venerdì 25 e sabato 26 gennaio
RIFLESSIONI E STRUMENTI EDUCATIVI PER UN’ECOLOGIA DEL DIGITALE
venerdì 25 e sabato 26 gennaio si terrà il secondo modulo del percorso ALIENI promosso da METODI.
il tema riguarderà il rapporto tra gli adolescenti e le tecnologie digitali La conduzione affidata al gruppo C.I.R.C.E. (Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche), che negli ultimi anni ha sviluppato un approccio formativo originale – esperienziale e ludico – per il lavoro di coscientizzazione su questi temi.
presentazione:
Il massiccio utilizzo di strumenti digitali è un tratto caratterizzante gli adolescenti.
Ognuno possiede i propri dispositivi personali attraverso i quali può “evadere” in qualsiasi momento dal luogo dell’attività educativa e allo stesso tempo portarvi dentro il proprio mondo vitale; sono oggetti di relazione, costruzione di esperienze e realtà impensabili fino a pochi anni fa.
Si è venuto a creare pertanto un contesto in cui non mancano le situazioni problematiche: cyberbullismo, accesso a contenuti pornografici e/o violenti, violazione della privacy, dipendenza, alienazione.
Le parole oggi accattivanti come “profilazione”, “personalizzazione”, “fidelizzazione digitale”, “gamification” costituiscono un ambiente che conduce alla riduzione dell’autonomia personale e del senso critico.
Lo scopo del corso è quello di accompagnare insegnanti ed educatori ad approfondire e riflettere su queste tematiche e su come progettare e condurre attività finalizzate alla presa di coscienza. La prospettiva da cui ci si muove non è tecnofobica, ma volta a trovare una dimensione ecologica di relazione con le macchine, con attitudine creativa ed emancipante.
Attraverso momenti di lavoro di gruppo e attivazioni esperienziali si progetteranno e sperimenteranno strumenti didattici volti a sostenere lo sviluppo di un rapporto consapevole e critico con gli strumenti digitali. Si proporranno attività ludiche per generare consapevolezza intorno ai propri bisogni e desideri tecnologici, per sviluppare comportamenti virtuosi che riducano il potere pervasivo degli strumenti digitali, per esplorare criticamente il mondo che si cela “dietro lo schermo”.
Qualche tempo fa ho scritto un articolo per Animazione Sociale (lo trovate qui) in cui raccontavo come le discipline artistiche dell’hip-hop non solo possono essere uno strumento educativo (vedi qui) ma, allargando lo sguardo, posso indicare un’attitudine, pedagogica ed esistenziale, per r-esistere in questi tempi inquieti.
In quell’articolo avevo provato a spiegarlo in modo analitico, evidenziando 9 “lezioni” che potevano formare un ipotetico “Manifesto della pedagogia hip-hop”.
Quella che segue è invece la versione “poetry slam” di quel testo.
Con la declamazione di questo pezzo abbiamo spesso chiuso la performance “Crescere hip-hop live” (eccola qui). Buona Lettura.
E’ ormai chiaramente smascherata la truffa
che un pezzo di carta
aprirà le porte del nostro futuro
che se studiamo
sudiamo
accumuliamo titoli
avremo assicurato il dopo
ci proteggeremo dal fuoco
dell’incertezza
è ormai chiaro che qualsiasi progetto lineare
consequenziale
non vale
il tempo impiegato per concepirlo
a noi
non è rimasto che imparare per imparare
per sentirci funzionare
maratoneti di sbattimenti enormi
solo per la vertigine di fare esperienza di noi e del mondo
per l’assenza
la noia
per gioco
per l’urgenza di mettere in ordine il troppo
per ricompensa intrinseca, pulsione libidica
non ci è rimasta che fatica gratuita
per il vezzo di essere di più
il capriccio di rimanere liberi
per l’arroganza di sentirci vivi
per perdita di tempo
per il conforto del senso
In questa tempesta di flussi
in questo continuo accelerare
richiesta di performare
ritaglieremo aree confinate
zone temporaneamente incantate
autoproclameremo eterotopie
spazi dove valgono magie
territori di potenzialità retti da regole altre
ergeremo bordi per non straripare e cornici d’incontro autentico
godendo dell’io ci scopriremo noi
saremo crew, posse, tribù
reti di fiducia, affinità, affettività
piccoli gruppi d’apprendimento tra pari
famiglie non convenzionali
banchetti conviviali
Si è scoperto
che le grandi narrazioni non avevano chiusure all’altezza
finali altrettanto belli
il filo del discorso delle logiche biografiche è in brandelli
ritesseremo trama
il suono del racconto di noi sarà il nostro filo di Arianna
principio d’ordine nel caos
saremo metrica
intrecceremo parole afferrando il ritmo trovando equilibrio per non cadere
saremo griot
cantastorie
la parola sarà viaggio, messaggio, massaggio
protezione, barriera, dimora, cura
giardinieri di miti in questa radura
Sciami di scorie mediatiche ci si sbriciolano addosso
labili incontrollabili flussi di stimoli
tutto
si è riusciti a spezzettare
dichiariamo allora che ognuno di questi frammenti
sia materia del nostro gioco
mattoncini colorati per architetti bambini
saremo dj
mixeremo
ri-mixeremo queste rovine creando nuova musica meticcia
per coreografie che superano le vostre categorie
artigiani della ricombinazione
apprenderemo facendo collage
cut-up,
mash-up
raffineremo l’arte dell’ibrido e del sincretico
saremo migranti che imparano a tenere insieme mondi campionando
tagliando
incollando
sfumando una nell’altra le esperienze
sbloccando il loop dell’eterno presente con un’entrata a strappo
in questo troppo saràsolo questione
di una buona selezione
Dichiariamo
che come abbiamo
trasformato un giradischi in uno strumento musicale
utilizzeremo qualsiasi oggetto tecnologico arrogandoci la libertà di violarne i protocolli d’uso esplorandone le potenzialità
piegandolo alle nostre necessità
al di là
dello scopo per cui è stato concepito
superando la passività indotta
con la fotta
radicale di un bambino
L’unica tecnologia che amiamo è quella dirottata e riappropriata
l’unica tecnologia che amiamo l’abbiamo già smontata
artisti del riciclo
sarti degli scampoli
reality samplers
sempre con disciplina
rovisteremo nelle discariche a estrarre florida materia prima
d.i.y.
in pratica artigiani,
bottegai
lavoro lento di riappropriazione con cura e criterio
micro-economie del desiderio
E torneremo corpo
che avete piegato con quei banchi di prigione frontale
dimenticato davanti ad uno schermo di coscienza sbragata
appiattito in un’immagine photoshoppata di perfezione
ritroveremo un senso ripartendo dai sensi
riconquisteremo lo spazio modellando il movimento virtuosi della bellezza del gesto
saremo danza tra le macerie di ferite e possibilità
tensione mente-corpo in forma-flusso
saremo l’aria che ci attraversa
voce-respiro
saremo vibrazione
meditazione accompagnata da ritmi nuovi
atti gratuiti di bellezza
silenzio e acrobazie
sciamani
d’inattese ecologie