Un’attività per liberare foto e immagini che custodiamo nei nostri dispositivi o che abbiamo affidato ai social network. Per farle respirare, dargli voce, renderle spazio di incontro.
inizio a pubblicare qualche frammento dal manuale di pedagogia hacker, che piano piano prende forma, su cui da tanto ragioniamo con i soci di C.I.R.C.E. Se ti interessa solo l’attività da fare con i ragazzi scrolla giù fino a che trovi “L’ATTIVITA'”
Con Carlo (“Karlessi” Milani) eravamo alla Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano – corso Teoria delle arti multimediali – il compito era stimolare negli studenti uno sguardo critico sulle tecnologie digitali, partendo anche dal presupposto che ne avrebbero fatto largo uso nel loro percorso professionale.
Ad un certo punto avevamo chiesto, approfittando delle loro competenze, di produrre dei disegni o semplici prodotti digitali per restituirci le loro risonanze agli stimoli che fino a lì avevamo portato.
Tra i tanti lavori interessanti uno studente ci invia un’immagine che – ci spiegherà poi in fase di restituzione – rappresenta il potere della fotografia, sua passione, di aprire sguardi nuovi.
Marco, così si chiamava, sottolinea il valore di quest’arte per indagare il mondo e guardarlo con altri occhi. Al termine della sua riflessione aggiunge però una nota critica che ci colpisce molto: sottolinea la frustrazione nell’utilizzo dei social network per presentare al mondo le proprie opere. Ci racconta con dovizia di particolari che dietro ad ogni foto che pubblica c’è un lungo lavoro: la ricerca del soggetto, la prospettiva, la luce…, spiega che magari prova 100 volte la stessa posa prima di trovare la forza comunicativa che cerca. Il problema è che però, quando arriva a caricare le sue opere migliori su instagram, o flickr, è consapevole che l’attenzione che il pubblico dedicherà ad ognuno di questi lavori sarà di pochi secondi (o meno…) dopodiché ricomincerà lo scroll frenetico, e mille altre immagini ne cancelleranno la memoria.
“Che la mia foto riceva o no un like non cambia, anche il like si consuma in un centesimo di secondo, il problema è che se non ci si ferma di fronte all’immagine, se ne perde tutto il valore!” ci dice.
Quando una fotografia parla per davvero
Sentivo che sarebbe stato interessante e prezioso approfondire ulteriormente la questione. Mi aveva colpito il modo in cui Marco parlava delle suo fotografie, c’era fierezza e affetto, sembrava che parlasse di creature animate; mi ha solleticato così l’idea di provare a dare voce davvero a una di queste immagini. Cosa ci avrebbero raccontato?
Vuoi fare un esperimento?
Propongo allo studente di sottoporsi ad un esperimento, se gli andava di impersonificare come un attore una delle sue foto per esplorare ulteriormente gli stimoli interessanti che ci aveva portato. Si tratta della tecnica psicodrammatica dell’ “inversione di ruolo“, in vero rischiata un pò così, incautamente, a freddo: non conoscevo le persona che avevo davanti, non sapevo se sarebbe stato la gioco, se fosse stato nella condizione adatta per immedesimarsi e lasciarsi andare alla spontaneità e creatività. Dai quei pochi elementi che possedevo, con un pò di fiuto e di azzardo, intuivo che avrebbe potuto funzionare; e ad ogni modo in caso non avesse funzionato sarei stato subito pronto a fare un passo indietro.
Ascoltare una foto che parla
Con molto coraggio, curioso e un pò perplesso, Marco viene alla cattedra, di fronte ad un’aula molto affollata. Gli chiedo di fare tre giri su se stesso (la cosa per lui si fa ancora più imbarazzante, ma sta al gioco…) sapendo che quando si fermerà si sarà trasformato nella sua foto, così che io potrò iniziare a intervistarlo. Di seguito i passaggi più significativi di questo strano incontro:
-Buongiorno foto. Piacere di incontrarti. Anzitutto puoi raccontarci cosa raffiguri?
Sono la foto di una falesia, la parete di una montagna, con una luce molto particolare, guarda come sono rosa.. da un’idea di serenità e di mistero..- – Come è stato il momento in cui sei nata, lo ricordi? – Si, lungo, quasi estenuante, però Marco si è preso molta cura di me; lui è un perfezionista sai… guarda come sono venuta bene, devo proprio ringraziarlo! – Senti foto, io però so che c’è qualcosa che non ti lascia serena, me lo diceva Marco prima. vuoi parlarcene un pò? – Certo… Io arrivo al mondo attraverso i social network. Questo mi permette di arrivare a tante persone, mica come le foto di un tempo che rimanevano chiuse negli album, che le vedevano poche persone e poi le dimenticavano. A volte ho anche tantissimi like sai? Il problema è che tutti si approcciano a me con superficialità – un’occhiata e via – distratti da tanti altri stimoli che ci sono nel mondo digitale, e io mi sento persa in mezzo a mille contenuti buttati li tanto per dire “esisto”. – Ma quindi cosa vorresti? – Ti confesso che sono molto gelosa delle foto nelle mostre, dei quadri nei musei, dove le persone si fermano, gli dedicano del tempo, le commentano, ci riflettono. Beate loro, io invece costretta in questo frullatore… Senti vuoi riassumere tutto quello che mi hai detto in un messaggio da mandare al mondo? – Si (Marco-foto ci pensa un pò) …voglio una cornice!!!
Questo incontro ha ispirato un’attività che abbiamo chiamato proprio “voglio una cornice!“, che è stata poi proposta tante volte nei percorsi educativi con pre-adolescenti o adolescenti, ma che sicuramente, nella situazione giusta, potrebbe funzionare anche in un contesto più adulto.
L’ATTIVITA’
“Fermare” le immagini
L’attivazione è molto semplice. Chiediamo ai ragazzi di cercare sul proprio telefono una foto, o in generale un’immagine che loro hanno prodotto, che magari è già stata condivisa sui social network (ma anche no), che ritengono meriti attenzione perché per loro particolarmente significativa, che dice qualcosa di importante di loro, o del loro sguardo sul mondo; un’immagine che, appunto, meriti “una cornice”. Non devono per forza essere opere d’arte (o sedicenti tali) come nel caso raccontato prima, vale qualsiasi foto o immagine che abbia un significato per chi la conserva nel proprio telefono, e che rischia di perdersi nel mondo sovraccarico del digitale.
Spegnere le luci, uscire dal dispositivo
Per prepararsi ad un lavoro del genere è utile un momento di riscaldamento che possa aiutare i partecipanti ad entrare in contatto e creare un clima di complicità e intimità. Uno degli elementi di base di questo lavoro è la creazione di un ambiente raccolto per condividere insieme le immagini, e questo può essere aiutato anche da elementi scenografici: per noi all’ Anno Unico è importante abbassare le luci, non solo per vedere meglio l’immagine proiettata, ma anche perché la penombra ci avvolge, unisce e protegge.
A questo punto proiettiamo le immagini una alla volta e prendendoci per ognuna tutto il tempo che merita. Le foto vengono così liberate dalla gabbia del dispositivo, scompare il rumore di fondo di altri mille contenuti, scompaiono i likes, è sabotata la possibilità di scrollare con il gesto automatico che siamo soliti fare, e si aprono spazi di connessione (con se stessi, con gli altri) imprevisti.
C’è qualcosa in questa attività che ricorda la “serata diapositive” frequenti prima dell’avvento del digitale. Le foto erano mostrate solo ad una cerchia stretta, si raccontava, ci si fermava su quelle che avevano un’importanza particolare. Il problema in quei casi era la prolissità, e il fatto che il proiettante era il centro della serata mentre gli altri poco più che spettatori (e ad un certo punto scattava anche qualche sbadiglio…). Con questa proposta si recupera il lato di intensità di quell’esperienza, con il valore aggiunto della circolarità e simmetria delle diverse voci, dello scambio come fondamento del lavoro.
Ad ognuno il suo spazio
La dinamica del lavoro è semplice: ogni ragazzo a turno presenta la propria foto, può raccontare quando l’ha fatta, quali sono i particolari che dovremmo notare, perché la ritiene significativa. Gli altri possono solo fare domande (alla base dell’ascolto attivo…); non si più commentare, non si può giudicare.
Volendo si possono anche utilizzare tecniche di conduzione più raffinate per approfondire l’analisi riflessiva (inversioni di ruolo, fumetti, riproduzione “live” della foto), ma nella maggior parte dei casi io preferisco lasciare il tutto “leggero”, confidenziale. Aggiungendo al limite la richiesta di un titolo per l’immagine al termine di ogni presentazione.
…DAL DIARIO DI UNA SESSIONE
Le immagini che i ragazzi in genere portano sono molto differenti. Di seguito racconto ciò che è emerso durante una sessione con i ragazzi dell’ Anno Unico, un paio di anni fa. Si tratta di un gruppo, per quanto eterogeneo, che aveva in quel momento già fatto un importante percorso di condivisione e lavoro insieme, in cui c’era già un buon livello di fiducia reciproca e capacità di ascolto.
Anzitutto, la famiglia
Alcuni partecipanti al gruppo hanno scelto di portare foto di propri famigliari (ma mai genitori o fratelli..), appartenenti alla cerchia allargata che sono stati rifugio e riferimento in momenti difficili.
Pablo ha portato un montaggio di foto di alcuni parenti in Perù, fatta con photocollage, un’applicazione per smartphone: ci sono i suoi zii e i suoi cugini sorridenti. Ci racconta che a loro è molto legato, purtroppo li vede poco perché vivono lontani, però sono come fratelli per lui, e non vede l’ora di ri-incontrarli. I compagni chiedono alcune informazioni per saperne di più, incuriositi da alcune pose o elementi nella foto.
Alex porta una foto che ritrae i suoi giovani zii: “mi capiscono più dei miei genitori, per fortuna che ci sono loro, senza di loro non so dove sarei ora…” ci dice..
L’istantanea di Laura invece ritrae lei con la sua anziana nonna; “l’ultima foto fatta insieme prima di morire” ci confida “la nonna ha significato molto per me“, poi rimane in silenzio, commossa. La Laura ne ha passate tante, tra comunità e ricoveri in ospedale, e a noi in quel momento ha voluto portare un pezzo importante di sé; se lo ha fatto è perché ha ritenuto che potesse fidarsi. Il valore di un lavoro come questo è che ognuno sceglie come starci, a quale livello di intimità esporsi. I compagni la guardano con sguardi pieni di vicinanza, è un silenzioso abbraccio di tutto il gruppo; Lorena, la sua amica, la abbraccia davvero.
La mia arte per raccontare di me
Felipe invece ci presento uno screenshot tratto dal suo profilo instagram. E’ una sua produzione artistica, realizzata con un’app per ipad. Lui è un appassionato di disegno (già un suo lavoro era stato pubblicato in un articolo, qui). Si tratta di un proprio “autoritratto digitale”, realizzato con cura, in cui il volto è diviso a metà; una metà è più serena, l’occhio è chiuso, mentre l’altra dà idea di “essere sull’attenti”: l’occhio è aperto e il volto meno rilassato. Ci racconta che in quel lavoro possiamo capire chi è veramente, e per questo ne è molto soddisfatto. Rappresenta il suo lato sognatore, quanto sia importante per lui fantasticare, la serenità dei momentitranquilli e creativi. E insieme c’è il Felipe che deve essere sempre sull’attenti in un mondo difficile, fatto di soddisfazioni ma anche minacce e sofferenze.
Samuele e Antonio non condividono invece immagini particolarmente intime o personali, ma non si sottraggono a condividere qualcosa di sé, che si rivelerà comunque molto importante Samuele ci mostra la foto che ha fatto ad un graffito. Ci dice che rappresenta il livello tecnico a cui aspira: ci fa notare come le lettere sono state decostruite, come si intrecciano, come tutto ciò trasmetta un senso di movimento, di vita; la “il nome si è trasformato in un essere biologico e meccanico insieme” ci dice. Ci fa notare la precisione del tratto, spiegandoci quando è difficile realizzare un’opera del genere con gli spray.
La bellezza del codice
Antonio, molto riservato, all’inizio aveva dichiarato che non avrebbe partecipato. Quando però gli ho ricordato che non era necessario portare una foto, e al limite nemmeno un’immagine originale, inizia a trafficare con il suo telefono, gira un pò nel web e poi mi invia il suo contributo. Si tratta del codice di un software in caratteri verdi, a “cristalli liquidi” come nei monitor di un tempo, su fondo nero. “La bellezza del codice” è il titolo che gli dà. “Nessuno capisce quello che vuol dire…”, ci dice con sguardo beffardo. Aveva trovato, con il suo stile, provocatorio e protetto, un modo per contribuire al momento di condivisione; sembrava che anche la sua immagine ci stesse dicendo “per capirmi c’è bisogno di tempo, non sono così immediato”. Mi ha fatto tornare in mente quando il nostro amico Baku, uno dei più potenti coder italiani, durante una delle reading che organizzavamo tempo fa in una baita in montagna, aveva letto il Kernel di Linux, con un’espressività tale che anche a me, che non so nulla di programmazione, era sembrato di capirne i contenuti, e in cui si palesava tutta l’intensità della sua relazione con quello strano linguaggio.
Fanculo al sole!
Per ultima tocca ad Lara. Porta una foto scatta da lei, e postata recentemente su Instagram. Ritrae il suo dito medio alzato e sullo sfondo un tramonto. Poteva sembrare anche questa una provocazione (e ci sarebbe anche stata…) ma scopriremo presto che non lo era per niente. Lara ha un fare molto serio, e inizia a raccontare: “anzitutto sono molto fiera perchè questa foto mi è venuta molto bene” “rappresenta quello voglio dire…“. Ci racconta che la foto è stata scattata al tramonto, il momento per lei più bello della giornata, perchè ne segna la fine, si abbassano le ansie e può godersi un pò di tranquillità. Al contrario la mattina rappresenta per lei la fase più ansiogena: non sa cosa potrà accaderle quali problemi dovrà affrontare. La foto immortala la luce che scompare, il giorno che si congeda al quale lei da il proprio personale saluto. Il titolo, piuttosto didascalico ma efficace, è “fanculo al sole“.
suggerimenti per allestire setting per il lavoro riflessivo ed esperienziale nel digitale
Condurre un gruppo in videochat non è facile, ce ne siamo resi conto tutti durante il periodo di migrazione forzata dei nostri corsi sui dispositivi digitali, e tanto più non è facile mantenere un setting “caldo”, che possa essere spazio protetto di condivisione di riflessioni personali, di lavoro con vissuti emotivi anche delicati.
Attraverso il monitor è più difficile sentirsi parte di un gruppo, il coinvolgimento emotivo è più difficile, c’è il rischio di distrarsi, anche perché partecipiamo contemporaneamente all’ambiente del gruppo in videochat e a quello del luogo in cui ci troviamo fisicamente. Inoltre i problemi tecnici possono creare forti disagi: voci e immagini che laggano, la linea che salta e ci espelle dalla piattaforma e così via.
Seguendo però alcuni accorgimenti possiamo rendere l’esperienza in videochat il più accogliente e conviviale possibile.
Ho provato allora a elencarne alcuni qui, tante di queste riflessioni e pratiche nascono dalle condivisioni e il lavoro insieme con la collega e amica Cristina Bergo:
Esplicitare insieme regole di fiducia
All’inizio di ogni nuova esperienza di gruppo può essere importante esplicitare le regole che a priori proponiamo al gruppo, dedicare un momento per deciderle insieme, regole che possano far sentire coinvolti e protetti i partecipanti. E’ importante esplicitare se la sessione sarà registrata, e in caso lo sia cosa ne faremo di quel file. Se vogliamo davvero creare un clima di complicità e intimità la registrazione andrebbe esclusa, possiamo impegnarci reciprocamente a non fare screenshot, a metterci tutti le cuffie (o isolarci) in modo che ciò che si dice non possa essere ascoltato da eventuali altre persone presenti nelle nostre case.
L’accoglienza e l’aggiornamento: anzitutto la condivisione del vissuto dei partecipanti
Un rito molto utile, all’inizio di una sessione, è quello dell’aggiornamento, ovvero il momento in cui i partecipanti del gruppo condividono qualcosa avvenuto nel tempo in cui non ci si è visti, oppure la situazione emotiva con cui si giunge al lavoro insieme. Sebbene per chiunque si occupi di apprendimento esperienziale questa pratica sia già di un must anche nel lavoro in presenza, in quello a distanza diviene ancora più importante, perchè vengono a mancare i momenti informali in cui questo tipo di condivisione possa avvenire ai margini dell’attività strutturata.
La consegna più classica di un aggiornamento è “oggi vi dico che…“, ma può anche bastare chiedere una parola ad ognuno, magari anche solo da riportare in chat (anche privatamente per chi desidera) per ascoltare e accogliere gioie, sofferenze, piccoli e grandi aspetti della quotidianità. Gli insegnanti che all’inizio delle proprie lezioni «perdono» del tempo per questo rito, possono testimoniare l’utilità nell’entrare in contatto con i ragazzi, l’influenza positiva nel processo di apprendimento.
Al posto del nome, qualcosa in più di noi: Uno stratagemma, anzi un «hack» per proporre un aggiornamento in modo semplice e rapido è quello di scrivere una parola che rappresenti il proprio stato d’animo o qualunque cosa si voglia condividere di sé nello spazio fornito da Zoom (e da molti altri software di videochat) per inserire il proprio nome.
Si tratta di una modalità creativa per “hackerare il software”: se quella feature della videochat era pensata come didascalia per riconoscere la persona in modo univoco e oggettivo, per «fare l’appello» noi al contrario la utilizziamo per amplificare la dimensione dell’interiorità, per farne qualcosa di creativo e inaspettato (nel corse delle nostre sperimentazioni lo stesso spazio lo abbiamo utilizzato anche per riportate qualsiasi cosa, persino mini-poesie).
Circolarità: utilizzare il più possibile «catene»
Simmetria e circolarità dei turni di parola sono un elemento importante in qualsiasi gruppo esperienziale. In videochat divengono ancora più importanti. Nel setting a distanza, in cui non è facile auto-organizzarsi nei turni degli interventi, in cui il rischio è che chi è più reticente al contrario si auto-escluda, è fondamentale valorizzare la presenza di ognuno accompagnando la presa di parola. Il consiglio è utilizzare il più possibile le «catene», ovvero interventi regolati dal passaparola, per riconoscersi, dare voce a tutti, incontrarsi virtualmente senza esclusioni (ovviamente nella libertà di non intervenire per chi consapevolmente preferisce non farlo).
Ritmo e consegne a risposta rapida
In videochat i tempi (e l’attenzione) sono in genere più limitati che in presenza, questo rende importante l’utilizzo di specifici accorgimenti per rendere più «leggera» e ritmata la conduzione, anche regolando gli interventi. Può a questo scopo essere utile ricorrere a consegne a risposta rapida che, se stiamo lavorando su condivisioni riflessive, allo stesso tempo facilitino «ricognizioni introspettive». Un suggerimento può essere quello di utilizzare stimoli «steli di frase» come: – la metafora: “un colore/un tempo atmosferico che indichi come sei qui oggi…“, – brevi elenchi: “tre parole (solo tre) per dire qualcosa di te oggi“.
Limitare gli interventi verbosi Sempre a scopo di tutelare spazio per tutti, un compito importante ma sicuramente ingrato, è quello di, con cordialità e fermezza, limitare gli interventi più verbosi (eventualità più frequente con gruppi di adulti che di ragazzi…).
Le sociometrie on line
Le sociometrie, introdotte da Jacob Levi Moreno, sono uno strumento molto funzionale per consentire ai gruppi di esprimersi in modo simmetrico (a tutti lo stesso spazio per pronunciarsi) su un dato argomento. In videochat – in linea con quanto detto fino ad ora – possono risultare molto utili, sebbene siano necessari adattamenti che funzionino on line.
La modalità che preferisco in videochat è utilizzare semplicemente le mani. Esempi di consegna possono essere: – mostrate con le mani un numero da zero a dieci a seconda di quanto siete a vostro agio nei seminari in videoconferenza – mostrate con le mani un numero da zero a dieci a seconda di quanto questa notte avete dormito bene Tutti possono così esprimersi contemporaneamente, e attraverso il colpo d’occhio ognuno può farsi un’idea dei pensieri, dei vissuti, del posizionamento degli altri rispetto al tema in oggetto. In seguito il conduttore se desidera può fare qualche domanda di approfondimento a qualcuno dei partecipanti, magari quelli che hanno dato i punteggi più «estremi». Si tratta di una soluzione tecnica che personalmente ho utilizzato molto, è un modo per dialogare, prendere posizione e ascoltarsi che si presta bene ai tempi della formazione in videochat.
Portare elementi di fisicità e spazialità
In videochat i corpi sono «smaterializzati», questo non vuol dire che non ci sia fisicità e spazialità. Può essere utile, per creare un setting caldo in videochat, provare a «ri-materializzare» e «rispazializzare» il più possibile la relazione.
Una possibilità molto semplice, ma efficace, può essere quella di coinvolgere nel lavoro elementi materiali presenti nello spazio fisico che i partecipanti occupano. Si può chiedere ad esempio di narrare qualcosa di sé a partire da un oggetto presente nello spazio in cui ci si trova. Si tratta di un modo discreto per «introdurre» gli altri nella dimensione fisica che si sta occupando, anche nell’intimità della propria casa.
Un’altra opzione, in cui si gioca invece con la dimensione spaziale determinata dal monitor, può essere quella di proporre un «giro di tavolo» in cui ognuno è tenuto a passare parola solo a chi occupa un riquadro in videochat confinante con il proprio. In questo modo è possibile condividere e confrontare la spazialità generata (per ognuno diversa) dal software, che regola il nostro sguardo sul gruppo e la nostra percezione «fisica» dello stesso.
Amplificare l’espressività dei partecipanti
In videochat i segnali non verbali si assottigliano. Per compensare questa mancanza un compito importante a cui può provvedere il formatore è quello di amplificare l’espressività dei partecipanti al gruppo. Per fare questo si possono «esagerare» i segni di presenza e ascolto: il conduttore può esprimere con la voce e con il corpo che sta ascoltando con attenzione, oppure ripetere in modo più espressivo quello le parole dei partecipanti, sollecitando interazioni invitando i singoli a intervenire/rispondere.
Utilizzare applicazioni d’appoggio per attività collaborative
Per il lavoro collaborativo può essere importante utilizzare in parallelo alla videochat altre piattaforme di appoggio leggere e funzionali. Le mie preferite sono i pad (istanze di etherpad.org come il già citato framapad e tanti altri) oppure, lato software proprietario, padlet (specialmente per file multimediali). Nelle nostre formazioni in videochat li utilizziamo per raccogliere traccia delle condivisioni, produrre testi e poesie collettive e digital storytelling.
Utilizzare la musica in videochat
Non appena mi è possibile, mi piace aggiungere una “colonna sonora” ai miei incontri di formazione in videochat. La musica può dare colore e calore ai momenti più vuoti, alle attese, al tempo dato ai partecipanti per eseguire un compito “sconnessi”. La musica unisce, riscalda; non di rado mi è capitato di assistere alla partenza spontanea di accenni di movimenti a ritmo che in poco tempo diventavano contagiosi, a rimarcare la partecipazione mente-corpo a un’esperienza comune.
Tecnicamente, dopo varie sperimentazioni, sono giunto alla conclusione che da un punto di vista pratico il metodo migliore è avvicinare semplicemente una cassa al microfono; l’alternativa più «raffinata», quella di mixare internamente al computer la fonte sonora musicale e quella proveniente dal microfono, è possibile ma molto complessa e non sempre i risultati sono soddisfacenti.
Gestualità condivise per comunicare in gruppo
Ci sono gruppi che per mantenere più conviviali e fisici i loro incontri in videochat hanno introdotto l’utilizzo di gesti non verbali, da affiancare alla parola. In questo modo l’inizio o la chiusura dell’incontro, oppure espressioni come “sono d’accordo!”, “non sono d’accordo!”, “voglio parlare”, “ti abbraccio” sono comunicati attraverso gesti convenzionali, un codice sviluppato dal gruppo. Per questa comunicazione non verbale si possono utilizzare le mani, le braccia e altre parti del corpo riprese dalla telecamera.
Il formatore può incoraggiare il fatto che questi gesti divengano tradizione del gruppo, includendone altri se nascono spontaneamente o se ne si sente l’esigenza.
Se si vuole amplificare la dimensione corporea rispetto a quella macchinica si può decidere di utilizzare il meno possibile (o non utilizzare) emoticons e altre features della piattaforma.
Creare qualcosa di esteticamente bello insieme
Può essere funzionale, se la conformazione del gruppo lo permette, portare i corpi al centro della scena per creare qualcosa di bello che unisca, utilizzando attivazioni tipiche del lavoro teatrale in presenza. Ad esempio: ognuno esprime come sta con un gesto, gli altri ripetono, si propongono esercizi corporei da fare insieme, sincronizzati: dallo stretching a far finta di “lavare i vetri”. Oppure si può proporre il gioco dello specchio dividendo i partecipanti a coppie e chiedendo di ripetere in camera i gesti del compagno. Sui social network durante il periodo del lockdown si sono trovati tanti esempi di questi esperimenti. Come sa chi ha sperimentato queste attivazioni, si tratta di piccoli “attimi di bellezza”: la resa estetica, il divertimento nella creazione di queste “coreografie” porta a vivere momenti di benessere che uniscono il gruppo, fanno sentire parte di una stessa comunità, anche se a distanza.
Escludere la nostra immagine dal monitor
Ci sono studi che sottolineano come uno dei motivi per cui la videochat risulta particolarmente stancante è il continuo confrontarci con la nostra immagine «specchiata» nel monitor. Siamo portati a controllare in continuazione come appariamo agli altri, anche inconsciamente, anche se decidiamo di impegnarci a non farlo. Un modo per allentare questa fatica è escludere il nostro «riquadro» da quelli sul nostro monitor, un’opzione possibile nella maggior parte di software di vedochat.
A me capita spesso di farlo; agli adolescenti invece, pur parlandogliene, so che difficilmente mi seguiranno, nella consapevolezza del fatto che il controllo della loro immagine sia per loro qualcosa per loro di molto importante, sebbene spesso fonte di sofferenza. A volte però qualcuno può decidere di provarci, e vivere un’esperienza diversa, sperimentare il rischio di una strana libertà.
Inventare adattamenti di strumenti che utilizziamo in presenza
Un suggerimento per mantenere il più possibile un setting “caldo” è di sperimentare quando possibile in videochat strumenti e tecniche che utilizziamo in presenza, anche se necessiteranno di adattamenti creativi. Ne abbiamo visto un esempio parlando di sociometrie. Non abbandonare quindi il nostro patrimonio di conoscenze di lavoro di gruppo in presenza ma dedicare tempo e immaginazione per adattarlo alla nuova situazione senza farci troppo condizionare dai “richiami” del software che spinge a un utilizzo standardizzato. Se si ci si pone in modo creativo possono succedere cose molto interessanti: ricordiamoci che anche on line si può chiedere di disegnare su carta, di chiudere gli occhi, di scolpire con il nostro corpo un’emozione. A volte bastano piccoli espedienti per adattare un lavoro in presenza nel suo corrispettivo funzionale all’on line.
Stabilire specifiche regole “di protezione” in videochat:
La videochat espone l’ immagine e la presenza personale in una modalità che può generare disagio, anche molto forte, è il caso ad esempio di molti adolescenti. All’Anno unico abbiamo deciso di porre regole a priori che potessero tutelare su questo fronte. Abbiamo così comunicato ai ragazzi che ognuno poteva scegliere se intervenire ai nostri incontri digitali:
1- con immagine e voce,
2- solo a voce tenendo spenta la telecamera,
3- tenendo spenta telecamera e microfono utilizzando solo la chat,
4- non utilizzando nemmeno la chat ma solamente come ascoltatori passivi (per quanto un ascoltatore non sia mai passivo…).
Si tratta di una scelta piuttosto in controtendenza, se pensiamo che, privilegiando la logica del controllo rispetto al benessere on line, moltissime scuola impongono ai propri alunni di mostrarsi in webcam.
Non è sempre funzionale utilizzare la chat di testo
Se come si è appena visto, in molti casi la chat di testo è utile, perchè permette di comunicare a chi è più restio a farlo attraverso altri canali che espongono maggiormente, in altre situazioni diviene un sovrabbondante strumento che aumenta il rumore e la dispersione dell’attenzione senza portare un significativo apporto comunicativo.
Ci sono gruppi, come gli attivisti per l’ambiente che sperimentano le pratiche di “work that reconnect” che, cercando di creare anche negli incontri on line momenti di forte connessione tra le persone e delle persone con se stesse (e con il pianeta), nelle proprie sessioni escludono categoricamente l’utilizzo della chat testuale nei loro incontri.
Sostenere la creazione di spazi protetti da cui connettersi
Uno dei problemi più grandi nel lavoro in videochat è l’interferenza dell’ambiente fisico in cui i partecipanti si trovano nell’incontro: può essere fonte di disturbo per via di rumori di fondo che entrano nel microfono, ma anche imbarazzo, limitazione al comunicare in libertà. Si possono suggerire al gruppo modalità per rendere più confortevole e protetta la propria postazione fisica e virtuale da cui si partecipa.
Possiamo accompagnare i partecipanti nella scelta di uno spazio il più possibile appartato; durante il periodo di lockdown abbiamo sperimentato che non c’è limite alla fantasia: abbiamo visto adolescenti dell’Anno Unico chiusi in bagno per connettersi, oppure nell’automobile parcheggiata in garage, dichiarato “l’unico posto davvero tranquillo”.
Un aspetto che può mettere a disagio, oltre la presenza di persone che “invadono la privacy” è il fatto che con la videochat gli altri componenti del gruppo “entrano in casa nostra”. Possiamo non aver voglia che si vedano i nostri ambienti domestici, per riservatezza o semplicemente perché preferiamo separare, almeno simbolicamente, lo spazio della casa da quello degli incontri pubblici. Possiamo suggerire di allestire, con teli e qualsiasi altro materiale, un postazione ad hoc, un sorta di “micro studio televisivo” in casa; oppure possiamo imparare, per le piattaforme che lo consentono, a modificare digitalmente lo sfondo alle nostre spalle, o ancora utilizzare applicazioni specifiche che creano graficamente un ambiente virtuale diverso da quello in cui siamo immersi (a volte anche modificare la nostra immagine). Questi artifici tecnici, anche se a volte sono prodotti da società su cui abbiamo più di qualche perplessità e spesso funzionano bene solo su dispositivi e reti di alto livello, possono coadiuvare nell’invenzione di situazioni di gioco e di apprendimento molto interessanti.
questo articolo è un estratto dal libro formare a distanza scritto con il gruppo di ricerca C.I.R.C.E. Qui (come in giro su questo blog) si trovano altri estratti.
Uno studio radio-televisivo fai-da-te per la formazione a distanza. A ognuno il suo, a sua misura. Questo è il mio…
Da quando ho creato la mia postazione fai-da-te per il mio lavoro in FAD (sia per condurre gruppi di adolescenti che di adulti) è cambiato qualcosa. Passare da portarsi il computer in un posto tranquillo qualsiasi della casa a prendere posizione nel proprio «studio radio-televisivo diy» può sembrare un cambiamento di poco conto, ma per me è significato un salto di qualità importante nelle conduzioni a distanza. Mi ha un po’ riappacificato con una dimensione che comunque soffro, mancandomi le possibilità didattiche del lavoro in presenza e l’intensità dell’incontro con i partecipanti. Ha contribuito a riaprire una dimensione di gioco e sperimentazione di cui avevo bisogno.
Uno spazio-soglia
Attraverso la FAD si entra nella casa degli altri, e gli altri entrano in casa tua. E’ uno degli aspetti che mi ha sempre messo a disagio, e sicuramente ha messo a disagio gli adolescenti con cui lavoro. Il problema non è necessariamente che abbiamo qualcosa da nascondere, ma la casa per ognuno resta uno spazio di intimità, si entra se invitati: in genere non si accolgono gli utenti del proprio lavoro a casa propria. Creare allora uno spazio-soglia, che rimanga all’interno della propria abitazione ma sia allestito ad hoc per la vista dall’esterno, può essere una soluzione utile. Uno spazio dotato anche di espedienti tecnici per rendere le nostre “trasmissioni” il più possibile esperienze piacevoli (sebbene si possa realizzare anche a scuola, o in qualunque altro spazio disponibile)
Anzitutto la scenografia
La prima cosa per allestire uno studio fai-da-te è provvedere alla scenografia, “lo sfondo” in cui la nostra immagine sarà incorniciata. Una scenografia teatrale, “finta” come ogni scenografia, ma forse proprio per questo ancora più in grado di accogliere e proteggere parole e relazioni che sono autentiche, un cancello “spazio-temporale” appositamente progettato per l’incontro.
Io ho creato la scenografia che tengo alle mie spalle utilizzando un copriletto indiano, a fondo blu con fantasie “psichedeliche”, appeso all’armadio con mollette e scotch di carta (che regolarmente ogni tanto cedono). A questo sfondo aggiungo qualche oggetto, che di volta in volta cambia: il mio preferito è una grande spada da guerriero fantasy che ho costruito durante un laboratorio di falegnameria con i ragazzi diversi anni fa: crea curiosità, bilancia in modo giocoso il drappo un pò troppo da santone, e mi ricorda i momenti sereni in cui con i ragazzi in cascina abbiamo costruito le nostre armi.
Sempre in un’ottica teatrale ho aggiunto al set un faro RGB a led, che può cambiare il colore della luce che emana, lo avevo recuperato per il lavoro in presenza con i ragazzi; in mancanza d’altro continua a fare il suo servizio. Non lo uso sempre perché nelle dirette lunghe diventa impegnativo per gli occhi, ma contribuisce non poco a quell’effetto di “spazio altro” e di magia che cerco (la luce che preferisco è quella rossa).
Il microfono
Per il mio studio d.i.y. ho acquistato un microfono di discreta qualità (l’unica spesa fatta ad hoc), non una spesa esagerata ma sufficiente per far sentire chiara la mia voce, canale di comunicazione “caldo” per eccellenza nell’universo universo digitale di bits e di dots. Un altro vantaggio che porta avere un buon microfono è che posso anche allontanarmi dalla postazione, camminare per la stanza magari, in particolare quando sono in «modalità radiofonica» e le mie parole si sentono ancora bene. Non essere costretti nella stessa posizione è un valore aggiunto non da poco per un’attività statica e “blindata” come la formazione a distanza.
Due telecamere?
Nella stessa ottica di permettermi il movimento, mettendo in atto un’idea dell’amico Panos (che in realtà ha ispirato tutta questa «operazione studio fai-da-te» che sto raccontando) mi è capitato di utilizzare anche due telecamere, sempre con approccio iper-fai-da-te, aggiungendo quella del cellulare alla webcam del computer: appoggio lo smartphone su una mensola ad un pò di distanza in modo che riesca a produrre una sorta di ripresa panoramica; e così nel mio studio si guadagna in fatto di possibilità di movimento e tridimensionalità.
Anche un launchpad?
La musica e in generale i commenti sonori sono importanti nelle mie formazioni a distanza. Mi piace utilizzare frammenti di canzoni ed effetti di vario genere (esplosioni di bombe, sirene da sound system reggae, spari di pistole laser…) per sottolineare momenti particolari durante le sessioni di lavoro educativo. Sebbene si possa sfruttare tranquillamente un qualsiasi lettore di musica digitale, data la mia passione gli aggeggi tecnologici per giocare con la musica, ho riadattato all’evenienza un launchpad, in modo da «lanciare» i commenti sonori con più comodità e creatività. E’ stato un pò ritornare ai tempi (15 anni fa!) della web radio «clandestina» che gestivamo con amici, Radiowatta.
Personalizzare, creare con poco, ri-incantare
Ovviamente non ho raccontato tutto ciò auspicando che insegnanti o educatori seguano le stesse modalità. Le soluzioni che ho descritto sono molto personali, talvolta anche un modo mio per divertirmi un pò (lungi da me pensare che senza un launchpad non si possa fare creative formazioni on line…) Sono forse le parole personalizzazione e creatività i concetti chiave: allestire uno spazio di confort e di gioco su misura per chi lo deve abitare e utilizzare come postazione di lavoro. Ognuno può mettere in campo le risorse che preferisce e che ha a disposizione: i propri oggetti preferiti, spazi, teli, cianfrusaglie più o meno tecnologiche.
È una dimensione di gioco che per coinvolgere i ragazzi deve coinvolgere e divertire prima di tutto noi, si tratta di un approccio D.I.Y. (Do It Yourself) un po’ punk e un po’ hacker: con poco, ri-inventando l’uso di strumenti e materiali già a disposizione, può nascere qualcosa di nuovo e di divertente che permette di resistere e costruire relazione (e portare un po’ di magia) in questi tempi inquieti.
questo articolo è un estratto dal libro formare a distanza scritto con il gruppo di ricerca C.I.R.C.E. Qui (come in giro su questo blog) si trovano altri estratti.
Il tentativo di riassumere cosa abbiamo imparato in questi due lunghi anni, per aprire riflessioni più ampie sul nostro rapporto con la tecnologia, in contesti educativi e non solo
L’inglese organic si traduce con l’italiano bio, ma il termine mantiene la radice organica, che rinvia all’organismo. Nella formazione a distanza siamo immersi in ambienti complessi che vorremmo spingere in una direzione più bio-organica. Abitare gli spazi digitali in maniera critica, libera, ecologica è una sfida dei nostri tempi.
Nel complesso riteniamo fondamentale limitare le interazioni automatiche e automatizzate con le macchine, per ampliare i margini di interazione non automatizzata. Non si tratta di contrapporre esseri umani e macchine ma di scegliere come costruire relazioni conviviali attraverso la messa a punto di pratiche e tecnologie appropriate. È quello che cerchiamo di fare con le attività di pedagogia hacker.
Di seguito riportiamo alcuni dei suggerimenti che sono emersi nelle pagine del libro Formare a Distanza, riportate con i diversi link per chi volesse approfondire le diverse questioni.
De-sacralizzare la tecnologia, dialogarci, usarla e non esserne usati
Diffidare della tecnica “risolvitutto”
Le tecnologie industriali di massa arrivano fra noi con un portato ideologico forte, anche se quasi mai esplicito. Il presupposto dell’ideologia tecnologica è semplice: ogni situazione è un problema da risolvere mediante una soluzione tecnica. Le piattaforme per l’insegnamento a distanza, ma anche le semplici videochat, condividono questo postulato.
Secondo questo paradigma educatori, insegnanti, formatori nelle condizioni di dover lavorare a distanza devono “semplicemente” imparare a utilizzare le app giuste, e ovviamente a usarle bene. Automaticamente, quasi per magia, questo «semplice» utilizzo degli strumenti «giusti» risolverà il problema… della distanza, della didattica, della formazione e così via. Automagicamente!
Invece di abbandonarci alla procedura corretta, noi pensiamo invece che cercare di abitare il disagio, anche il disagio della distanza, facendo appello alle nostre risorse creative per conciliare le istanze pedagogiche per noi imprescindibili con un utilizzo consapevole degli strumenti tecnologici.
Rimanere connessi con le istanze pedagogiche per noi irrinunciabili, poi scegliere l’applicazione più appropriata
Il primo suggerimento – parrà banale ma abbiamo osservato non è per nulla scontato neanche nel mondo della scuola e dell’educazione – e che prima di accogliere acriticamente il default dell’applicazione che i colleghi ci hanno detto essere «comodissimo», o che «qui usano tutti» è bene fermarsi e problematizzare le possibilità. E’ fondamentale anzitutto ri-connetterci con la situazione di apprendimento che dobbiamo affrontare, i bisogni dei nostri ragazzi, i nostri valori pedagogici. Le questioni da porsi devono essere: che tipo di relazione vogliamo mantenere con i ragazzi? Che tipo di ambiente di apprendimento vogliamo creare? Ci interessa un modello di didattica cooperativo o competitivo? Quanto è importante per noi la dimensione riflessiva? Quella esperienziale? Il nostro approccio si basa prevalentemente sulla dimensione cognitiva o anche su quella emotiva e immaginativa? A seconda della risposta che daremo a queste domande orienteremo in modo diverso il nostro utilizzo di strumenti tecnologici, la loro scelta e la modalità di utilizzo. Il rischio è che se invece partiamo dallo strumento e dalle sue regole: quello «che mi hanno detto funziona con i ragazzi» o «che mi ha proposto il mio collega smanettone”, sia poi lui a dettare la piega che prenderà il mio lavoro. Ricordiamoci che, in termini pedagogici, l’applicazione digitale non è strumento neutro, ma un elemento importante nella determinazione il setting. Vale nella DAD ma anche nell’utilizzo di qualsiasi tecnologia. Porsi in questo modo all’inizio non sarà facile, dovremo imparare la fatica di «stare con il problema» come ci suggerisce Donna Haraway, vivremo un momento di «crisi» , ma una crisi che può essere generativa, che ci aiuterà a non snaturare ciò che è importante nel nostro lavoro. Noi la chiamiamo attitudine hacker perchè si tratta di porsi nei confronti della tecnologia in modo critico e creativo, desacralizzante anche, per usarla e non esserne (anche inconsapevolmente) usati.
Un approccio del genere può tornare prezioso anche come occasione di riflessione sul nostro lavoro, perché, per re-inventarlo nella modalità on-line, o in generale nel digitale, siamo costretti a ricercarne il cuore, a riscoprire e ri-aggrapparci all’essenziale che muove il nostro agire. Solo in questo modo a nostro avviso potranno succedere cose interessanti; potrà nascere qualcosa di importante perché sarà qualcosa che solo noi, nel nostro contesto situato, potremo contribuire a sviluppare. E’ una questione, ci insegnano gli hacker, di provare e riprovare, sperimentare, sbagliare, “imparare a disimparare”, e riscoprire il piacere che tutto ciò può lentamente può prendere forma.
Stiamo attenti al setting generato dalle applicazioni, alla “spinta gentile” (nudging)
Le apparecchiature tecniche (macchine, software, piattaforme ecc.) non sono neutre, portatrici di un altrove fuori dal tempo e dallo spazio valido per tutti, sempre e comunque. Tutto l’opposto: creano un setting, sono portatrici di approcci epistemologici e pedagogici!
Nel momento in cui ci affidiamo in modo acritico all’applicazione, la piattaforma-macchina, in modo “gentile” e magari per noi inconsapevole, ci conduce nella sua direzione, crea un proprio setting, una situazione con regole e caratteristiche specifiche che potrebbe essere ben diversa da quella che riteniamo pedagogicamente valida.
Succede così che insegnanti in aula poco inclini alla valutazione rigida siano guidati da Google Classroom a valutare attraverso verifiche a risposta chiusa, quiz in cui la componente riflessiva viene sacrificata a favore di quella cognitiva, mnemonica, prestazionale. Allo stesso modo educatori che hanno molta attenzione per la dimensione conviviale e cooperativa, spinti dall’urgenza di trovare «animazioni on line pronte all’uso» hanno privilegiato nella loro attività a contest, challenge, produzione di «simpatici meme» che potessero funzionare bene con il gioco dei like dei socialnetwork, privilegiando ambienti educativi digitali lontani dai propri intenti originari. Non si tratta a priori di squalificare questa o quella applicazione, si tratta di utilizzare con consapevolezza.
In questo senso accade spesso che più impariamo ad «usare bene i software» e più ci uniformiamo alla loro «spinta gentile». È una forma di conformismo, o meglio di mutuo condizionamento fra umani e macchine.
È allora fondamentale essere consapevoli della direzione in cui ci induce il “piano inclinato” della piattaforma, il suo «demone» come in C.I.R.C.E. ci piace definirlo, che ha caratteristiche specifiche, interagisce con le nostre debolezze, inostri punti di forza e il nostro carattere. Più conosciamo noi stessi e la tecnologia più saremo in grado di attivare le dovute contromisure.
I formatori creativi non rinnegano le loro competenze nel digitale, ma le riadattano con un approccio originale e “do it yourself”
Per riuscire in questa sfida è importante ricordarci che molto della nostra esperienza e delle competenze che abbiamo sviluppato possono essere utili, interessanti, divertenti anche nel digitale. Obbligati alla formazione a distanza non è il caso di accantonare queste risorse, come se fossimo in un’altra dimensione, fuori da noi stessi. Come formatori appassionati non possiamo che ripartire da quello che, per la nostra esperienza, riteniamo essenziale nel rapporto educativo/formativo e dalla nostra creatività.
Dialogare e, perché no, scontrarsi e litigare con le macchine è un presupposto chiave per raggiungere che riteniamo importante che, vale la pena ricordarlo, non è portare a casa un’attività stilosa, ma la crescita e l’apprendimento significativo del ragazzo.
È fondamentale provare ri-inventare il proprio lavoro senza intestardirsi nel conservare la forma e non la sostanza. Durante i mesi di emergenza del primo lockdown abbiamo visto riportate on line situazioni didattiche impensabili prima: immaginazioni guidate, esercizi teatrali, coreografie di danza, laboratori di cucina. Nessuno vuole negare ciò che, costretti, si va a perdere, ma queste sperimentazioni hanno generato un know how in continua crescita, sicuramente utile anche quando il lavoro a distanza non sarà più imposto ma potrà rientrare nel novero delle scelte in situazioni particolari in cui altre vie non sono percorribili.
Ri-connettersi con i ragazzi
E’ scontato ripetere che la relazione, tra pari e con l’adulto, è fondamentale nel processo di crescita e di apprendimento, e nei periodi di distanza forzata ciò emerge in modo ancora più esplicito. Non sembra però altrettanto immediata la consapevolezza che curare la relazione anche nella dimensione a distanza (o in quella mista, blanded) è allora ciò da cui non si può prescindere, e che ciò va perseguito sfruttando tutti gli spazi percorribili (by any means necessary, diceva qualcuno).
Dedicare tempo ed energie nei momenti in presenza per costruire fiducia con i formatori e tra i componenti del gruppo
I gruppi che hanno funzionato meglio a distanza durante il lockdown potevano basarsi su solide relazioni costruite in presenza. Il primo suggerimento su questo fronte può allora essere messo in atto fuori dal digitale: quando un percorso è progettato in modalità mista, oppure quando rischia di subire lunghi periodi solo on line per cause di forza maggiore, è essenziale sfruttare qualsiasi momento di incontro fisico per curare la costruzione di fiducia, affiatamento, conoscenza reciproca, relazione autentica e significativa tra i componenti del gruppo e con il formatore. Ci sono tante modalità e specifiche attivazioni che ci possono aiutare a questo scopo. E’ importante avere la consapevolezza che non si tratta di perdita di tempo, anche rispetto all’apprendimento degli specifici contenuti, è un investimento che rivelerà tutta la sua forza generativa. Una consapevolezza questa che se da una parte è già patrimonio dei servizi educativi, lo è molto meno nella scuola in cui, in quest’ultimo anno «a singhiozzo», si sarebbe probabilmente potuto sfruttare molto di più i momenti di presenza a questo scopo, piuttosto che, come è spesso accaduto, caricarli solo di contenuti nell’ansia di «recuperare il programma».
una consapevolezza che vale anche per il futuro
Questo suggerimento può rivelarsi utile in futuro per chi lavora con gruppi che annoverano componenti soliti a lunghi periodi di assenza, come i ragazzi a rischio di ritiro sociale. Curare in modo particolare la costruzione della relazione con loro nei momenti di presenza potrà andare a sostenere la continuità della relazione e del lavoro formativo in quelli in cui la «crisi» si fa più acuta, in cui l’adolescente non riuscirà a frequentare la scuola o il servizio e si è costretti ad attivare un lavoro formativo a distanza.
La cura del legame sociale è tipica delle comunità resilienti; è una forma di mutuo appoggio, a ben vedere: nel momento in cui accade l’inaspettato, la “catastrofe”… la collaborazione sperimentata e la vicinanza esistente tra le persone diventa la prima leva per affrontare la situazione di crisi.
Per lavorare invece sulla relazione a distanza ci sono poi una serie di elementi da tenere presente, ne proviamo ad elencare alcune nei paragrafi che seguono
La cura della conduzione in videochat
La videochat è un contesto in cui non è immediato creare un clima di vicinanza e convivialità, importante per l’apprendimento significativo. E’ fondamentale allora curare con specifici accorgimenti metodologici e tecnici la conduzione per rendere questa esperienza il più possibile generativa. Il nostro suggerimento è riportare in videochat specifiche tecniche che sostengano la creazione di relazioni intersoggettive, a partire dal sostenere dinamiche di orizzontalità e simmetria. Strumenti quali le «catene» e le sociometrie possono essere un buon punto di partenza, come è stato approfondito qui.
E’ stato inoltre sperimentato che permettere al ragazzo di scegliere, all’interno della stessa videochat, la modalità di presenza e comunicativa a lui più congeniale lo porti a sentirsi maggiormente a suo agio e disponibile all’apprendimento. L’idea è premettere a priori la possibilità di utilizzare la videochat nell’opzione audio-video oppure solo audio, oppure di comunicare solo la chat di testo. Si tratta di un approccio che forse per molti può apparire controintuitivo, tanto che spesso nelle scuole si è ricorsi all’obbligo di mostrarsi in webcam, una soluzione che ha messo a disagio un alto numero di adolescenti, contribuendo in diversi casi a fenomeni di dispersione e ghosting. Il discorso va a toccare diversi temi di riflessione, primo fra tutti l’aspetto problematico e ansiogeno che gli adolescenti, e in particolare quelli cresciuti in tempi più recenti, hanno con la gestione con la propria immagine e la sua riproduzione mediata. Permettergli di «rifugiarsi» allo sguardo dell’altro diviene per loro un’opzione molto importante per abitare con serenità nel contesto di apprendimento.
Nelle situazioni di gruppo in presenza c’è sempre la possibilità di comunicare individualmente tra le persone, e le occasioni per il formatore di relazionarsi individualmente con l’allievo non mancano: ci sono i momenti destrutturati come gli intervalli in cui ci si può incontrare e scambiare qualche parola, ma c’è anche la possibilità di incrociare sguardi in aula, indirizzarsi messaggi più o meno verbali durante l’attività, anche in mezzo a tante persone. Nelle interazioni digitali tutto questo diviene molto più difficile se non impossibile. Ecco allora un paio di semplici possibilità che possono rivelarsi utili per mantenere, in parallelo alla videochat, una relazione individuale con i ragazzi:
affiancare a momenti di videochat in gruppo incontri individuali a distanza a cadenza regolare: un lavoro faticoso ma che, come viene raccontato qui, si è rivelato di fondamentale importanza per chi lo ha sperimentato, in particolare nel lavoro con i ragazzi a maggiore rischio dispersione. Può essere un altro momento in videochat 1 a 1, anche se la situazione più funzionale in molti casi si riveli l’ «antica» telefonata.
inviare messaggi individuali periodici con contenuti molto personalizzati. Possono essere restituzioni riguardo attività scolastiche o animative oppure semplicemente messaggi con il solo fine di creare un contatto, il cui significato sotteso è «ci tengo a te in quanto te». Spesso non è neanche necessario che abbiano una risposta, altre aprono degli scambi molto importanti, per costruire relazione, per far emergere problemi.
Attraverso la relazione individuale con i ragazzi mantenuta a distanza è possibile inoltre raccogliere elementi sull’esperienza che i singoli ragazzi stanno vivendo nei propri contesti, elementi che risultano molto utili anche per il lavoro nell’aula virtuale: se il conduttore conosce gli stati d’animo e i vissuti individuali dei ragazzi può trovare il modo per relazionarsi a loro nel gruppo nel modo più appropriato, e potrà, se lo ritiene opportuno e con il permesso dei singoli, portare al gruppo con sensibilità e delicatezza alcuni temi individuali.
Trovare modalità inconsuete per far sentire che siamo vicini ai ragazzi
Inviare messaggi o fare colloqui individuali è quindi un modo per far sentire la nostra vicinanza ai ragazzi, al di là del mandato formale dell’apprendimento in una specifica disciplina. Un ulteriore modo per rafforzare questo messaggio è elargire piccoli «regali» non dovuti. Ad esempio all’Anno Unico (si veda qui) gli adolescenti hanno molto apprezzato la cura con cui il materiale che loro producevano a casa veniva valorizzato, impaginato, trasformato, remixato dai formatori senza che rientrasse nei loro “doveri formativi”. Questo ha contribuito a creare maggiore affiatamento e connessione anche a distanza. Anche quando come ora non si è obbligati ad una prolungata distanza forzata, ma si condivide una situazione di disagio, il regalo, l’eccedenza possono essere un elemento prezioso per creare legami e un clima di supporto reciproco, al di là dei ruoli.
Mettere al centro la persona che apprende. Quali necessità ha? Si apprende a distanza solo se si è fortemente motivati a farlo
Sul fronte dei contenuti, apprendere a distanza richiede grande motivazione; esserci nel digitale è faticoso, i discenti ci sono se sentono che ne vale la pena.
Può essere allora utile selezionare le attività da proporre in line a partire da quelle che possano rispondere alle loro urgenze, desideri, che li aiutino a costruire un senso rispetto al vissuto personale, che non siano percepite solo come un tentativo di «riempirgli il tempo», oppure di reiterare in modo meccanico e asettico modalità e contenuti molto distanti da loro.
La questione può essere riassunta così: “Siamo lontani, ma se sentiamo che ci sono valide ragioni per esserci (al di là del voto), noi ragazzi ci siamo“
Limitiamo la presenza in ambienti digitali. È anche una questione di ecologia: ambientale, mentale, relazionale
Un cosa certa è che il ritmo della macchina non è il ritmo dell’umano. Perciò dobbiamo imparare a stare con cautela nello spazio della macchina, in particolare se gestito da piattaforme di massa. I corpi umani soffrono le velocità di sollecitazione del digitale di massa, la quantità di stimoli compressa e incessante. In un’epoca in cui siamo sempre connessi, in particolare gli adolescenti, è molto importante riuscire a valorizzare nel lavoro educativo a distanza anche i momenti di «disconnessione», di allontanamento dagli schermi.
Ecco due piccoli hack possibili per contenere i tempi di video, rivolti in particolare alla formazione con adolescenti ma applicabili in maniera più generale.
Innanzitutto, è sano fare videochat brevi. Un’idea può essere fare un breve momento in diretta, dare una consegna, un compito, e poi disconnettersi per riconnettersi più tardi per un momento di restituzione. Questo aiuta anche a dare un “ritmo” al tempo dei ragazzi senza “stordirli” eccessivamente.
Ancora, è possibile, durante una sessione di videochat, proporre momenti in cui ognuno si allontana dal monitor per ascoltare solo la voce di chi sta parlando, oppure per fare brevi attività unplugged, di fatto disconnessi anche se con la connessione attiva.
Rarefare i momenti on line è anche utile per ridurre il digital divide: chi non ha dispositivi adeguati e connessioni veloci avvertirà maggior fatica nel corso di attività online prolungate. Ancora una volta il mondo connesso tende ad amplificare le diseguaglianze preesistenti nel mondo disconnesso.
Attenzione! Passare meno tempo collegati on line non vuol dire che le menti, corpi, «anime» siano meno connesse. Fondamentale è la qualità della relazione, non la quantità dei minuti-monitor! Altrimenti passa ancora l’idea del setting che quantifica, che ci comunica automaticamente quanto tempo siamo stati connessi come se il tanto fosse una garanzia di riuscita.
Valorizzare l’interazione asincrona.
È utile ridurre i momenti in chat e invece valorizzare i momenti di interazione asincrona. Nella formazione tradizionale si riducono a essere “i compiti a casa” ma, ispirandoci all’approccio delle flipped classroom, possiamo valorizzare il momento di incontro individuale con stimoli di apprendimento, che in seguito viene socializzato e rielaborato in gruppo e con il formatore (il momento di interazione sincrona). Privilegiare questa direzione significa sfruttare il vincolo della distanza per sostenere l’autonomia degli studenti e invitarli allo sforzo di confrontarsi direttamente con i temi di apprendimento, evitando la postura passiva che spesso è generata dalla lezione frontale.
L’importanza di abbassare il rumore
Limitiamo al massimo le notifiche. Ad ogni file, messaggio, contributo che inviamo nel digitale corrisponde una notifica: cerchiamo di essere responsabili del numero minore possibile. Le notifiche sono quasi letteralmente “spilli”, che pungono la pelle, stimolano il cervello e mantengono uno stato di tensione continua, una sorta di attenzione che non genera profondità e intensità ma stress performativo. Nelle situazioni di stress l’apprendimento significativo è inficiato in maniera sostanziale.
Cerchiamo di utilizzare il un minor numero di canali nelle situazioni multimediale di apprendimento, allo scopo di ridurre il numero di stimoli e quindi favorire la focalizzazione dell’attenzione. Ad esempio in videochat si può decidere tutti di non utilizzare la chat testuale, o di chiudere la telecamera e quindi togliere lo stimolo del monitor generando un’atmosfera «radiofonica».
Non esistono regole generali valide per tutti e sempre, ma di certo la scrittura della chat non è meno emotivamente coinvolgente del video: anzi, se l’obiettivo è creare intimità e confidenza, la chat può svolgere un ruolo fondamentale.
Il canale “caldo” più sottovalutato: la voce
È importante ricordarsi che la voce è un medium più caldo del video. Non significa che emotivamente le immagini sono meno coinvolgenti, ma che la voce è più efficace nel momento in cui vogliamo creare intimità, confidenza (così come le immagini in bianco e nero sono più calde di quelle a colori): quando dobbiamo confidare un segreto preferiamo farlo in penombra, in un “setting notturno”. Nell’oscurità i contorni delle immagini si sfumano, si smussano i confini e questo ambiente ci protegge e ci fa sentire più vicini. Tradotto in una prospettiva di educazione a distanza, può essere importante valorizzare la radio (in diretta), il podcast (una registrazione che si ascolta in differita), ma anche semplicemente rivalutare la “vecchia” telefonata, a tu per tu, “solo” voce.
A questo proposito possedere un microfono discreto può essere importante, più della risoluzione del video. Se vogliamo fare un salto di qualità tecnica, ecco un buon investimento: microfoni adeguati, direzionali se servono per portare una singola voce, ambientali e panoramici se devono restituire più voci e suoni. Anche con un computer portatile un microfono usb esterno può fare la differenza fra una sessione disturbata e disturbante e un’esperienza più gradevole.
Relazionarsi con elasticità, e se serve trasgredire, le aspettative istituzionali
Marta Milani nel suo racconto sulla re-invenzione a distanza dei corsi di italiano L2 (Clinamen: italiano senza confino) ricorda che il fatto di essere all’esterno di un quadro istituzionale determini per loro “una situazione fortemente privilegiata”. Non possono certo dire lo stesso gli insegnanti della scuola: l’istituzione non transige al rispetto del programma, e, anche ai tempi di diretta in videochat, rimane aggrappata alle classiche modalità valutative, rigidamente programmate, quantificate.
I vincoli che attanagliano chi è costretto a fare formazione a distanza però possono però essere anche auto-imposti: non pochi formatori ed educatori si sentono responsabili della replicazione di modelli più o meno calati dall’alto tanto che faticano a fare un passo indietro rispetto a quelli, anche nelle situazioni di emergenza.
Per una formazione a distanza il più possibile funzionale, è invece spesso imprescindibile la trasgressione a questi vincoli, esterni e/o autoindotti, e prendere le distanze dal «dover fare» e re-impostare le proprie coordinate. Sono diversi i tempi di lavoro in situazione sincrona (condivisione delle stesso spazio-tempo e focus di attenzione), la condizione emotiva, la possibilità di utilizzare strumenti didattici; quindi anche gli obiettivi e le priorità devono essere diversi.
La macchina burocratica impone 5 ore al giorno di formazione in videochat ma lo ritenete una follia? Connettetevi, lasciate aperto e il log e poi inventate modalità di lavoro alternative, come riportato nei paragrafi appena precedenti.
Non vuol dire che si debba per forza «puntare in basso» rispetto i contenuti ma re-impostare sì, anche senza chiedere il permesso. Dobbiamo ripartire dall’essenziale, da quello che maggiormente puoi dare alle persone verso cui hai responsabilità educative, al di là di quanto scritto precedentemente sulla carta. Se vogliamo creare dobbiamo agire veloci, anche un po’ da clandestini svicolando tra le griglie dell’istituzione, e delle nostre rigidità.
Utilizzare il più possibile F/LOSS (Free/Libre Open Source Software)
Le piattaforme e gli strumenti digitali non sono tutti uguali. Quelli che prediligiamo sono spesso leggeri, poco esosi in termini di risorse; sono molteplici, perché tendono a far bene una cosa sola e non a proporsi come soluzione unica per qualsiasi necessità; spesso non ci chiedono nessun login e nessuna password, e quando accade sappiamo dove stiamo entrando, a casa di chi siamo quando accediamo a un determinato servizio; non raccolgono dati e metadati dalle nostre attività per profilarci e propinarci pubblicità e prodotti personalizzati.
Nel libro «Formare a distanza» ritornano spesso citati Nextcloud, Jitsi, Etherpad, ma ne esistono tanti altri. Sono F/LOSS, cioè programmi che si possono modificare per contribuire ad ampliare le libertà personali e collettivi attraverso il digitale. Di certo non sono gratis: costano tempo ed energia per imparare ad averci a che fare, talvolta denaro se non siamo capaci di gestirli da soli. Perché se il software è gratuito, la merce siamo noi, con le nostri gusti, le nostre abitudini, le nostre relazioni.
Questo è tanto più vero per le piattaforme di e-learning: come spiega Graffio (nella sezione Didattica dello stesso testo, questo il link), il metodo di insegnamento viene piegato dalle piattaforme proprietarie, proprio perché non sono strumenti neutri al nostro servizio, ma portatrici di interessi economici in primo luogo. Per non parlare del fatto che, se immagazzinano dati personali degli utenti negli Stati Uniti, non rispettano la legislazione vigente in tutta Europa in fatto di privacy (GDPR), come dichiarato dalla Corte di giustizia europea.
Una provocazione per chiudere: Formazione a distanza senza il digitale?
Chiudiamo questa “introduzione” con una provocazione: è possibile fare formazione a distanza senza il digitale?
Alcuni docenti, quando le scuole sono state chiuse a fine febbraio ma non era ancora scattato il lockdown, hanno fatto il giro delle abitazioni dei loro studenti per portagli “pacchi” con il materiale per il lavoro a distanza, o lettere per comunicare la propria vicinanza e dare qualche consiglio su come vivere quel momento difficile.
Con questa suggestione non vogliamo sicuramente sminuire il ruolo fondamentale che il digitale ha avuto e sta avendo in un periodo così difficile. Vogliamo solo ricordare che il digitale non deve annullare la nostra saggezza e creatività analogica, è una presenza (spesso utile) in un mondo che è molto di più. Per noi essere hacker è proprio questo, saperci porre con le macchine in modo creativo senza esserne usati, senza che divenga il quadrato di gioco totalizzante che soffoca la nostra generatività.
questo articolo, scritto con CARLO MILANI, è un estratto dal libro formare a distanza scritto con il gruppo di ricerca C.I.R.C.E. Qui (come in giro su questo blog) si trovano altri estratti.
Attraverso un lavoro di narrazione fantastica i ragazzi riflettono su alcune problematiche legate alla dipendenza da strumenti digitali. Ciò che emerge è tutt’altro che scontato…
All’Anno Unico, durante il percorso di Pedagogia Hacker, abbiamo chiesto di ipotizzare possibili soluzioni agli effetti nocivi degli strumenti digitali. I ragazzi dovevano scrivere un racconto di fiction in cui si ipotizzassero risposte virtuose, in particolare al problema della dipendenza.
Dovevano immaginare di scrivere lo script di un film (spesso, come sappiamo, per gli adolescenti è più facile creare una narrazione chiedendogli di immaginare che sia la trama di un film o di una serie tv); le soluzioni presentate nel testo potevano essere anche fantastiche, era permesso osare senza censure.
L’idea era provare a superare l’immaginario distopico tipico di narrazioni in stile Black Mirror, volevamo sfidare l’impotenza che questi racconti suscitano permettendoci anche soluzioni assurde, e non necessariamente politicamente corrette.
Questo è il brano che il gruppo, 6 ragazzi poco “scolarizzati” ma molto intelligenti hanno creato, senza nessun suggerimento da parte dell’adulto:
Un ragazzo nella sua famiglia. È il figlio più piccolo. Si rende conto che si sente solo perché i genitori non parlano: non parlano tra di loro, non parlano con lui. Studia allora un metodo per staccare i genitori dal telefono.
Fa diversi tentativi: -prima stacca il wi-fi -poi rompe i telefoni ai genitori (glieli rompe di notte, nei pochi momenti che non li hanno in mano) -allora gli stacca la sim da telefono e gliela butta via
Questi metodi però non funzionano. Cerca allora di far sentire i genitori in colpa perché non fanno il loro dovere. Denuncia l’azienda dei telefoni, cerca delle prove che la colpa per cui i genitori non si parlano è dell’azienda dei telefoni. Chiama un amico, gli chiede come va, lui gli dice che la situazione a casa sua è simile, allora insieme decidono di creare un gruppo. Si danno un appuntamento in un posto segreto, vanno all’azienda che produce i telefoni, si presentano nell’ufficio del proprietario dell’azienda. Gli dicono: “guarda, i nostri genitori non pensano più a noi”, poi lo mandano affanculo e lo menano. Menano il signore dei telefoni.
Poi se ne vanno e fanno scattare la seconda parte del loro piano. Tolgono l’elettricità a tutta la città. La gente rimane al buio ed è costretta ad utilizzare le candele. Le persone senza luce con il passare dei giorni vanno in depressione, iniziano ad esserci diversi suicidi, la gente inizia a protestare, c’è una rivolta perché i cittadini rivogliono l’elettricità.
I ragazzi allora propongono un patto: se vi ridiamo l’elettricità tutti i telefoni devono sparire .
Spunti di riflessione
Sebbene si tratti di un testo che a molti colleghi potrebbe far storcere il naso, scritto da ragazzi piuttosto allergici alla scrittura (e alla lettura, e ai contesti scolastici..), contiene alcune intuizioni ed elementi di saggezza che è bene elencare, che in aula abbiamo in seguito approfondito insieme:
I primi responsabili di tutta questa questione non sono gli adolescenti. Il problema sono gli adulti che progettano e guadagnano sul tempo che dedichiamo allo smartphone. Molte delle piattaforme digitali che usiamo quotidianamente sono progettate per generare dipendenza, da team di ingegneri e psicologi “passati al lato oscuro”. Gli adulti inoltre, nel ruolo di utilizzatori, sono dipendenti come e forse più dei ragazzi.
Il ruolo, rimosso, dell’economia e del conflitto. La dimensione economica, il capitalismo ha un ruolo importante in questa partita, anche se la maggior parte di “media educators” evita o marginalizza la questione, “E’ colpa vostra che utilizzate male lo strumento”, fanno intendere. I ragazzi nel loro racconto invece hanno messo in evidenza qualcosa di diverso e ci ragguagliano, con linguaggio colorito, che se si desidera il cambiamento bisogna mettere in conto anche un importante livello di conflitto, che non basteranno i ravvedimenti interiori.
Sortirne insieme. La dipendenza da strumenti digitali ha una dimensione sociale e politica, non può allora essere affrontata dall’individuo da solo. Bisogna allearsi, come i ragazzi nella storia, “sortirne insieme”, come ripeteva don Milani.
Come spesso accade i ragazzi hanno detto le cose con molta semplicità, ma in modo molto efficace, elementi che la media education e in generale tutta l’educazione al digitale in generale tace o mette in secondo piano. Sta a noi saper ascoltare…
Riflettere su se stessi e sul mondo a partire da un video musicale fortemente metaforico
L’idea in pillole: Si chiede ai ragazzi di dare un’interpretazione personale ad elementi metaforici presenti in un videoclip musicale. In questo modo possono essere condivisi e rielaborati sguardi su se stessi e sul mondo.
Alcuni video musicali hanno una forte carica metaforica. Il formatore può sfruttare questa caratteristica per attivare processi riflessivi, chiedendo al gruppo di ipotizzare possibili interpretazioni del “significato nascosto”. Il video può essere suggerito dai ragazzi (in una situazione di lavoro simile a questa) oppure scelto a priori dal conduttore come nel caso che segue, perchè ritenuto funzionale per approfondire temi rilevanti per il percorso educativo.
Gli adolescenti, talvolta, ascoltano (e producono) musica di qualità
Ho proposto ai ragazzi dell’Anno Unico di lavorare sul video “When the party is over” della giovanissima cantante americana Billie Eilish (di grande successo a livello globale tra gli adolescenti). Il suo Electro-pop o Gothic-pop è stato apprezzato anche dalla critica più esigente; inoltre i suoi video sono spesso piccole opere d’arte, realizzati con cura e sempre veicolo di interrogativi e significati non scontati (…e sempre parecchio inquietanti).
Scegliere su quali elementi della metafora andare a lavorare
Quando si vuole utilizzare in contesti di apprendimento un video di questo genere, il formatore può chiedere ai partecipanti di “svelare” il significato nascosto dietro ad ogni singolo elemento, a partire dalla propria sensibilità. Questo tipo di attivazione può facilitare la produzione di riflessioni inedite e generative
In questo caso ho chiesto ai ragazzi di annotarsi cosa rappresentavano secondo loro:
– la scena iniziale: i colori, la stanza, la protagonista – il liquido nero nel bicchiere – le lacrime della protagonista e il finale
La condivisione
Terminata la visione del video apriamo il momento di condivisione. Quasi nessuno aveva scritto nulla ma, dagli interventi che seguirono, mi resi conto che avevano raccolto la sfida.
Luca: macchie sul bianco della perfezione
Luca interviene per primo. Ci dice che secondo lui la scena iniziale rappresenta la purezza, ma anche la solitudine. Il liquido nero è il dolore che la protagonista manda giù nel tempo. Dopo un pò è satura, non ne può più e il mondo puro in cui viveva si sporca. Dopo aver detto queste parole non ha voglia di commentare oltre, e io non gli chiedo altro. Dentro di me però penso quanto in questa visione ci fossero temi importanti dell’esperienza di Luca, ma anche di tanti adolescenti di oggi. Ci troviamo sempre più spesso ad avere a che fare con ragazzi cresciuti con genitori impegnati ad essere perfetti nel loro ruolo, a non far mancare nulla ai loro pargoli: dialogo, esperienze formative di ogni sorta, protezione dalla sofferenza e dalla frustrazione. In queste situazioni è facile che i figli interiorizzino a loro volta l’imperativo di “dover essere perfetti” e, talvolta, la sensazione di esserlo. Arrivati all’adolescenza però lo shock è forte: i ragazzi si rendono conto che sono vulnerabili, che stare al passo con le aspettative dei genitori diventa impossibile, che il mondo là fuori è pieno di insidie, precarietà, che il successo che sognavano da bambini è cosa per pochi. Tutto questo genera ansia e vissuti depressivi. Se si è abituati alla perfezione, a rappresentarsi come bianco candido, qualsiasi macchia è insopportabile, impossibile da reggere.
Matteo: lo sporco diventa esperienza
Matteo invece ritiene che le scene iniziali possano rappresentare la forza e la fragilità insieme: il bianco è la fragilità, mentre i capelli azzurri di Billie rappresentano la forza, la determinazione con cui la protagonista vuole imporre il suo essere unica. Il liquido che la ragazza beve sono invece gli ostacoli che deve affrontare, le fatiche della vita, i problemi. Il finale rappresenta i cedimenti della ragazza: non riesce più a reggere tutta quella fatica e lascia andare, subisce molte sconfitte. Matteo sottolinea però che la protagonista non crolla mai definitivamente, lo si può notare dal fatto che rimane seduta fino alla fine del video, capiamo così che è riuscita ad attraversare questi momenti, anzi è diventata più forte e soprattutto più saggia (lo si intende dai vestiti sporchi, vissuti). Il contributo di Matteo sembra andare a dialogare in qualche modo quello di Luca. In questo caso la non purezza diventa un valore, e la sofferenza può essere accettata e attraversata. Lo sporco è simbolo di maturità e di cammino compiuto.
Boris: la difficoltà i diventare grandi
Boris interviene per ultimo e, con il suo solito fare da “saputo”, comunica al gruppo – e a me – che il tema del video non è l’adolescenza, ma il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Ci dice che il liquido nero rappresenta quando vai a vivere da solo, e devi mantenerti tu, quando l’ingresso nel mondo del lavoro porta a vivere “la stessa fatica e la stessa merda”, quando la vita va in loop. Si diventa allora più cinici e “ci si chiude all’amore”. Boris ci racconta che quando cresci, e inizi ad avere un pò di indipendenza, “ti senti il boss”, “però poi inizi a fare cazzate, butti via i soldi, ti penti e impazzisci”. Dice che il liquido nero potrebbe essere anche lo stare male dovuto alla delusione di sè. Non a caso Boris è proprio in un situazione di vita simile, nei prossimi mesi gli sarà richiesto di fare un importante salto di autonomia, dovrà, non per sua scelta, andare a vivere da solo, e i servizi sociali non potranno aiutarlo tanto come hanno fatto fino ad ora, dato il compimento della maggiore età. Attraverso questo discorso, fatto con tono di chi si sente un pò più grande e un passo avanti nel percorso della vita, Boris ha portato al gruppo i propri fantasmi, le proprie paure, gli ha dato una forma e le ha condivise come forse mai prima in un contesto simile. La potenza della metafora, e la protezione data dalla richiesta di non parlare di se ma “della protagonista del video”, lo hanno messo in condizione per poter formulare e comunicare quella riflessione, in un atto di grande forza e coraggio.
il ruolo del gruppo
Come sempre il gruppo ha avuto un ruolo fondamentale: accoglie, contiene, in un gioco di risonanze aiuta ad integrare i contenuti più forti.
Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi, non a loro agio in attività di tipo teatrale.
Le idee in pillole: 1 – Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi e non a loro agio in attività di tipo teatrale. 2 – Proporre ai ragazzi di utilizzare i loro smartphone, con applicazioni semplici e intuitive, per creare narrazioni attraverso le quali esplorare il proprio mondo interiore 3 – Creare occasioni di espressione di sè in cui si garantisce al ragazzo la possibilità di proteggersi dall’esposizione diretta allo sguardo dell’altro, proponendo un’alternativa all’imperativo “mostrati!” della società attuale.
Riferimenti metodologici e ambiti di ispirazione: Metodologicamente i principali riferimenti si possono ritrovare – Nello storytelling digitale in una prospettiva di apprendimento esperienziale – Nello psicodramma moreniano e in particolare il lavoro con la maschera di Mario Buchbinder L’ideazione della proposta è sicuramente influenzata da pratiche quali il cosplaying, il gioco di ruolo e il LARP (Live action role-playing)
Mettersi in gioco per piccoli step
In genere quando si propone un’attività di tipo teatrale i ragazzi meno a loro agio con la corporeità, più introversi o magari con sintomi di fobia sociale, la risposta è (intuitivamente) un rifiuto. In un’ottica di “pedagogia nerd” una possibilità in questi casi può essere accompagnare a lavorare sugli obiettivi formativi che ci si è proposti (attivazione del corpo nello spazio, espressione del mondo interiore attraverso la fisicità, creazione di relazioni..), ma per piccoli step, dando loro la possibilità di rimanere protetti e mantenersi in un ambiente conosciuto e a loro congeniale (il mondo fantastico). Quello che segue è un esempio di questo tipo di attività.
Se qualche collega è incuriosito e vuole provare a proporre qualcosa di simile non si scoraggi dall’utilizzo delle maschere (materiale non facile da avere a disposizione). Un lavoro simile si può fare anche realizzandole in cartone (come si vedrà in fondo al post) oppure utilizzando altri espedienti.
La scoperta delle maschere
I tavoli dell’aula dell’Anno Unico erano coperti di tante maschere diverse. Alcune orrorifiche, altre misteriose, altre curiose, altre ancora simpatiche e rasserenanti. Ogni ragazzo era invitato a prenderne una che gli risuonasse. La consegna era “prendi la maschera che ti chiama.. fatti scegliere da lei..”. Una volta scelta la proposta era di indossarla ed eventualmente completare il travestimento utilizzando stoffe e mantelli, e aggiungendo altri gadget come bacchette magiche, campanellini, armi in legno.. A loro disposizione c’era uno specchio, o in alternativa per guardarsi potevano utilizzare i loro cellulari in modalità “selfie”.
A questo punto la richiesta era di provare a immaginare chi fosse quella maschera, quale storia avesse, quale missione nel mondo, annotando appunti su un foglio. Ho utilizzato come stimolo una scheda personaggio simile a quella di un gioco di ruolo, o di un videogioco, sottolineando che non era obbligatorio compilarla tutta.
Inventare le storie a gruppi e realizzare i frame fotografici
I ragazzi erano poi invitati a guardarsi intorno, osservare gli altri e unirsi in piccoli gruppi facendo incontrare le maschere che secondo loro avevano “qualcosa da dirsi”. Compito di ogni gruppo era inventare una storia i cui protagonisti fossero i personaggi nati dall’attivazione precedente.
La storia quindi doveva essere divisa in alcuni frames fotografici: i ragazzi mascherati dovevano mettersi in posa per rappresentare le diverse fasi della narrazione e fotografarsi utilizzando i loro cellulari.
Un editing digitale semplicissimo e dall’effetto immediato
A questo punto, utilizzando due app, Prisma e PicSay, i ragazzi avevano il compito di trasformare le foto in vignette. Prisma è un’applicazione per smarphone che permette di “fumettizzare” qualsiasi immagine. L’utilizzatore può scegliere tra opzioni di filtri diversi, alcune dalla resa grafica davvero efficace. PicSay invece permettere di aggiungere anche fumetti per dare voce ai personaggi (al momento in cui scrivo Prisma dovrebbe essere disponibile per Android e iOS mentre PicSay solo per Android, ma se ne trovano altre simili per iOS). I ragazzi hanno così editato e realizzato il proprio fumetto, spesso stupendosi della bellezza delle immagini prodotte dall’intersezione tra la tecnologia e la loro sensibilità I ragazzi che lo desideravano potevano utilizzare un’altra app, VideoShow, per creare uno slideshow di presentazione della storia, con la possibilità di aggiungere musica ed effetti sonori.
Momento riflessivo di condivisione
L’attività si è chiusa proiettando i lavori prodotti. In questa fase il mio compito di conduttore è stato quello di provare ad approfondire i contenuti, chiedendo ai ragazzi di dare un nome ai sentimenti dei personaggi, ai loro pensieri, ai motivi dei loro gesti. In un’ottica di mantenere la “copertura” non chiedo di uscire dalla metafora, di raccontare se gli autori ritrovano qualcosa di quanto raccontato nei loro vissuti personali, a meno che ciò non emerga spontaneamente. L’idea è quella di invitarli ad esplorare il proprio mondo interiore rimanendo ancora protetti dalla metafora.
Creare spazi protetti di convivialità ed espressività
Un’attività di questo genere comprende alcuni elementi tipici del teatro quali la narrazione, la relazione “incarnata” tra personaggi, il corpo come veicolo narrativo, può però essere utilizzata con adolescenti che non parteciperebbero mai ad una classica attività teatrale. In particolare ho scelto in diversi casi di proporla ragazzi che provenivano da una situazione di hikikomori (o ne erano a rischio), o che in generale vivevano disagio nell’esporsi all’altro. I 3 diversi livelli di protezione – la maschera, la mediazione della foto, la fumettizzazione – permettono loro di sentirsi sicuri e quindi facilitano il mettersi in gioco. I ragazzi si muovono, esplorano gli spazi (le foto potevano essere fatte ovunque nell’edificio, e anche nel cortile), cooperano ad un obiettivo comune, interagiscono (e non è raro sentirli ridere insieme).
I ragazzi si espongono, comunicano rimanendo in uno stato di anonimato, ciò che importa non è il nome e il volto di chi manda il messaggio ma il messaggio stesso. Il prodotto artistico è un’opera collettiva che permette a chi l’ha creata di esprimere elementi importanti di sè, pur non svelando la propria identità.
Approcciare in modo attivo le tecnologie
Le applicazioni che sono state utilizzate contengono pubblicità, acquisti “in app” e le loro funzioni sono creativamente piuttosto limitanti: l’utilizzatore, può scegliere solo tra poche opzioni operative. Sono quindi agli antipodi rispetto al software libero, direzione imprescindibile in una prospettiva di Pedagogia Hacker. Un’attività di questo permette però, a ragazzi che spesso vivono lo smartphone come oggetto di dipendenza, subendone passivamente la presenza, di cominciare ad invertire la rotta, scoprire che la tecnologia può essere utilizzata in modo attivo, creativo, può permettere loro di generare opere originali a partire dalla propria sensibilità e necessità comunicative. Inoltre l’inversione di direzione è riscontrabile anche sul fronte dell’esposizione di sè. Mentre nei social network è fondamentale promuovere il proprio volto, la propria immagine, qui al contrario la regola è tenersi nascosti. Chi manda il messaggio è un’identità collettiva, un incontro tra persone che hanno lavorato ad un obiettivo comunicativo e artistico comune che trescende le singole individualità.
Le storie
Tra le storie realizzate da i ragazzi dell’Anno Unico c’è quella che racconta di Iris, un adolescente (con poteri magici) che per punizione è stato intrappolato in una foglia che non appassiva mai. Per questo rimase per anni attaccato ad un ramo, era “diventato un silenzioso osservatore del piccolo mondo che lo circondava e trascorreva le sue giornate pensando ad un modo per liberarsi”, era “centenario ma fisicamente appariva come al giorno in cui era stato intrappolato” (cit. dal testo dell’allievo). Iris cercava di chiedere aiuto ma, per colpa dell’incantesimo, era diventato afono, non emetteva alcun suono Un giorno però Iris incontrò Peggy, un ragazzo molto solo, che aveva il dono di un udito finissimo. Peggy fu l’unico a riuscire a sentire le grida di aiuto di Iris, lo trovò, salì sull’albero e lo liberò. Dal quel momento naque una bellissima amicizia.
E’ facile uscire di metafora e riconoscere nel vissuto di Iris quello di tanti adolescenti che abbiamo incontrato. Ritengo inoltre che abbia una grande carica poetica, esaltata dalla realizzazione per immagini che pubblico di seguito:
Nella seconda storia che vorrei presentare i contenuti sono invece meno rassicuranti, come accade spesso quando i ragazzi sono liberi di inventare senza l’intromissione dell’adulto. Ad una prima lettura potrà sembrare una storiella banale, ma anche qui possiamo trovare temi che caratterizzano il vissuto degli adolescenti: la fiducia, il tradimento di una persona cara, la rabbia.
La catarsi
Un lavoro di questo genere può attivare un processo di catarsi: il ragazzo, mettendo in scena l’assassinio di colui che lo ha tradito, “scarica” le tensioni negative, prendendo distanza dall’evento traumatico e provando una sensazione di liberazione; la vendetta viene agita nel mondo della rappresentazione scenica (senza conseguenze per la vittima!) ma permettendo al protagonista di esternare e dare forma alla propria sofferenza e rabbia. L’opportunità, in una fase successiva, di riguardare e commentare il prodotto finito (assistendo alla proiezione della storia realizzata) favorisce ulteriormente la rielaborazione dei vissuti. Si tratta di un processo che ha affinità con l’effetto di “purificazione dalle passioni” che Aristotele attribuiva alla tragedia greca e, in tempi più recenti, che Moreno indica come elemento importante della terapia psicodrammatica. Ragazzi che sono stati vittima di bullismo o di abbandono hanno potuto rientrare in contatto con il proprio vissuto negativo generando il bello, prendendosi cura di sè e avviando piccole (o grandi) trasformazioni.
La sfida di proporre la stessa attività ad un gruppo di ragazzi più “street”…
Ho provato a proporre questo tipo di lavoro anche alla Crew, il gruppo dell’Anno Unico più “street”, insofferenti ai setting maggiormente strutturati, spesso provenienti da contesti familiari e sociali difficili. I ragazzi si sono divertiti molto, hanno giocato con le maschere, ne hanno provate diverse a testa ma si è creato un clima di confusione tale che i gruppi (un quartetto e due coppie) non sono riusciti a creare alcuna storia. Sono nate alcune belle immagini, che posto qui sotto, tutte molto violente ed evocative, ma anche quando le abbiamo riviste insieme non siamo riusciti a parlarne, i ragazzi erano distratti, le voci si accavallavano, quando qualcuno provava ad intervenire con argomenti pertinenti gli altri lo interrompevano con battute. In quel momento mi sono fatto molte domande: avrei dovuto dare un consegna differente? Non avrei dovuto proporre questo lavoro ad un gruppo di ragazzi con queste caratteristiche?
Lo spettro
Ad un certo punto però qualcosa succede… proiettata sul muro compare l’immagine qui sotto. Non mi ricordavo nemmeno di averla scattata io quella foto. Era un ritratto di gruppo che alcuni ragazzi mi avevano chiesto per ricordare quel momento:
Luca per primo notò la persona sulla destra, separata dagli altri. Aveva una maschera a specchio, un volto spettrale senza occhi, naso, bocca, solo il riflesso del mondo circostante Luca si chiese ad alta voce chi fosse quello spettro, come fosse finito lì. Da quella domanda semplice il clima (magicamente..) cambiò: Hedi, acuto tirocinante, allargò al gruppo la domanda del compagno, invitando ognuno a proporre la propria teoria. I ragazzi si ascoltavano reciprocamente e rispettavano i turni di parola: “E’ uno spettro solitario”. “E’ triste, non ha amici, è venuto a ricordare che la felicità un giorno finirà”, “E’ una persona che è stata esclusa dal gruppo”… In poco tempo in quell’aula si sono materializzate e condivise alcune tra le paure più forti di questi ragazzi, paure “spettrali” in quanto indicibili, su cui si è potuto aprire un breve ma interessante e intenso spiraglio di riflessione. Ritengo che questo quarto d’ora abbia dato senso all’intera attività, un piccolo fiore nel caos che in seguito, in sede di colloqui individuali, avrò modo di riprendere in modo più approfondito e generativo con alcuni dei ragazzi presenti.
Autoprodurre le maschere. Il lavoro con un gruppo di ragazzi disabili
Quelle che seguono sono alcune immagini in cui le maschere sono state costruite con il cartone, a testimonianza che non è vincolante possedere un propria collezione. Il lavoro è stato fatto da una collega con un gruppo di ragazzi disabili, all’interno di una lezione di inglese.
Sperimentazione al corso di formazione formatori “Alieni”
Durante il percorso Alieni, strumenti e metodi per il lavoro con i nuovi adolescenti nel seminario dedicato alla cultura nerd e ai ragazzi più isolati, spesso è capitato di proporre questo tipo di attività ai partecipanti (educatori, psicologi, formatori), che si sono sempre prodigati creando immagini e storie molto interessanti.. Ecco qualche loro immagine per concludere. Questo seminario si svolge all’UESM Casa dei Giochi di Milano, patria nerd di ogni età. Le ultime due foto sono scattate nel suggestivo dungeon per LARP ad imbientazione dracula che si trova sotto l’edificio..
I ragazzi riflettono sulla società in cui l’imperativo è “devi divertirti!”
Stavamo lavorando in aula all’Anno Unico. Si parlava libertà, aspettative, imposizioni sociali. Propongo ai ragazzi un video che avevo da poco scoperto, intitolato “this is a generic millenium ad” (che da allora riproporrò spesso in aula, anche nelle formazioni con insegnanti e formatori). Lo scopo di chi l’ha prodotto è quello di raffigurare – attraverso un lavoro di cut-up di altri video – l’immagine stereotipata che le pubblicità mostrano dei giovani. Un’opera che dipinge in modo didascalico la pressione a cui le nuove generazione sono di continuo esposte: bisogna essere sempre allegri, avere mille amici, partecipare agli eventi giusti, mostrarsi originali e di successo tra i pari. Il video è molto evocativo, se utilizzato in maniera esperienziale, attenti alle risonanze che suscita, può aprire spiragli di consapevolezza interessanti.
“Tu sei unico. Tu sei differente. Tu sei speciale. Noi lo sappiamo. Noi capiamo tutto di te. In particolare il linguaggio che usi quando sei online. Come T.O.T.S. B.R.B. e “Join the conversation”. l’hai detto, vero? Il fatto è che sei libero. Libero dalle parole con le vocali!. Libero dai limiti del colore naturale dei capelli.. I tuoi capelli sono completamente rosa. Tu balli tutto il tempo. In strada. Nella tua camera. E sicuramente con il tuo eclettico gruppo di amici. Wow Ephram suona l’ukulele! Chi se lo aspettava? Questo è il modo in cui i millennials si comportano… “
Al termine della proiezione chiedo ai ragazzi se c’è qualcosa nel video che li ha colpiti, cosa hanno pensato o sentito dentro di loro mentre lo guardavano. Dopo un primo momento di silenzio gli interventi che si susseguono sono molti. Il vissuto di fondo è un mix tra lo sturpore di fronte alla rivelazione di qualcosa di assolutamente nuovo e l’esclamazione “è ovvio che è così“! Il fatto che si possa tematizzare qualcosa che ogni adolescente sa ma che difficilmente viene detto pubblicamente li colpisce. Dicono “è vero, è così..”, “Devi sempre divertirti.. uscire.. magari non hai voglia però non puoi.. sei uno sfigato se non esci..”, “devi farti vedere..”, “devi far vedere che hai tanti amici..”, “magari tu vuoi stare da solo ma non puoi..”
Il disegno di felipe
Mentre proseguiva la condivisione Felipe, che di solito si coinvolgeva molto in questo tipo di riflessioni, non parlava, era molto impegnato a disegnare. Ad un certo punto mi porge il disegno. Mi dice “Ecco, questo è quello che succede!”. Il disegno rappresenta un ragazzo con in testa un casco. Questo casco è uno “smile”, l’emoji che rappresenta un volto sorridente. Nel foro della bocca spalancata si intravede il suo volto reale, che invece è triste, affranto. Sulla sua maglietta c’è un segnale di divieto con all’interno un viso triste: “vietato non sorridere”. Alle sue spalle una città in macerie.
Chiedo a Felipe se ha voglia di mostrare e raccontare a tutti il disegno. “Questo rappresenta come mi sento” dice ai compagni “questa società ti obbliga a farti vedere in un certo modo, soffoca delle parti di te”. Gli chiedo cosa rappresentano le macerie dietro al personaggio “sono i problemi di tutti i giorni, che sono tanti, ognuno ha i suoi, le tensioni con i genitori, la scuola, trovare lavoro.., e poi sono il nostro passato, le storie, le sconfitte..”. Dice che non sono cose di cui parli tanto, te le tieni dentro, i genitori o li ingigantiscono o li sminuiscono, allora alla fine non ti rivolgi più a loro, con gli amici in compagnia non se ne parla, ci si diverte, bisogna essere sempre presi bene. Magari c’è qualche amico con cui ne parli ma solo con pochi.
Christopher si inserisce: “…devi fare un pò il coglione. quando sei fuori, devi far ridere gli altri.. fumare.. non è che puoi parlare dei tuoi problemi.. “
La chat come luogo sicuro dove essere se stessi
Chiedo a Christopher se ci sono dei momenti in cui invece riesce davvero a parlare dei suoi problemi. Lui risponde: “in chat!“ Io sono sinceramente sorpreso “in chat?!” .. “si in chat, nella chat dei videogiochi on line” (Christopher è un gamer “duro”) “Io ho cosciuto in chat delle persone con le quali parlo dei miei problemi, gli racconto le mie storie e loro le loro..”
E perchè questo non succede con gli amici che vedi tutti i giorni? Perchè in chat non li vedi. Non ti vedi in faccia. E non ti giudicano. Puoi parlare tranquillo.
Porto a casa questa scoperta. La chat, il luogo che per tanti adulti è un luogo negativo, dove con le persone si intessono solo rapporti superficiali, se non pericolosi, è invece per molti ragazzi uno spazio “safe”, al riparo del richiamo alla prestazione, all’essere sempre brillanti e goliardici, come invece richiede il rituale pubblico delle compagnie di adolescenti.
Un rito di chiusura: mostriamo le macerie
La lezione volge al termine e decido di proporre un piccolo rito di chiusura di questa attività, convinto che questi temi avremo dovuto sicuramente riprenderli.
Dico che la nostra missione è contrastare questa spinta della società a volerci sempre brillanti e performanti, far si che anche la parte oscura, le macerie, abbiano la possibilità di mostrarsi.
Utilizzando la lavagna come sfondo di proiezione e il proiettore ancora acceso, fermo a mostrare uno degli ultimi fotogrammi del video, chiedo se qualcono di loro voleva alzarsi e disegnare con il pennarello delle macerie, come sfondo agli attori felici ritratti nel video, come primo atto “psicomagico” per sancire i nostri intenti. Nel minuto seguente compaiono come “quinte” della rappresentazione in video case diroccate che richiamano il disegno di Felipe.
Guardiamo insieme il risultato, skippando anche tra i fotogrammi, Sorridiamo per le immagini che si creano. Ora le macerie sono presenti, le vediamo e forse insieme possiamo cominciare ad affrontarle insieme.
Ringrazio i ragazzi, dico che le loro riflessioni sono state molto interessanti per me, che spero che l’Anno Unico sia anche questo, un posto che possa anche accogliere la parte non luminosa di noi, in cui non ci sia l’obbligo per nessuno di mostrare felicità forzata. Li saluto, si alzano, “bella!..”, a domani..
Re-inventare uno spazio pubblico e sperimentare l’intensità della poesia, attraverso un’ “occupazione” notturna, scene teatrali e l’intimità del buio
Le idee in pillole: 1 – “Occupare” un luogo pubblico per incantarlo, creare un temporaneo spazio di magia in cui : – le relazioni nel gruppo sono più intense – le relazioni con lo spazio si ristrutturano – Un tema di apprendimento come la poesia può essere affrontato nel setting che più gli si addice, quello notturno 2 – Lavorare sulla poesia in una prospettiva immaginale 3 – Proporre cicli di codifica-decodifica trasformando la poesia in scena teatrale attraverso l’utilizzo di oggetti mediatori quali teli e maschere
L’intento era presentare ai ragazzi la poesia in tutta la sua forza, scrollarle di dosso quella patina di cui spesso è ricoperta a scuola, che la disarma, la rende sterile. E poi, come richiedeva il progetto in cui l’attività era inserita, bisognava aiutarli a riavvincinarsi, in modo inedito, ai locali della biblioteca.
Ci voleva un’azione forte, destabilizzante.
“Perchè in biblioteca non facciamo un’irruzione a notte fonda? Entramoci avvolti dall’oscurità, intrufoliamoci a leggere, scrivere, dare vita ai versi!”
Mi ricordo le facce stranite dei colleghi quando ho proposto l’idea al tavolo di coordinamento del progetto Biblio.net, facce che presto si sono fatte complici. Ilaria DeLorenzo, compagna di mille scorribande educative, ci è stata subito, per lei era un invito a nozze.
E così, dopo un pomeriggio passato con i ragazzi a parlare di poetry slam e comporre testi di spoken word, una cena e una serata insieme, allo scoccare della mezzanotte ci siamo avventurati tra gli scaffali pieni di libri. Era completamente buio, tranne la luce dei lumini che io e Ilaria avevamo posizionato ovunque (tanto che più di una volta la direttrice ci ha chiamato per assicurarsi che non scattasse l’allarme anti-incendio..). A terra avevamo sparso testi di poesie e canzoni. Nei locali risuonava una musica un pò magica che non si capiva bene da dove arrivasse (tutta la prima parte della conduzione l’ho passata ad una consolle allestita su un soppalco della biblioteca, divertendomi a mixare colonne sonore, tappeti di musica ambient, classica contemporanea ed elettronica cercando di costruire – anche a livello sonoro – l’atmosfera giusta per il lavoro).
I ragazzi sono hanno iniziato la propria esplorazione con una pergamena in mano che riportava la consegna:
Quando avrai trovato una poesia – o la parte di una poesia – che ti risuona, che per ragioni anche imperscrutabili ti chiama, lasciati scegliere da lei.
Cerca allora un luogo propizio per accostarti a lei nella sua dimensione immaginale, affinché tu riesca a captarne il potere simbolico.
Scegli un luogo comodo e accogliente.
Ora leggi e rileggi più e più volte la poesia.
Non giudicarla, non chiederti se è bella, brutta, scritta bene o male,
Se per caso ne conosci l’autore rimuovi tutto ciò che sai.
Affinchè l’esperimento riesca prova ad annullare te stesso e il tuo vissuto, non cercare parti di te e della tua esperienza tra i versi.
Rimani sulle parole, sulle immagini che la poesia ti suggerisce, ti propone, con cui il testo ti pervade.
Focalizzati sulle immagini che la poesia fa scaturire
COSA VEDI?
Annota ogni visione sul tuo blocco”
L’intento era lavorare sul potere immaginale e simbolico della poesia. Per questo eravamo andati, giorni prima, a consultarci con Paolo Mottana, che ci aveva dato qualche prezioso consiglio (se sei incuriosito dalla pedagogia immaginale clicca qui).
E’ iniziata un’esperienza di esplorazione solitaria, di contemplazione e meditazione, di ricerca di visioni. E’ stato un lavoro dello stare, dell’attesa, del silenzio fuori ma soprattutto dentro.
In un secondo momento i ragazzi si sono ri-incontrati, appartati in piccoli gruppi hanno condiviso le visioni.
A questo punto sono comparsi intorno a loro teli e maschere. Utilizzando questi oggetti mediatori ogni gruppo era invitato a dare corpo alle immagini emerse con un breve scena teatrale, in un processo trasformativo di appropriazione e re-invenzione.
E’ difficile raccontare a parole la bellezza di quello a cui abbiamo assistito poco dopo. Vi lascio alle immagini del video che postato all’inizio dell’articolo che rimangono una, seppur limitativa testimonianza.
Sicuramente è stato un momento che ricorderanno a lungo, una TAZ generativa, un “atto insensato di bellezza” .
Utilizzare youtube con gruppi di adolescenti come strumento di apprendimento riflessivo
L’idea in pillole: Si chiede ai ragazzi di indicare titoli di video che loro ritengono particolarmente significativi. In seguito si guardano insieme. Il conduttore, attraverso specifiche domande e sollecitazioni, aiuta il singolo e il gruppo a fare i “movimenti dell’apprendimento esperienziale“, costruendo apprendimenti riflessivi.
La consegna
Entro in aula. Dopo una mezzoretta di aggiornamentochiedo ai ragazzi di scrivere su un bigliettino il titolo di un video reperibile on line che reputassero significativo. Un video che raccontasse qualcosa di loro o in generale dell’essere adolescenti oggi, del mondo che abitano. Chiedo che, al di là delle parole, fossero le immagini l’elemento comunicativo centrale. Potreva essere un video musicale, una pubblicità, il trailer di un film..
I ragazzi si mettono a scrivere subito, quasi senza rifletterci, pare che nessuno avesse difficoltà a trovare il titolo, qualcuno anzi mi chiede: “posso scriverne 2? 3?”. Io rispondo che va bene, ma cercando di metterli in ordine per importanza, in modo che uno, anche per pochissimo, la spunti sugli altri.
IL FIORELLINO DENTRO
Ritirati i bigliettini ci spostiamo nello spazio allestito per la proiezione. Vedremo i video uno a uno. Chiedo se qualcuno di loro vuole proporre il proprio per primo.
Si offre Diego. Subito ci tiene a precisare che non si tratta di un vero e proprio video, ma è solo una canzone accompagnata da un’immagine statica di una una ragazza “manga”.
Ok, anche se non era esattamente quello che avevo chiesto. Cerco il video su youtube e clicco play. La ragazza dell’immagine è molto bella, stesa che guarda il soffitto. La canzone ha una melodia triste. Diego dice che è una canzone “depressiva”. Il testo è in inglese, scorre in un angolo dello schermo, proviamo a tradurlo insieme ma lui ci dice che non sono importanti le parole. Lui ascolta questo pezzo quando pensa alla sua ragazza che vive in Svizzera, che può vedere solo nei mesi estivi. Ci racconta che lei è così come l’immagine del video, così bella. Gli occhi di Diego si fanno lucidi. Gli chiedo se vuole dare un nuovo titolo a questo pezzo, a partire dalle cose che ci ha detto, lui risponde senza pensarci troppo: “vorrei che tu fossi qui”. Alejandro, che fino a quel momento era sembrato distratto, vede Diego commosso ed esclama ad un tratto: “dentro di lui c’è un fiorellino”.
Io dico che forse c’è un fiorellino dentro ognuno di loro, e di noi. Solo che qualcuno lo tiene ben nascosto, lo ha messo in un’armatura perché è molto delicato.
Propongo di affiancare al titolo dato da Diego anche “Il fiorellino dentro”.
Alcuni annuiscono.
LACRIME
Il secondo a proporsi è Marco, ci dice che non vorrebbe condividere un video ma una canzone. Che la cosa importante è il testo (figuriamoci se ce ne è uno che segue la consegna!) È un pezzo hip-hop di Luchè. Se la cosa importante è il testo allora ho bisogno del testo: attraverso google lo recupero velocemente, lo copio su un foglio word e lo proietto, ingrandendolo il più possibile in modo che tutti lo potessero leggere.
Parte il pezzo, lo ascoltiamo mentre io faccio scorrere le parole. Al termine dell’ascolto chiedo a Marco di individuare il passaggio nel testo che gli risuona maggiormente. Lui indica questi versi:
Quando avevo
bisogno di lei
Mi trovai con un coltello nella schiena
E un
addio scritto a penna
E mo’ non credo più nell’amore
io lo evidenzio in neretto nel testo proiettato.
Marco racconta che gli ricorda una storia d’amore finita male. Che c’era questa ragazza che si era presa gioco di lui, lo aveva lasciato più volte e poi era sempre tornata chiedendogli di rimettersi insieme. Lui ci era sempre ricascato, finché un giorno ha trovato la forza per parlarle chiaro, dicendole quello che pensava, che non voleva essere più trattato in quel modo. Chiedo a Marco se quella vicenda gli ha portato qualche insegnamento. Lui risponde che ha capito che è meglio parlare chiaro e il prima possibile anche se abbiamo paura, che il silenzio a volte è un buon alleato ma non sempre.
Dopo un momento di silenzio Marco riprende la parola, vuole aggiungere un’altra riflessione: “anche a me è capitato in un modo simile di prendermi gioco di alcune persone, questa cosa mi fa pensare..”
Gli chiedo se c’è un altro passaggio del testo che vorrebbe sottolineare. Lui ci indica questo:
So che non è facile Credere ai miei occhi quando sono fragile Guardare attraverso le mie lacrime
La parola lacrime tocca molti del gruppo, avevamo appena intravisto quelle di Diego. Sembra che emerga ancora più forte quella sensazione di vulnerabilità, quel fiorellino interiore protetto dietro i loro fisici e atteggiamenti che paiono inattaccabili. La cosa forse più importante educativamente e che ci si inizia ad accorgere che siamo in un gruppo in cui anche le vulnerabilità possono emergere ed essere accolte. Non una cosa da poco.
SI NASCE E SI MUORE, CI SI INCONTRA E CI SI LASCIA
Il video seguente è di Paolo. Ci propone Daniele Marino, cantante neo-melodico che non conoscevo, ma a quanto mi raccontano i ragazzi molto famoso.
Il video comincia con un incidente d’auto. Due fratelli camminano sul marciapiede, quello più grande è distratto dal telefono e attraversa la strada mano nella mano con quello più piccolo. In quel momento passa un’automobile e quest’ultimo viene colpito e buttato a terra sulla strada.
A questo punto il video comincia un surreale botta e risposta tra il cantante e il bambino steso sull’asfalto, il primo che chiede perdono e si dispera, il secondo che riflette sull’ineluttabilità del destino. Durante questo dialogo i protagonisti ripercorrono tutta la loro vita, e si scopre che anche la loro mamma è scomparsa prematuramente. Sebbene il video, ai miei occhi, rasenti il ridicolo, la tensione emotiva nel gruppo è molto alta. Ad un certo punto decido di fermarlo perché i ragazzi sembrano non riuscire più a reggerlo, e perchè so che per un di loro la ferita per la morte del padre è profonda e ancora aperta. Quando si lavora coinvolgendo i vissuti personali uno dei compiti più difficili del formatore è quello di mantenere una temperatura emotiva sufficiente per dare intensità e profondità al lavoro, ma non oltre quella che il gruppo può reggere e gestire.
Paolo racconta che questo video gli fa pensare al suo fratello in Ukraina, che non ha mai più visto da quando è stato adottato e ha lasciato quel paese. Sentendo quelle parole Samuele e Diego in contemporanea dicono “Anch’io sono ukraino!”. Era il secondo giorno di Paolo all’Anno Unico, questa “carrambata” ha generato subito un legame, o quantomeno un ponte importante.
Dopo aver nominato suo fratello il volto di Paolo si era coperto di un velo di tristezza, durato finché all’improvviso non si ricompone e dice: però mi sta per nascere un nipotino, il figlio di mia sorella, e sono felice!
Si avvia allora tra i ragazzi un discorso sulla vita, sul fatto, ovvio ma forse impossibile da realizzare nella sua enormità che nella vita si nasce e si muore, ci si incontra e ci si lascia. Io penso a quanto sia importante lavorare su questi argomenti oggi, in un mondo in cui la cultura dominante nasconde il dolore (o lo trasforma solo in pornografia emotiva) e nega il limite e la fine.
PERDONAME MADRE POR MI VIDA LOCA
Ora tocca al video di Deborah. Ci propone la canzone di un rapper russo, Kalin Ryse Nikolov; il pezzo si intitola Mama I’m a criminal. Il video è molto violento, utilizza le prime immagini del film Batman il cavaliere oscuro in cui un gruppo di malviventi vestiti da clown rapinano una banca, uccidendosi a vicenda uno alla volta. Mi chiedo cosa ci voglia comunicare con delle immagini così forti e come potrò lavorare su questo video.
Ho imparato che in queste situazioni la cosa migliore da fare è evitare elucubrazioni e chiedere direttamente al ragazzo la strada da percorrere con lui. Il video è un oggetto mediatore tra di noi (e tra il ragazzo e se stesso), è importante quindi capire quale aspetto del video risuona in lui, quello che ci vuole comunicare attraverso quell’opera. Il rischio è che noi formatori coinvolgiamo i ragazzi nell’indagine di aspetti che colpiscono noi, andando completamente fuori strada rispetto le risonanze dell’adolescente. A volte i ragazzi ci portano un video o un opera d’arte perchè entrano in contatto con piccoli particolari che a noi possono sfuggire o sembrare secondari. Rimanendo in ascolto attento e mettendo da parte il nostro ego da quei piccoli spiragli possono nascere riflessioni importanti.
Mi rivolgo quindi a Deborah: “Quali tra queste immagini ti risuonano di più Debby? perché?”. Lei mi risponde, spiazzandomi, che non gli interessano le immagini, che lei quella canzone di solito la ascolta in cuffia mentre cammina per la città: non le importa il video e nemmeno il testo (che non capisce). Vuole porre l’attenzione solo sul titolo.
Sbang!! Se avessi iniziato a proporre stimoli sull’analisi delle immagini avrei sbagliato completamente!
Deborah è lapidaria “questo titolo evidenzia la difficoltà di dire le cose di cui ci vergogniamo alle persone a cui vogliamo bene”. Si vede che non ha voglia di approfondire troppo, però è bastata questa frase per far passare una scarica emotiva e di rispecchiamento in tutto il gruppo. Lo si vede da come per un istante sono cambiate le espressioni. La delusione e la paura di deludere sono alcuni tra i sentimenti più presenti all’Anno Unico: la delusione dei famigliari per il fallimento scolastico, per alcuni anche i guai con la legge in cui si sono cacciati.
Alejandro, che viene dall’Ecuador, ci racconta che i carcerati appartenenti alle gang si facevano tatuare sulla palpebre la scritta “perdoname madre por mi vida loca”. La ragione per cui o scrivevano proprio sulle palpebre era perché così gli altri, in particolare la propria madre, lo avrebbero visto solo quando sarebbero morti.
Alejandro sottilinea la dimensione della vergogna che vivono queste persone nei confronti di chi amano di più. I ragazzi non esplicitano i motivi, per ognuno diversi, della loro vergogna, ma con breve frasi o cenni del corpo si mostrano coinvolti e partecipi al tema che risuona di volto in volto.
SUPER SAYAN
E’ il momento di andare verso una chiusura, ci sono altri video da vedere ma vanno rinviati alla volta successiva. Il lavoro è stato intenso. Faccio spontaneamente i complimenti ai ragazzi, per la loro profondità, per i discorsi importanti che avevamo fatto. Ci sentivamo tutti appesantiti. Io avrei proposto un giro di sharing ma non mi sembrava ci fosse la predispozione adatta. Qualcuno dice: Perchè per rilassarci un po’ non ci guardiamo Dragon Ball? In risposta arriva un coro di “si dai!” “ci sta!”. Io dico ok, senza pesarci troppo, abbiamo tutti bisogno di un momento di decompressione. Chiedo loro quale stralcio di Dragon Ball vorrebbero vedere. Sono tutti d’accordo, chiedono quando per la prima volta Goku si trasforma in Super Sayan.
Lo vediamo insieme. “Mi vengono i brividi!” esclamano tanti durante la proiezione (anche un giovane collega, entrato nel frattempo in aula). Raccontano che gli veniva in mente quando quella scena l’avevano vista per la prima volta da bambini “Il mio più grande desiderio era diventare dei Super Sayan!” dice uno. Qualcuno dice che si chiudeva in bagno e urlava come Goku per trasformarsi. Ma non succedeva niente. Altri rispondono “anch’io!”.
Mi è subito venuto alla mente quando da bambino io sognavo di trasformarmi in Hurricane Polimar un eroe delle anime dei primi anni ottanta.
Interviene Corrado, con tono di voce serio: “…è che ad un certo punto ti accorgi che non puoi trasformarti. Diventi grande e capisci che non puoi essere un Super Sayan. Capisci che nella vita devi sbrigartela da solo..”
Penso che la prossima volta mi piacerebbe ripartire da qui, mi stupisce quante cose importanti emergono semplicemente dandogli gli strumenti per raccontarsi e riflettere.
IO CREDO IN ME
Le tre ore di aula stanno per terminare. I ragazzi chiedono se come conclusione della giornata potevano vedere insieme la sigla di Naruto (ormai siamo entrati nel mood “gli anime che mi hanno aiutato a crescere”..). Io non l’avevo mai vista, anche se della lunga serie di questo cartone animato ho visto buona parte. Il titolo è didascalico, pura pedagogia nerd: “io credo in me”.
I ragazzi vanno a sdraiarsi nell’ “angolo morbido” dell’aula dell’Anno Unico. Sono un pò scomodi per vedere la proiezione ma hanno voglia di “accucciarsi”. Cercano un momento di cura, rifugiarsi un attimo nella loro infanzia. Si tratta di un viaggio regressivo ma sereno, che genera gruppo, voglia di tornare a quel momento della loro vita in cui ancora credevano nel futuro. Si accoccolano, e parte la musica..
ps: i nomi potrebbero non essere proprio quelli reali..