Una poesia collettiva per prenderci cura di noi che di lavoro ci prendiamo cura. Dare forma in versi ai vissuti della ripartenza
Il testo che segue lo abbiamo scritto durante un laboratorio on line di formazione formatori (do you know AlieniOnLine?…), riflettendo sulle potenzialità della poesia nel lavoro a distanza con gli adolescenti.
Nasce come esercitazione, come gioco leggero per esploratori di nuove possibilità.
un pad, un foglio di testo open source, etico e sottile, e le nostre parole
Rileggendolo ho pensato che fosse importante pubblicarlo. In mezzo a tutto il vociare di questi giorni sui giovani, sulla scuola, sugli insegnanti, sugli educatori, noi operatori in prima linea forse abbiamo più bisogno di silenzio e parole incarnate. Abbiamo bisogno di fare un passo a lato, guardare dentro e guardare oltre, di visioni, di ri-connetterci con noi stessi e tra di noi, prenderci cura di noi.
Se qualcuno vuole ‘sentire’ come stiamo vivendo questi giorni, quelli che seguono sono i nostri appunti in versi. Se qualcuno vuole proseguire questa poesia collettiva, ci mandi le sue immagini, le sue visioni, le sue metafore.
Questa ripartenza – poesia collettiva
Questa ri-partenza è grigio nebbia con fasci di luce è pongo plasmabile montagne alte che ti attraggono e ti spaventano scalpitare allo start con i pesi alle caviglie sono sereno sapendo che le nuvole sono veloci a coprire il cielo, e la tempesta torna in fretta tengo stretto il manubrio di gomma rigida un ritmo difficile da ballarci sopra ci sono
Parto giallo cammino scalzo con i piedi al caldo non c’è più il deserto in paese ma la sabbia è rimasta affondo lascio tracce guardo le scie sento l’umidità della tempesta sta arrivando? ruvida mi riempie occhi e orecchie di suoni morbidi di battiti sordi
Settembre in bianco e nero, una fotografia da ricolorare, un ritorno lento alla velocità, un passo verso un futuro meno tracciato, carico di previsioni senza un cielo azzurro, toccando l’incertezza ma con la speranza che sapremo suonare come un’orchestra.
Lo stridìo assordante della metro. Quando fa caldo e ci sono i finestrini abbassati ma qualche bocchettone dell’aria condizionata ancora funziona e ti congela. Quello stridìo, che non sai se la metro resta sui binario deraglia.
la ri-partenza è funambolica…. il tempo arricciato e allungato si snoda perdendo i suoi soliti confini. Mi sento grigia e gialla a secondo dell’aria che sento. Vorrei più silenzio e meno folla di rumori superficiali, più silenzio per sentire e capire
Questa partenza è di un bianco sporco di plastica dura, un piccolo pezzo di Lego correre sotto la pioggia è cumuli, nembi, cirri, strati da cui arriva un tuono lontano e il grido di un falco
Questa ri-partenza è un vetro appannato su cui passare le dita e vedere attraverso. La pioggia ci batte sopra, appoggi la mano per sentirene le vibrazioni, trema la mano, trema il corpo,…..sarò pronto?
Questa ri-partenza è tinta di un pallido verde come una tenue speranza, è un legno sospinto a riva dopo un lungo naufragio, è un vecchia foto di amici che ora si ritrovano cambiati, è uscire da schemi ripetuti, è un cielo rosa in un tramonto estivo vellutato, morbido, che accompagna un sussurro: “è vita”.
Questa partenza è scricchiolante di foglia vola nel vento leggero cadrà? si alzerà? la accompagno con lo sguardo Riparto verde come quel prato al pascolo Rimbalzo come una pallina di gomma dentro un oceano dove non tocco. Questa partenza è rossiccia, il cielo della sera. È dura e fragile, un righello che si piega. Le nuvole coprono tutto. Camminare veloce sui tacchi, e piove. Tocco il terreno ed è bagnato e caldo, sento il rumore delle gocce di pioggia che cadono.
Questa ripartenza Cangiante e opaca Un filo sottile, uno zaino pieno Saltare da un sasso all’altro, scivolosi, sul torrente Resto asciutta Ingannevolmente tiepida, serena a tratti, con nuvole sospette all’orizzonte Che possono cambiare fronte Un prato invitante, una strada in pianura, montagne aspre vicine Prendere un respiro, allacciare bene le scarpe comode
Questa ripartenza è il tiepido arancio è costanza è la pista nel deserto, motori rombanti temporali devastanti fresco e morbido gelato, da mangiare con le mani violini ritmati, colpi sferrati, cori vibrati
la mia ripartenza è fluida e malleabile è magma incandescente è salita sotto nuvole e vento è un filo sospeso sopra punti di domanda è rosso fuoco, ma anche giallo sole è alternanza tra rulli di tamburi e flauti leggeri come l’erba morbida e fragile
la (ri)partenzaè a righe bianche e nere elastico che si tende ma non si spezza è maionese in creazione, vortice necessario per non impazzire Questa partenza è giallo intenso come il sole fuoco che abbaglia e brucia attrae e fa paura mi avvicino e mi allontano cerco ombra e fresco nel caldo torrido silenzio assordante
Questa ripartenza la voglio giallo sole ma è resistente come l’acciaio… le nuvole vanno e vengono mentre cammino in salita. Forse pioverà ma sento il calore di un suono amico in lontananza, una tromba che suona
La mia ripartenza fumo negli occhi la finestra si spalanca e salto fuori il vento che spazza in girostare cercare vie nuove tra il rumore di fondo freddo e il silenzio del tuo sguardo. Settembre, è un vivido magenta che incastra il pensiero, è argilla nelle mani, è ondeggiare in mezzo al mare, ed è ventoso, chiudo gli occhi e mi lascio cullare da una musica dolce
Questa ripartenza è sfuocata Intravedo opportunità Percepisco timori, paure. Allungo la mano Incontro fumo Mi faccio strada tra la nebbia Avanzo titubante nell’ignoto Dei giorni che verranno Rosso, di Ferrocome una madonna che scavanella pioggia e sente un colpo che crea una musica. Bella Musica!
Questa partenza è grigio chiaro, è nuvole che si rincorrono tra spiragli di cielo è il brusio delle onde, un ritmo sempre pronto a cambiare so galleggiare, (ri)imparo a nuotare La bici cade in un sorriso sbucciato il solletico dell’erba alta sul palmo che gira e piove nel silenzio infranto dall’ape e l’attesa del suo lavoro d’oro al mattino con i progetti freschi spalmati di burro
7 ragioni per cui, anche se ci estingueremo, questo movimento sarà stato prezioso (per chi ne avrà fatto parte)
Che movimento è questo? Sono ragazzi superficiali, incompetenti? Illusi? E Greta chi è? E’ manovrata dalla madre in cerca di fama? Da Soros? Dalle aziende che hanno bisogno di fare greenwashing? Cosa diciamo di tutte le contraddizioni di cui è imbevuta questa questione? Di seguito qualche riflessione, a partire dallo sguardo di una persona che lavora quotidianamente con gli adolescenti. Spoilero la conclusione: ritengo stia accadendo qualcosa di prezioso, indipendentemente dal fatto che durerà o si consumerà rapidamente, che ci salveremo o ci estingueremo. Forse è importante sottolineare che tutto ciò ha un valore prima che per il futuro, per il presente dei giovanissimi che lo stanno vivendo e alimentando, per almeno 7 ragioni:
1 La consapevolezza si costruisce camminando
“Non possiamo pensare che ragazzi di 16 anni, fino a ieri lontani dalla politica, spesso disinteressati al bene comune, di punto in bianco diventino persone politicamente mature, che facciano discorsi profondi e articolati sui temi sociali, consapevoli della complessità delle questioni, e magari con qualche bello slogan che ricordi “i gloriosi anni andati delle nostre lotte”. Probabilmente se il movimento continuerà le persone cresceranno, l’analisi e la narrazione si farà più complessa (anzi si molteplicheranno le narrazioni), si svilupperanno nuove pratiche e proposte. Probabilmente si alzerà il livello di conflittualità, e la critica radicale al sistema economico e agli attuali stili di vita non potrà passare in secondo piano. La contestazione, per chi ne fa un percorso, è occasione di ricerca, di crescita e apprendimento. “Camminare domandando”, diceva qualcuno.
2 Finalmente un pò di sano non-realismo
Contraddicendo apparentemente quanto appena scritto, uno dei valori di questo movimento è una buona dose di non-realismo e caparbietà (tipica dei bambini..) che lo ha acceso. E’ nato lontano da (e aggiungerei contro) quel razionalismo maschile, adulto, che tanto si pone in cattedra a criticare; è andando contro questa formula di “anthropos” che si è riaperta la possibilità di azione. Forse sta accadendo qualcosa di molto importante che, insieme ad altri movimenti (black lives matters, Lgbtq…), sta cercando di perturbare l’egemonia del paradigma antropocentrico-illuminista-occidentale che ci permea, e che sta mostrando di essere arrivato ad un punto non più generativo.
3 Il bene comune torna nel vocabolario degli adolescenti
Questi sono ragazzi a cui è stato insegnato che ci si salva da soli, schiacciando gli altri. Che bisogna pensare a sè, a competere nell’hunger game della precarietà. Chiunque abbia a che fare con loro quotidianamente sente quanto questa narrazione li abbia pervasi. E ora invece alcuni di loro si stanno incontrando, organizzando, dedicando del loro tempo per qualcosa che li trascende. Anche solo autoconvocandosi il pomeriggio per dipingere uno striscione stanno assaporando un sentimento di comunità che molti non sapevano nemmeno esistesse. Sta succedendo qualcosa di impensabile fino a pochi mesi fa, questo quantomeno si registra nel piccolo osservatorio del CFP di provincia dove lavoro.
4 Un sano scontro generazionale, in cui mettere tutto sul conto
Le istanze ambientaliste sono un’occasione per questi ragazzi per aprire (finalmente) una dialettica generazionale, per tematizzare un risentimento che va oltre quelle specifiche questioni, che vediamo oggi troppo spesso soffocato. Si concretizzano tensioni nei confronti di adulti che hanno radici nel disagio di chi è stato cresciuto iperprotetto, a cui è stato imposto l’imperativo del successo e del godimento nel consumo, causa sempre più di ansia e frustrazione. Lo striscione “tra cinquant’anni voi non ci sarete ma noi si” è forte, ma fondamentale nella sua dirompenza, sia da un punto di vista pedagogico che sociale.
5 Depurarsi dal mercato
Si tratta di un’occasione per questi giovanissimi per alleggerisi dai bisogni indotti dal mercato. Possiamo sorridere vedendoli andare a scuola portando la borraccia invece che comprarsi le bottigliette alla macchinette, pensando “così credono di salvare il mondo”. A me è capitato più di una volta sentire adolescenti imprecare perchè avevano sete e la macchinetta aveva finito le bottigliette di plastica. E darmi del pazzo quando gli ricordavo che a fianco c’era un bagno con un lavandino; questo per molti è il punto di partenza. Azioni come riempire la propria borraccia con l’acqua corrente, non mangiare carne, ridurre i viaggi in aereo, prima che per salvare il mondo rappresentano, istintivamente, il bisogno di depurarsi dal grasso di un troppo che li ha saturati, di ritrovare lentezza dove tutto è sempre andato troppo veloce per poter essere rielaborato. Una generazione per cui mcdonald non è il simbolo della lotta alla globalizzazione liberista, come poteva essere per la mia, ma più personalmente rappresenta il vissuto di una città fatta di non-luoghi, dell’ingozzarsi di schifezze per uccidere la noia di un mondo che ha perso il senso.
6 Si può essere vivi, nonostante il mercato, nonostante le contraddizioni
Molte aziende hanno capito che abbracciare questo movimento può essergli utile per lanciare i propri prodotti green e alzare i propri fatturati. Lo sappiamo. Il mercato oggi è ovunque, non è possibile starne fuori, permea qualsiasi cosa, anche le situazioni più radicali. Si tratta di una delle sofferenze più grandi per chi cresce in quest’epoca (pensiamo ad esempio che oggi non esiste più genere musicale, cultura giovanile, che non siano fagocitati dal business già al loro comparire). E Greta indubbiamente è anche un fenomeno mediatico, forse anche spinta da abili social media managers. Ciò non vuol dire però che all’interno di questo territorio sporco, senza zone franche, non possa nascere qualcosa di vivo, non possano aprirsi spiragli di resistenza. Bisogna però accettare anche le contraddizioni, le enormi difficoltà, gli scivoloni. Fare i puristi, cercare qualcosa libero dai tentacoli del mercato, nell’epoca in cui il mercato fagocita qualsiasi cosa, vuol dire rimanere immobili e sterili.
Segni di vita nella depressione
Alcuni giornali commentavano l’intervento di Greta Thumberg all’ONU come una voce pessimista che porta un approccio castrofico laddove serve ottimismo e speranza nel futuro. Un altro lato positivo di questo movimento è forse proprio questo. Aiutarci a guardare in faccia la catastrofe, esplicitare la tragedia, rigettare un finto sguardo positivo verso il futuro che la società felicista ci impone (lasciandoci con la depressione ben nascosta ma che spegne dentro). E allora è meglio uno sguardo negativo e incazzato, ma pieno di vita.
Per chiudere copio e incollo una poesia, trovata in rete, l’autore è Giordano Ruini. Spiega molto bene quello ho cercato di dire
Davvero avete bisogno di sapere se il clima è impazzito se quella ragazzina è manovrata se è vero che i ghiacciai si sciolgono se l’Amazzonia brucia se la plastica soffoca gli oceani se il pianeta collasserà nel 2050 se le emissioni di Co2 sono sopra il livello di guardia?
A me basta osservare la fila di auto al mattino sulla statale per finire almeno otto ore al giorno in contesti tossici costretti in ansie e doveri vedervi fare quello che anestetizza l’anima e non quello che vi libera per tornare la sera cinici ingrigiti
A me basta vedere i vicini di casa che sono più irritati dalle foglie della quercia in autunno che dal rumore e dalla polvere dei camion
A me basta sapere che vi sembra normale lasciarvi imbruttire da un’altra banalità incazzarvi per un commentino sui social ma ignorare il continuo sperpero della vostra vita e non cantare mai
A me basta vedere quel ragazzino che si chiude in casa per sempre perché non ne vuole sapere di questa infelicità di questa burocratizzazione dell’umano di questi adulti così marci che non comprendono che la vera emergenza è non saper riconoscere la meraviglia di un fiore
A me basta vedere un esercito di depressi che bramano psicofarmaci e ansiolitici riempiendo le tasche velenose di chi gli sta rubando la vita e sentire dentro di me che questa depressione è una ovvia risposta del corpo a tutto quello che non va e a cui non dico di no
A me basta essere allergico al polline e far fatica a respirare per l’aria tumorale di questa pianura che cresce come il vostro Pil
A me basta vedere i tuoi parenti che muoiono di cancro per Augusta, per l’Ilva, per l’acqua contaminata, per il cibo guastato dal profitto e sentire gli schiavi degli schiavi che dicono “meglio morire di lavoro che di fame”
A me basta vedere quanti soldi buttate per la ricerca contro le malattie quando è questo costringersi alla falsità che ci fa esplodere il pancreas distrugge la cistifellea e annerisce il colon e che le cellule diventano tumorali perché la bellezza è oscurata e la gioia non trova spazio
Avete ancora bisogno di ascoltare i dibattiti e ragionare sui dati per sapere che la casa è in fiamme che l’inquinamento fuori è identico a quello dentro l’umano che tu per primo stai bruciando
e che basta la tua attenzione gentile che ti fermi adesso, che respiri, che ti vedi che basta il tuo cuore aperto e vulnerabile per curare tutto il mondo?
Un MIX evocativo per scoprire il valore pedagogico della cultura nata nel Bronx. Il testo completo della performance R-ESISTERE HIP-HOP di Skrim, Mastino e DJ Vigor.
Il testo è costruito attraverso un cut-up di citazioni riportate nel libro Pedagogia hip-hop. Gioco, esperienza, resistenza. Nasce come presentazione un pò originale del volume e si trasforma con il tempo in una vera e propria performance di spoken word, rap e live video mixing (qui se vuoi saperne più). Un mix evocativo per cominciare a riflettere sulle moltiplici potenzialità generative dell’hip-hop a livello personale e sociale.
THE BRONX 70s
A metà degli anni settanta il reddito medio pro capite nel bronx era di 2.430 dollari, appena la metà della media di New York e il 40% della media nazionale. Il tasso ufficiale di disoccupazione giovanile toccò il 60%. I funzionari dei servizi sociali sostenevano però che la vera cifra era più vicina all’80%.. (Jeff Chang)
Era un’epoca di divertimento, eravamo un gruppo di adolescenti vivaci che stavano diventando adulti in un periodo piuttosto turbolento. La violenza, le gang e la droga infestavano le nostre strade. Ma come diceva mia nonna, non c’è male che accade da cui non possa nascere qualcosa di buono. Il Bronx era disprezzato datutti, compreso il presidente Carter. Era un quartiere bruciato e abbandonato. Non avevamo altro che noi stessi e la nostra cultura. Non avremmo potuto fare altro che condividerla. Da tutto quel male nacque qualcosa di così positivo da contaminare il mondo intero. (Joe Conzo)
Siamo gli avanzi nella sporca cucina i resti del banchetto di ieri frattaglie di cui ancora t’ingozzi siamo quei bambini lisi, narcisi i fanciulli della crisi bighellonando nell’attesa d’appassire senza nulla a cui ambire affiliamo l’arte di giocare con ciò che ci resta finchè esplodiamo con la beffa di una festa non richiesta (Skrim)
I dj pionieri delle feste in strada attaccando improbabili giradischi e impianti audio all’alimentazione dei semafori hanno modificato l’applicazione del divieto di transito in centro, creando spazi comunitari dove non ce n’erano. In quel luogo si aggregava tutto il quartiere: giovani, famiglie, anziani e persino membri di diverse gang. Era un meraviglioso posto d’incontro per tutta la comunità. (Trac2)
Nel Bronx ci si mise a giocare. E come ogni gioco che si rispetti non c’era un piano, non c’era una finalità sociale o pedagogica, non c’era nessun educatore o animatore a “far giocare”. Si cominciò a giocare solo per il gusto di giocare. Si giocava liberi, senza nulla da perdere, con la voglia di trasformare e di essere trasformati. Si imponeva un gioco che era impulso di vita, pronto ad esprimere tutta la sua potenza, la sua radicalità. (Davide Fant)
Fuochi di bivacco tra le scorie radioattive si canta gioia ancora qui sull’orlo della fine s’intingono versi nel grembo di un tramonto di un’epoca che implora di riavere il suo racconto asseta l’attesa nel deserto del reale resa a questo bieco sfumare sarà sfiancata eternità, sbiadita umanità canto del cigno che risplende a 10.000 watt (Skrim)
La nostra volontà di sopravvivere giocosa e canaglia eccentrica e libera cruda e inferocita potevamo muovere montagne e nazioni e fondoschiena (Walidah Imarisha)
BREAKING
I due tipi di colore fecero qualche passo in piedi per poi andare a terra con un velocissimo gioco di gambe. In risposta il ragazzo portoricano, Vinny, iniziò a fare toprocking, poi dei movimenti che potevano rimandare al mambo per buttarsi in seguito a terra. Nei dieci minuti di durata della battle la sfida Vinny ebbe la meglio su entrambi i ragazzi di colore, che mostrarono rispetto per il vincitore e gli strinsero la mano. A quel punto il ragazzo portoricano se ne andò come se niente fosse successo… La cosa mi intrigò parecchio! (Trac2)
L’atmosfera mentale in cui ha luogo la solennità è quella dell’onore, dello sfoggio, della millanetria, della sfida, si vive nel mondo dell’orgoglio tribale e cavalleresco, del sogno eroico, mondo in cui valgono bei nomi e blasoni, e schiere di antenati. Non è il mondo delle preoccupazioni per l’esistenza, dei calcoli d’interesse, dell’acquisto di cose utili. (Huzinga)
Combattendo la colonizzazione del tempo e lo spossessamento della propria vita cercando un nuovo potere del corpo sullo spazio, uno spazio che non solamente è lo spazio comune ma un altro mondo, questo centro è il luogo della creazione (Hugues Bazin)
Sono forze contrapposte poste in un solo equilibrio che danno fuoco al suolo quando stride per l’attrito al ritmo della vita che si muove ed è pulsazione come il battito del cuore scorre dentro ad ogni sentimento come sangue nelle vene è un movimento circolare come il tempo è naturale come respirare la spinta inversa a quella di un oggetto quando cade invade orecchie testa scendendo sul collo si snodano dinamiche annidate nel midollo arrivano alle ossa, muscoli, tendini muovendoli in simbiosi con la musica è lei che ne ha le redini e dirige la rigidità in giro per il flusso scorrevole impulso leader indiscusso la corrente che rende possibile prendere il tuo corpo e renderlo tagliente Non so dirti esattamente cos’è che si mette moto in me, segue l’accento del break fino a fondere le note con le articolazioni del corpo si sciolgono quando la puntina è nel solco (Musteeno)
WRITING
In fondo il bambino che gioca, il puer ludens non è proprio l’infaticabile costruttore di uno spazio intermedio in cui il mondo viene rifatto, dislocato, simulato e rinnovato? interpretato e sovvertito in modo da renderlo sopportabile, abitabile, anche nell’esercizio ripetuto delle crudeltà necessarie nella sofferenza delle sconfitte e nell’euforia della lotta? (Francesca Antonacci)
Ho tirato fuori i loop e i goccioloni, poi writers come Stave 2 e SuperMug presero gli stili Soft Loop e Arrow, aggiunsero altri loop, presero le gocce e le trasformarono in spruzzi. Checker 170 loopava tutte le lettere, ancora oggi non riesci a leggere certi suoi pezzi. John 150 faceva le lettere soft e wild con certi cambiamenti. Io ho squadrato le mie lettere softie e ho fatto le lettere soft block, che usavo in diversi stili. Iniziai a capire il modo di creare un concetto o una lettera partendo da un altro. Come i loop. Tondi. Rompo il loop a T, o lo faccio più triangolare. Posso limitarlo a un lato solo. Hi-C lo riprende, facendolo da tutte due le parti, lo loopa di nuovo. Vedo che lo si può squadrare o incurvare. Così sono uscite le lettere meccaniche, che vengono dalle lettere soft wild (Phase II)
Erano militarmente strutturati per essere illeggibili, erano armati, noi non volevamo che la società vedesse che stavamo buttando tutte le lettere all’aria. Graffiti era la parola che voi ci avete appioppato. Panzerismo iconoclasta l’unica definizione per spiegare quello che abbiamo fatto sui treni della subway. E’ questa la parola che dovrebbe essere usata. Poi siamo arrivati al futurismo, ai carri armati, alle lettere con le quali ci siamo armati. Da ornamento ad armamento. (Rammellzee)
Skrim Def Dee come ai tempi del liceo reo niente galateo a piedi sera tardi passi accorti come lince nella sconcia pancia di provincia, prima tag ode al nome mio, 5 lettere sul muro esistevo io esistevo io frammentato inquieto come wild style ancora qui si vive senza alternative (Skrim)
MCing
Nel buio, colto dal timore, un bambino cerca riparo canticchiando. Cammina, si ferma al ritmo della sua canzone. Sperduto si mette al sicuro, si orienta come può con la sua canzoncina. Essa è come l’abbozzo, nel caos, di un centro stabile e calmo, stabilizzante e calmante. Può accadere che mentre canta il bambino si metta a saltare acceleri o rallenti la sua andatura ma la canzone stessa è già un salto: salta dal caos ad un principio d’ordine in quel caos, che ancora rischia di sgretolarsi in ogni istante. C’è sempre una sonorità nel filo di Arianna. O nel canto di Orfeo. (Gilles Deleuze, Félix Guattari)
Chiedi a lei – sacra scrittura E’ lei che mi protegge sempre Ogni volta che appare il buio Fa parte di me Mi ascolta quando non c’è scampo In silenzio chiede solo rispetto in cambio (Musteeno)
DJING
La musica è soundscape: panorama sonoro multiplo che miscela le diaspore timbriche, strumentali, musicali, secondo moduli non più legati alla mitologia delle radici (roots), bensì all’attraversamento degli itinerari (routes). Il transito dalle roots alle routes sente la svolta dislocante del sincretismo tecnologico Il syn-tech è dislocante e diasporico. senza termine, interminabile, inafferrabile. Le diaspore syn-tech gemmano transculture. I performers di nuovi soundscapes sono sperimentatori che anticipano le nuove sensibilità non solo all’interno dei territori musicali, ma anche al di fuori, nelle de-territorializzazioni metropolitane: le interzone dell’ibrido, del sincretico. (Massimo Canevacci)
Sapevo cos’era perché studiavo elettronica a scuola. Sapevo che nell’apparecchio c’era un interruttore a tre posizioni. Quando è al centro la musica non si sente, quando è a sinistra si ascolta il piatto di sinistra, e quando è a destra il piatto di destra. Andai in un magazzino in centro per cercare quell’interruttore a tre posizioni, della colla per attaccarlo al mixer, un amplificatore supplementare e una cuffia. Saldai tutti i collegamenti e mi misi a saltare per la gioia, ce l’avevo fatta! Ce l’avevo fatta! (Grandmaster Flash)
Questa è la storia di come ho trovato il mio dj interiore di come ho capito il concetto di consapevolezza campionata in contrasto con la polizia della cultura autentica che mi ha sbattuto a terra picchiandomi, ripetendo: sei dei nostri, sei sei nostri? noi campioniamo, mescoliamo, sfumiamo una nell’altra le esperienze remixando la definizione di sè (Robert Karimi)
Il cambiamento di forma richiede la fluidità dei passaggi, la capacità di mantenere e di perdere, il rischio generoso e la prudenza del limite. La razionalità fredda del calcolo che ha guidato l’esperienza moderna dell’occidente mal si adatta a questa esigenza. Ci sono richieste nuove qualità che stiamo appena cominciando ad apprendere. Per passare da una forma all’altra senza esplodere, per tenere insieme frammenti dell’imprevedibile, sono richieste capacità di intuizione e di immaginazione da sempre rinchiuse nei territori segregati del sogno, del gioco, dell’arte, della follia. Non c’è metamorfosi senza perdita e senza visione, si può cambiare forma solo se si è disposti a perdersi, a cambiare ad immaginare (Alberto Melucci)
Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi, non a loro agio in attività di tipo teatrale.
Le idee in pillole: 1 – Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi e non a loro agio in attività di tipo teatrale. 2 – Proporre ai ragazzi di utilizzare i loro smartphone, con applicazioni semplici e intuitive, per creare narrazioni attraverso le quali esplorare il proprio mondo interiore 3 – Creare occasioni di espressione di sè in cui si garantisce al ragazzo la possibilità di proteggersi dall’esposizione diretta allo sguardo dell’altro, proponendo un’alternativa all’imperativo “mostrati!” della società attuale.
Riferimenti metodologici e ambiti di ispirazione: Metodologicamente i principali riferimenti si possono ritrovare – Nello storytelling digitale in una prospettiva di apprendimento esperienziale – Nello psicodramma moreniano e in particolare il lavoro con la maschera di Mario Buchbinder L’ideazione della proposta è sicuramente influenzata da pratiche quali il cosplaying, il gioco di ruolo e il LARP (Live action role-playing)
Mettersi in gioco per piccoli step
In genere quando si propone un’attività di tipo teatrale i ragazzi meno a loro agio con la corporeità, più introversi o magari con sintomi di fobia sociale, la risposta è (intuitivamente) un rifiuto. In un’ottica di “pedagogia nerd” una possibilità in questi casi può essere accompagnare a lavorare sugli obiettivi formativi che ci si è proposti (attivazione del corpo nello spazio, espressione del mondo interiore attraverso la fisicità, creazione di relazioni..), ma per piccoli step, dando loro la possibilità di rimanere protetti e mantenersi in un ambiente conosciuto e a loro congeniale (il mondo fantastico). Quello che segue è un esempio di questo tipo di attività.
Se qualche collega è incuriosito e vuole provare a proporre qualcosa di simile non si scoraggi dall’utilizzo delle maschere (materiale non facile da avere a disposizione). Un lavoro simile si può fare anche realizzandole in cartone (come si vedrà in fondo al post) oppure utilizzando altri espedienti.
La scoperta delle maschere
I tavoli dell’aula dell’Anno Unico erano coperti di tante maschere diverse. Alcune orrorifiche, altre misteriose, altre curiose, altre ancora simpatiche e rasserenanti. Ogni ragazzo era invitato a prenderne una che gli risuonasse. La consegna era “prendi la maschera che ti chiama.. fatti scegliere da lei..”. Una volta scelta la proposta era di indossarla ed eventualmente completare il travestimento utilizzando stoffe e mantelli, e aggiungendo altri gadget come bacchette magiche, campanellini, armi in legno.. A loro disposizione c’era uno specchio, o in alternativa per guardarsi potevano utilizzare i loro cellulari in modalità “selfie”.
A questo punto la richiesta era di provare a immaginare chi fosse quella maschera, quale storia avesse, quale missione nel mondo, annotando appunti su un foglio. Ho utilizzato come stimolo una scheda personaggio simile a quella di un gioco di ruolo, o di un videogioco, sottolineando che non era obbligatorio compilarla tutta.
Inventare le storie a gruppi e realizzare i frame fotografici
I ragazzi erano poi invitati a guardarsi intorno, osservare gli altri e unirsi in piccoli gruppi facendo incontrare le maschere che secondo loro avevano “qualcosa da dirsi”. Compito di ogni gruppo era inventare una storia i cui protagonisti fossero i personaggi nati dall’attivazione precedente.
La storia quindi doveva essere divisa in alcuni frames fotografici: i ragazzi mascherati dovevano mettersi in posa per rappresentare le diverse fasi della narrazione e fotografarsi utilizzando i loro cellulari.
Un editing digitale semplicissimo e dall’effetto immediato
A questo punto, utilizzando due app, Prisma e PicSay, i ragazzi avevano il compito di trasformare le foto in vignette. Prisma è un’applicazione per smarphone che permette di “fumettizzare” qualsiasi immagine. L’utilizzatore può scegliere tra opzioni di filtri diversi, alcune dalla resa grafica davvero efficace. PicSay invece permettere di aggiungere anche fumetti per dare voce ai personaggi (al momento in cui scrivo Prisma dovrebbe essere disponibile per Android e iOS mentre PicSay solo per Android, ma se ne trovano altre simili per iOS). I ragazzi hanno così editato e realizzato il proprio fumetto, spesso stupendosi della bellezza delle immagini prodotte dall’intersezione tra la tecnologia e la loro sensibilità I ragazzi che lo desideravano potevano utilizzare un’altra app, VideoShow, per creare uno slideshow di presentazione della storia, con la possibilità di aggiungere musica ed effetti sonori.
Momento riflessivo di condivisione
L’attività si è chiusa proiettando i lavori prodotti. In questa fase il mio compito di conduttore è stato quello di provare ad approfondire i contenuti, chiedendo ai ragazzi di dare un nome ai sentimenti dei personaggi, ai loro pensieri, ai motivi dei loro gesti. In un’ottica di mantenere la “copertura” non chiedo di uscire dalla metafora, di raccontare se gli autori ritrovano qualcosa di quanto raccontato nei loro vissuti personali, a meno che ciò non emerga spontaneamente. L’idea è quella di invitarli ad esplorare il proprio mondo interiore rimanendo ancora protetti dalla metafora.
Creare spazi protetti di convivialità ed espressività
Un’attività di questo genere comprende alcuni elementi tipici del teatro quali la narrazione, la relazione “incarnata” tra personaggi, il corpo come veicolo narrativo, può però essere utilizzata con adolescenti che non parteciperebbero mai ad una classica attività teatrale. In particolare ho scelto in diversi casi di proporla ragazzi che provenivano da una situazione di hikikomori (o ne erano a rischio), o che in generale vivevano disagio nell’esporsi all’altro. I 3 diversi livelli di protezione – la maschera, la mediazione della foto, la fumettizzazione – permettono loro di sentirsi sicuri e quindi facilitano il mettersi in gioco. I ragazzi si muovono, esplorano gli spazi (le foto potevano essere fatte ovunque nell’edificio, e anche nel cortile), cooperano ad un obiettivo comune, interagiscono (e non è raro sentirli ridere insieme).
I ragazzi si espongono, comunicano rimanendo in uno stato di anonimato, ciò che importa non è il nome e il volto di chi manda il messaggio ma il messaggio stesso. Il prodotto artistico è un’opera collettiva che permette a chi l’ha creata di esprimere elementi importanti di sè, pur non svelando la propria identità.
Approcciare in modo attivo le tecnologie
Le applicazioni che sono state utilizzate contengono pubblicità, acquisti “in app” e le loro funzioni sono creativamente piuttosto limitanti: l’utilizzatore, può scegliere solo tra poche opzioni operative. Sono quindi agli antipodi rispetto al software libero, direzione imprescindibile in una prospettiva di Pedagogia Hacker. Un’attività di questo permette però, a ragazzi che spesso vivono lo smartphone come oggetto di dipendenza, subendone passivamente la presenza, di cominciare ad invertire la rotta, scoprire che la tecnologia può essere utilizzata in modo attivo, creativo, può permettere loro di generare opere originali a partire dalla propria sensibilità e necessità comunicative. Inoltre l’inversione di direzione è riscontrabile anche sul fronte dell’esposizione di sè. Mentre nei social network è fondamentale promuovere il proprio volto, la propria immagine, qui al contrario la regola è tenersi nascosti. Chi manda il messaggio è un’identità collettiva, un incontro tra persone che hanno lavorato ad un obiettivo comunicativo e artistico comune che trescende le singole individualità.
Le storie
Tra le storie realizzate da i ragazzi dell’Anno Unico c’è quella che racconta di Iris, un adolescente (con poteri magici) che per punizione è stato intrappolato in una foglia che non appassiva mai. Per questo rimase per anni attaccato ad un ramo, era “diventato un silenzioso osservatore del piccolo mondo che lo circondava e trascorreva le sue giornate pensando ad un modo per liberarsi”, era “centenario ma fisicamente appariva come al giorno in cui era stato intrappolato” (cit. dal testo dell’allievo). Iris cercava di chiedere aiuto ma, per colpa dell’incantesimo, era diventato afono, non emetteva alcun suono Un giorno però Iris incontrò Peggy, un ragazzo molto solo, che aveva il dono di un udito finissimo. Peggy fu l’unico a riuscire a sentire le grida di aiuto di Iris, lo trovò, salì sull’albero e lo liberò. Dal quel momento naque una bellissima amicizia.
E’ facile uscire di metafora e riconoscere nel vissuto di Iris quello di tanti adolescenti che abbiamo incontrato. Ritengo inoltre che abbia una grande carica poetica, esaltata dalla realizzazione per immagini che pubblico di seguito:
Nella seconda storia che vorrei presentare i contenuti sono invece meno rassicuranti, come accade spesso quando i ragazzi sono liberi di inventare senza l’intromissione dell’adulto. Ad una prima lettura potrà sembrare una storiella banale, ma anche qui possiamo trovare temi che caratterizzano il vissuto degli adolescenti: la fiducia, il tradimento di una persona cara, la rabbia.
La catarsi
Un lavoro di questo genere può attivare un processo di catarsi: il ragazzo, mettendo in scena l’assassinio di colui che lo ha tradito, “scarica” le tensioni negative, prendendo distanza dall’evento traumatico e provando una sensazione di liberazione; la vendetta viene agita nel mondo della rappresentazione scenica (senza conseguenze per la vittima!) ma permettendo al protagonista di esternare e dare forma alla propria sofferenza e rabbia. L’opportunità, in una fase successiva, di riguardare e commentare il prodotto finito (assistendo alla proiezione della storia realizzata) favorisce ulteriormente la rielaborazione dei vissuti. Si tratta di un processo che ha affinità con l’effetto di “purificazione dalle passioni” che Aristotele attribuiva alla tragedia greca e, in tempi più recenti, che Moreno indica come elemento importante della terapia psicodrammatica. Ragazzi che sono stati vittima di bullismo o di abbandono hanno potuto rientrare in contatto con il proprio vissuto negativo generando il bello, prendendosi cura di sè e avviando piccole (o grandi) trasformazioni.
La sfida di proporre la stessa attività ad un gruppo di ragazzi più “street”…
Ho provato a proporre questo tipo di lavoro anche alla Crew, il gruppo dell’Anno Unico più “street”, insofferenti ai setting maggiormente strutturati, spesso provenienti da contesti familiari e sociali difficili. I ragazzi si sono divertiti molto, hanno giocato con le maschere, ne hanno provate diverse a testa ma si è creato un clima di confusione tale che i gruppi (un quartetto e due coppie) non sono riusciti a creare alcuna storia. Sono nate alcune belle immagini, che posto qui sotto, tutte molto violente ed evocative, ma anche quando le abbiamo riviste insieme non siamo riusciti a parlarne, i ragazzi erano distratti, le voci si accavallavano, quando qualcuno provava ad intervenire con argomenti pertinenti gli altri lo interrompevano con battute. In quel momento mi sono fatto molte domande: avrei dovuto dare un consegna differente? Non avrei dovuto proporre questo lavoro ad un gruppo di ragazzi con queste caratteristiche?
Lo spettro
Ad un certo punto però qualcosa succede… proiettata sul muro compare l’immagine qui sotto. Non mi ricordavo nemmeno di averla scattata io quella foto. Era un ritratto di gruppo che alcuni ragazzi mi avevano chiesto per ricordare quel momento:
Luca per primo notò la persona sulla destra, separata dagli altri. Aveva una maschera a specchio, un volto spettrale senza occhi, naso, bocca, solo il riflesso del mondo circostante Luca si chiese ad alta voce chi fosse quello spettro, come fosse finito lì. Da quella domanda semplice il clima (magicamente..) cambiò: Hedi, acuto tirocinante, allargò al gruppo la domanda del compagno, invitando ognuno a proporre la propria teoria. I ragazzi si ascoltavano reciprocamente e rispettavano i turni di parola: “E’ uno spettro solitario”. “E’ triste, non ha amici, è venuto a ricordare che la felicità un giorno finirà”, “E’ una persona che è stata esclusa dal gruppo”… In poco tempo in quell’aula si sono materializzate e condivise alcune tra le paure più forti di questi ragazzi, paure “spettrali” in quanto indicibili, su cui si è potuto aprire un breve ma interessante e intenso spiraglio di riflessione. Ritengo che questo quarto d’ora abbia dato senso all’intera attività, un piccolo fiore nel caos che in seguito, in sede di colloqui individuali, avrò modo di riprendere in modo più approfondito e generativo con alcuni dei ragazzi presenti.
Autoprodurre le maschere. Il lavoro con un gruppo di ragazzi disabili
Quelle che seguono sono alcune immagini in cui le maschere sono state costruite con il cartone, a testimonianza che non è vincolante possedere un propria collezione. Il lavoro è stato fatto da una collega con un gruppo di ragazzi disabili, all’interno di una lezione di inglese.
Sperimentazione al corso di formazione formatori “Alieni”
Durante il percorso Alieni, strumenti e metodi per il lavoro con i nuovi adolescenti nel seminario dedicato alla cultura nerd e ai ragazzi più isolati, spesso è capitato di proporre questo tipo di attività ai partecipanti (educatori, psicologi, formatori), che si sono sempre prodigati creando immagini e storie molto interessanti.. Ecco qualche loro immagine per concludere. Questo seminario si svolge all’UESM Casa dei Giochi di Milano, patria nerd di ogni età. Le ultime due foto sono scattate nel suggestivo dungeon per LARP ad imbientazione dracula che si trova sotto l’edificio..
Re-inventare uno spazio pubblico e sperimentare l’intensità della poesia, attraverso un’ “occupazione” notturna, scene teatrali e l’intimità del buio
Le idee in pillole: 1 – “Occupare” un luogo pubblico per incantarlo, creare un temporaneo spazio di magia in cui : – le relazioni nel gruppo sono più intense – le relazioni con lo spazio si ristrutturano – Un tema di apprendimento come la poesia può essere affrontato nel setting che più gli si addice, quello notturno 2 – Lavorare sulla poesia in una prospettiva immaginale 3 – Proporre cicli di codifica-decodifica trasformando la poesia in scena teatrale attraverso l’utilizzo di oggetti mediatori quali teli e maschere
L’intento era presentare ai ragazzi la poesia in tutta la sua forza, scrollarle di dosso quella patina di cui spesso è ricoperta a scuola, che la disarma, la rende sterile. E poi, come richiedeva il progetto in cui l’attività era inserita, bisognava aiutarli a riavvincinarsi, in modo inedito, ai locali della biblioteca.
Ci voleva un’azione forte, destabilizzante.
“Perchè in biblioteca non facciamo un’irruzione a notte fonda? Entramoci avvolti dall’oscurità, intrufoliamoci a leggere, scrivere, dare vita ai versi!”
Mi ricordo le facce stranite dei colleghi quando ho proposto l’idea al tavolo di coordinamento del progetto Biblio.net, facce che presto si sono fatte complici. Ilaria DeLorenzo, compagna di mille scorribande educative, ci è stata subito, per lei era un invito a nozze.
E così, dopo un pomeriggio passato con i ragazzi a parlare di poetry slam e comporre testi di spoken word, una cena e una serata insieme, allo scoccare della mezzanotte ci siamo avventurati tra gli scaffali pieni di libri. Era completamente buio, tranne la luce dei lumini che io e Ilaria avevamo posizionato ovunque (tanto che più di una volta la direttrice ci ha chiamato per assicurarsi che non scattasse l’allarme anti-incendio..). A terra avevamo sparso testi di poesie e canzoni. Nei locali risuonava una musica un pò magica che non si capiva bene da dove arrivasse (tutta la prima parte della conduzione l’ho passata ad una consolle allestita su un soppalco della biblioteca, divertendomi a mixare colonne sonore, tappeti di musica ambient, classica contemporanea ed elettronica cercando di costruire – anche a livello sonoro – l’atmosfera giusta per il lavoro).
I ragazzi sono hanno iniziato la propria esplorazione con una pergamena in mano che riportava la consegna:
Quando avrai trovato una poesia – o la parte di una poesia – che ti risuona, che per ragioni anche imperscrutabili ti chiama, lasciati scegliere da lei.
Cerca allora un luogo propizio per accostarti a lei nella sua dimensione immaginale, affinché tu riesca a captarne il potere simbolico.
Scegli un luogo comodo e accogliente.
Ora leggi e rileggi più e più volte la poesia.
Non giudicarla, non chiederti se è bella, brutta, scritta bene o male,
Se per caso ne conosci l’autore rimuovi tutto ciò che sai.
Affinchè l’esperimento riesca prova ad annullare te stesso e il tuo vissuto, non cercare parti di te e della tua esperienza tra i versi.
Rimani sulle parole, sulle immagini che la poesia ti suggerisce, ti propone, con cui il testo ti pervade.
Focalizzati sulle immagini che la poesia fa scaturire
COSA VEDI?
Annota ogni visione sul tuo blocco”
L’intento era lavorare sul potere immaginale e simbolico della poesia. Per questo eravamo andati, giorni prima, a consultarci con Paolo Mottana, che ci aveva dato qualche prezioso consiglio (se sei incuriosito dalla pedagogia immaginale clicca qui).
E’ iniziata un’esperienza di esplorazione solitaria, di contemplazione e meditazione, di ricerca di visioni. E’ stato un lavoro dello stare, dell’attesa, del silenzio fuori ma soprattutto dentro.
In un secondo momento i ragazzi si sono ri-incontrati, appartati in piccoli gruppi hanno condiviso le visioni.
A questo punto sono comparsi intorno a loro teli e maschere. Utilizzando questi oggetti mediatori ogni gruppo era invitato a dare corpo alle immagini emerse con un breve scena teatrale, in un processo trasformativo di appropriazione e re-invenzione.
E’ difficile raccontare a parole la bellezza di quello a cui abbiamo assistito poco dopo. Vi lascio alle immagini del video che postato all’inizio dell’articolo che rimangono una, seppur limitativa testimonianza.
Sicuramente è stato un momento che ricorderanno a lungo, una TAZ generativa, un “atto insensato di bellezza” .
Si può giocare con la prospettiva di assenza di futuro che pervade i più giovani (e non solo)? Quando la catastrofe arriverà i nostri adolescenti “sdraiati” rimarranno sul divano? Storia di una contro-esperienza educativa
Le tende erano piantate nel frutteto della cascina Santa Brera, a San Giuliano Milanese. La proposta era quella di vivere un’esperienza di vita comunitaria in cui i ragazzi avessero la possibilità di cucinare insieme, sperimentarsi in laboratori di trasformazione come la falegnameria o la sartoria, dialogare con la natura. La sfida più grande era però trascorrere quattro giorni il più lontano possibile da qualunque tipo di attività commerciale, senza possibilità di fare acquisti (almeno in negozi fisici), in un momento storico in cui il mercato ha completamente saturato la vita delle persone.
Per ragazzi abituati ad una vita comoda e a genitori molto attenti ai bisogni e capricci dei propri “cuccioli d’oro” si trattava di un contesto molto sfidante. A spingere la prova ad un livello ancora più alto c’era il fatto che nel periodo in cui si tiene la settimana alternativa, i primi giorni di maggio, spesso piove: la cascina diventa un mondo di fango e umidità, e molte attività diventano davvero una sfida epica.
GIOCHIAMO L’ASSENZA DI FUTURO E LA CATASTROFE
Ogni anno proponiamo uno sfondo integrativo, un tema, un’ambientazione fantastica differente che avvolge l’intera esperienza. Questa volta si è deciso di sfruttare per la nostra narrazione proprio la sventura climatica, che dalle previsioni si prospettava più infausta del solito.
Abbiamo detto ai ragazzi che le difficoltà erano volute e programmate, che noi eravamo in contatto con un deus ex-machina che provocava gli eventi climatici infausti (e altre difficoltà assortite) a comando. La ragione era che l’apocalisse era alle porte, e che quello a cui sarebbero stati sottoposti era un training per formare un gruppo di giovani in grado di sopravvivere a tale catastrofico evento. Questo era necessario perchè le eccessive cure dei genitori contemporanei avevano cresciuto generazioni forse incapaci di affrontare situazioni estreme come quella che si prospettava.
L’ispirazione è venuta dal libro di Margaret Killjoy “Guida steampunk all’apocalisse” (AgenziaX, 2008) un vero e proprio manuale in cui si spiega con ironia (ma non troppo) perché il mondo potrebbe finire a breve e cosa si potrebbe fare per sopravvivere al cataclisma. In modo molto pratico il libro racconta come costruire rifugi di emergenza in scuole abbandonate, recuperare acqua potabile quando ogni fonte sembra contaminata, oppure riutilizzare in molteplici modi resti di automobili.
Anche noi in cascina abbiamo analizzato con loro tutti i motivi per cui il mondo come lo conosciamo potrebbe collassare da un momento all’altro, gli studenti non hanno fatto fatica a produrre un lungo elenco: la guerra nucleare, lo scontro tra civiltà, ma sicuramente il surriscaldamento globale era al primo posto.
Si è così avviato un gioco durato tutti i giorni del campeggio, in cui si è messa in scena la mancanza di futuro, ritratta in modo estremo, come in molti film e serie tv di genere distopico che i ragazzi conoscono bene, proponendo loro di abitare questo spazio e r-esistere, continuare a giocare e vivere pienamente anche nella catastrofe. Si è creato un ambiente ludico in cui teatralizzare lo sconforto per provare ad affrontarlo con occhi nuovi.
Il riferimento può essere sicuramente ad Enrico Euli, e il suo originale approccio alla “pedagogia delle catastorfi” (Casca il mondo, La Meridiana, 2007), in cui la tesi di fondo è che in un mondo in cui la paura, l’ansia della fine fanno da sfondo, e ci sono realistici indizi che la terra sia sotto minaccia, il lavoro educativo deve anzitutto formare a relazionarsi con questa situazione, non rimuoverla ma imparare a reggerne lo sguardo
Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un ossimoro: come possiamo conciliare l’ideale educativo con la distruzione e la morte che ci devasta? Eppure, a mio parere, divenire oggi consapevoli della catastrofe in corso, costruire assieme agli altri la capacità di “reggerne lo sguardo”, di ammetterla e riconoscerla, di esprimerla e elaborarla in qualche modo condiviso, è l’unica “missione” degna di dare un senso attuale e profondo all’educazione e alla formazione. (ivi p. 60)
La prospettiva di Euli non è però
mortifera, ma foriera di vita
Pedagogia delle catastrofi (o della non conoscenza): possiamo imparare a vivere la catastrofe non come una condanna, ma – giocosamente – proprio come una liberazione, con quell’intenso e profumato desiderio di liberarsi della libertà che inizio a sentire da tempo in me, e in altri.. (ivi, p. 191)
RESISTERE QUANDO NON C’E’ NULLA DA PERDERE, E ANCHE DIVERTIRSI
Quello che è successo durante i quattro giorni ha stupito anche noi. Il gruppo (sì, gli stessi adolescenti “sdraiati”, sempre attaccati al cellulare..) hanno accettato la sfida con un entusiasmo impensabile a priori. Quando alcune tende hanno iniziato a cedere – e abbiamo proposto noi ai ragazzi di dormire nella stanza che avevamo a disposizione nel fabbricato della cascina – sono stati loro a dire di no, hanno cercato di ripararle nel modo migliore possibile, e non si sono spaventati quando un esercito di formiche ha tentato di conquistare una tenda. Nel laboratorio di falegnameria hanno costruito armi per difendersi dai predatori e amuleti magici per scacciare la cattiva sorte, hanno prodotto vestiti riadattando gli “scarti” del precedente mondo consumistico in qualcosa di originale e stiloso, cucinato risotto con le erbe colte direttamente nel bosco e focacce cotte nel forno a legna, perché probabilmente i supermercati la fuori non avrebbero retto il cataclisma, e perché parafrasando una celebre detto “l’apocalisse non è un pranzo di gala”, ma forse ci si può trattare “da signori” comunque.
Questa grande mobilitazione dei ragazzi non è avvenuta per fini utilitaristici, non si è fatta nessuna operazione di gamificazione: non c’erano “punti” da spendersi a scuola una volta tornati (se fossero tornati..). Il coinvolgimento è avvenuto semplicemente per la bellezza dello sfidare se stessi, perché non c’era niente da perdere, perché le difficoltà erano accettate a priori e non restava che danzarci sopra. Peril divertimento di un’esperienza-limite vissuta insieme, in una follia (consapevole) collettiva di cui i formatori erano i primi complici.
E’ stato l’attraversamento di uno spazio liminale (Turner, 1986), di
una sfida che trasforma, come un rito di passaggio tribale.
L’esperienza si è conclusa con una cerimonia notturna. Abbiamo accompagnato i ragazzi nel bosco dove sono stati accolti da una sfera colorata di luce che illuminava gli alberi producendo un effetto psichedelico e una musica evocativa di sottofondo (le casse usb e mille gadgetlow-cost hanno risolto tanti problemi e aperto molte possibilità per effetti speciali D.I.Y.). I ragazzi sono stati chiamati uno ad uno e gli è stato conferito il titolo di “Survivor dell’apocalisse”. Per ognuno, prima dell’assegnazione del titolo, con una grande spada in legno autocostruita posata sul capo, sono state citate le “evidenze” del loro valore. Prendendo spunto da ciò che avevano riportato sui loro diari e condiviso in gruppo, sono stati ricordati i momenti in cui avevano esposto un’idea creativa per superare un problema, affrontato un timore, portato serenità e bellezza nel gruppo, agito oltre lo stereotipo di sé che generalmente vestivano.
Quello che stupiva era che al posto di bambini, a cui spesso si propone questo tipo di attività, c’erano ragazzi del cfp, tutti lì che stavano al gioco, tra il divertito e l’incredulo, riconoscendo, nella surrealtà del momento, l’autenticità delle parole che venivano proclamate, che segnavano il loro valore e la loro reale trasformazione in atto.
FUGHE, CONTRO-ESPERIENZE, ALLUCINAZIONI COLLETTIVE CHE GENERANO TRASFORMAZIONI
Quella appena raccontata è un’esperienza di fuga creativa; credo che oggi nel mondo educativo e nella scuola il concetto e la pratica della fuga vadano ampiamente rivalutati. E’ il movimento del sottrarsi (Le Breton 2016), prendere le distanze da una situazione satura, cristallizzata, orfana di visioni. A questa però si può aggiungere la dimensione immaginativa, attraverso la quale il sottrarsi agli stereotipi e alle ineluttabilità della quotidianità può portare alla generazione di universi e percorsi di crescita e di socialità nuovi.
Si tratta di uscire dalla quotidianità della realtà scolastica (e di vita in generale) e abitare luoghi altri, in cui le relazioni, i compiti, i panorami, i riti sociali sono diversi. Mi piace chiamare questi contesti “contro-esperienze”, spazi immersivi di alterazione e sovversione del percepire il mondo, non solo cognitivamente ma attraverso tutti i sensi. In queste situazioni l’apertura al fantastico è un valore aggiunto che catalizza la dinamica trasformativa dando la licenza di osare, di vedere qualcosa che non c’è ancora o che è nascosto, e di farlo nel piacere del gioco.
Ci siamo rifugiati in un bosco, in una cascina, sottratti dallo sguardo e dal giudizio del mondo fuori per creare delle nuove micro-comunità, Zone Temporaneamente Autonome (Bey, 1993) per sperimentare nuove possibilità, lontani dagli occhi indiscreti di chi dice “non si può!”.
TEMATIZZARE L’INELUTTABILITA’ DELLA SCONFITTA APRE AL GIOCO E ALLA VITA
L’espediente immaginativo di dire “non c’è futuro”, “la situazione è tragica”, “è praticamente impossibile sopravvivere” invece che portare scoraggiamento ha aperto a nuove possibilità di sentirsi vivi, di esserci, ha dato il via alla dimensione del gioco, dell’immaginazione poietica.
Si tratta di un’ “allucinazione collettiva”, condivisa e consapevole, in cui il mondo è stato sovvertito per un periodo circoscritto di tempo. Ma quando ne siamo usciti ci siamo accorti che non eravamo gli stessi, non solo gli adolescenti, ma neanche noi formatori.
Gli alunni coinvolti in queste esperienze sono tornati alla quotidianità sentendosi, in forme e modi diversi, cambiati, percependo che “qualcosa è successo”. Sono cresciuti nell’autonomia, nella responsabilità, hanno sviluppato apprendimenti tecnici, hanno soprattutto maggiore fiducia e serenità anche nell’abitare ciò che non controllano. Hanno stretto e approfondito legami interpersonali con i pari e i formatori in quel modo speciale che avviene solo tra chi è stato compagno di un viaggio intenso, un po’ magico e difficile da raccontare a chi non c’era.
Hanno sperimentato che esistono alternative, che esiste un modo di relazionarsi, di porsi, di sentire e sentirsi differente da quello quotidiano, che non tutto è ineluttabile, che forse si può ancora scegliere a che gioco giocare (basta essere certi di non avere più speranze)
Questo articolo è un estratto re-editato del mio saggio “Adolescenti tra notti, boschi, fate e catastrofi. Esperienze scolastiche ai confini della realtà” contenuto in “Una scuola possibile. Studi ed esperienze intorno al Manifesto «Una scuola»” a cura di F.Antonacci e M.Guerra (Francoangeli 2018)