Educatori e insegnanti gamers, geeks, otaku, viaggiatori dell’immaginario, sognatori introversi unitevi! Le vostre competenze sono preziose, oggi più che mai
La cosiddetta cultura nerd fa riferimento ad una realtà complessa e talvolta controversa, che spesso si associa ai ragazzi meno “cool”: a volte introversi, facile bersaglio dei “fighi della scuola”, avete presente i ragazzini protagonisti di Stranger Things? In questo articolo spiegherò perchè sono convinto che, nella società dell’utilitarismo, del rumore e dell’apparire, questo universo possa portare un contributo da non sottovalutare nei nostri ambiti di lavoro, se approcciato da un prospettiva di educazione critica. Un valore ancora più importante oggi, quando questi mondi sono uno dei pochi ambiti di “resistenza” e crescita per adolescenti in condizione di ritiro sociale.
Non è una novità
Una pedagogia nerd in realtà esiste già da molto tempo, anche se forse non si è mai utilizzato un nome per riunirne riflessioni e pratiche. E’ promossa da lungimiranti educatori, insegnanti, animatori sociali (magari anche tu che leggi) che sanno cogliere il valore di crescita e di mediazione con il mondo di fumetti, serie tv, ambienti fantastici, o che nei propri contesti animativi e di cura propongono giochi di ruolo, scrittura immaginativa che apre sguardi nuovi, attività basate su originali approcci ai videogame e al mondo digitale. Dare un nome a tutto ciò non è detto che sia così importante, contribuire valore e contribuire al suo sviluppo sicuramente si. Il “Manifesto della pedagogia nerd” che segue è allora solo un gioco, il tentativo di rilanciare questa ricchezza e aprire spazi di confronto.
MANIFESTO DELLA PEDAGOGIA NERD
1- Valorizzare la produzione culturale degli universi nerd
E’ necessario valorizzare in un’ottica pedagogica la produzione culturale e alle pratiche legate ai cosiddetti universi “nerd”: romanzi fantastici (speculative fiction, fantascienza, weird…), fan fiction, anime, manga, supereroi, giochi di ruolo, videogames, quali risorse di riflessione su sé stessi e sul mondo, strumenti di apprendimento e di crescita. Sollecitare e supportare la conoscenza base di questi fenomeni culturali da parte di insegnanti, educatori e genitori, per aprire piani di comunicazione con i bambini e gli adolescenti che ne sono appassionati, e in generale arricchirsi di una risorsa preziosa per comprendere la contemporaneità.
2- Riscoprire che il gioco e l’immaginazione sono risorse fondamentali di apprendimento non solo per i bambini
E’ necessario valorizzare la pratica del gioco tra cui quello da tavolo, di ruolo, di cosplaying, di immaginazione; riscattarlo dalla convinzione comune che sia solo patrimonio dell’infanzia (mentre quasi solo lo sport sia riconosciuto come attività ludica degna di essere praticata da giovani e adulti).
3- Valorizzare gli educatori, gli insegnanti, i formatori nerd
Con il passare degli anni incontriamo sempre più educatori e formatori che in modi diversi si possono iscrivere al grande universo “nerd”. E’ fondamentale valorizzare le loro competenze in tal senso, conferire loro dignità e sostenerli nello sviluppare pratiche generative nel lavoro educativo e formativo. E’ importante inoltre valorizzare la figura di educatori riservati, introversi, in opposizione al mito, in particolare in ambito maschile, dell’ “animatore-maschio-alfa”.
4- Sviluppare la progettazione e sperimentazione di attività didattiche ispirate o focalizzate all’immaginario nerd.
E’ necessario progettare e portare in contesti di apprendimento formali e non-formali attività ispirate ai mondi fantastici, al gioco di ruolo, a tutto ciò che del vasto contesto culturale nerd può essere utile per creare attivazioni generative, senza snaturarne il valore originale.
5- L’attitudine nerd: essere introversi, riflessivi, non è un difetto ma un valore.
E’ necessario valorizzare l’attitudine, il modo di apprendere e di relazionarsi con il mondo delle persone meno estroverse; individui che possiedono spesso mondi interiori, capacità riflessive e doti immaginative particolarmente sviluppati. Dobbiamo portare alla luce la realtà che essere timidi non è un difetto, che ci sono modalità di socializzazione differenti rispetto a quelle rumorose delle feste, degli aperitivi, del ballo; che il silenzio è un valore, che la solitudine, se vissuta serenamente, non è per forza un problema (n.b.: non vogliamo qui avvallare l’equazione nerd=introverso, ma sottolineare quanto l’universo nerd rivaluti questa condizione).
6- Riscoprire il valore dell’inutile in contrasto alla società della prestazione
E’ fondamentale riscoprire l’importanza pedagogica, sociale e politica di ritagliare spazi nella propri vita dedicati ad attività che non hanno un fine utilitaristico, alla perdita di tempo. Si tratta di esperienze contro-culturali fondamentali a contrastare l’attuale società della prestazione e dell’utilitarismo.
7 Creare spazi generativi in cui sia valorizzato il potenziale contro-culturale dell’universo nerd, ridimensionandone la parte consumistica
L’universo nerd è (come, ahimè, gran parte delle sottoculture) colonizzata dal mercato (dalle grandi produzioni hollywoodiane ad ogni tipo di gadget legati a produzioni audiovisive, fumetti, libri). La Pedagogia Nerd mira a contrastare il predominio della sfera commerciale tornando invece a valorizzare le potenzialità del gioco e degli universi immaginari come strumenti di “visione” e di cambiamento sociale da sempre insiti in tali pratiche. La strada è quella di privilegiare la dimensione di autoproduzione e autorganizzazione (DIY) e di fiction speculativa (immaginazione, fantasy e fantascienza come strumento di riflessione critica sul mondo).
Attraverso un lavoro di narrazione fantastica i ragazzi riflettono su alcune problematiche legate alla dipendenza da strumenti digitali. Ciò che emerge è tutt’altro che scontato…
All’Anno Unico, durante il percorso di Pedagogia Hacker, abbiamo chiesto di ipotizzare possibili soluzioni agli effetti nocivi degli strumenti digitali. I ragazzi dovevano scrivere un racconto di fiction in cui si ipotizzassero risposte virtuose, in particolare al problema della dipendenza.
Dovevano immaginare di scrivere lo script di un film (spesso, come sappiamo, per gli adolescenti è più facile creare una narrazione chiedendogli di immaginare che sia la trama di un film o di una serie tv); le soluzioni presentate nel testo potevano essere anche fantastiche, era permesso osare senza censure.
L’idea era provare a superare l’immaginario distopico tipico di narrazioni in stile Black Mirror, volevamo sfidare l’impotenza che questi racconti suscitano permettendoci anche soluzioni assurde, e non necessariamente politicamente corrette.
Questo è il brano che il gruppo, 6 ragazzi poco “scolarizzati” ma molto intelligenti hanno creato, senza nessun suggerimento da parte dell’adulto:
Un ragazzo nella sua famiglia. È il figlio più piccolo. Si rende conto che si sente solo perché i genitori non parlano: non parlano tra di loro, non parlano con lui. Studia allora un metodo per staccare i genitori dal telefono.
Fa diversi tentativi: -prima stacca il wi-fi -poi rompe i telefoni ai genitori (glieli rompe di notte, nei pochi momenti che non li hanno in mano) -allora gli stacca la sim da telefono e gliela butta via
Questi metodi però non funzionano. Cerca allora di far sentire i genitori in colpa perché non fanno il loro dovere. Denuncia l’azienda dei telefoni, cerca delle prove che la colpa per cui i genitori non si parlano è dell’azienda dei telefoni. Chiama un amico, gli chiede come va, lui gli dice che la situazione a casa sua è simile, allora insieme decidono di creare un gruppo. Si danno un appuntamento in un posto segreto, vanno all’azienda che produce i telefoni, si presentano nell’ufficio del proprietario dell’azienda. Gli dicono: “guarda, i nostri genitori non pensano più a noi”, poi lo mandano affanculo e lo menano. Menano il signore dei telefoni.
Poi se ne vanno e fanno scattare la seconda parte del loro piano. Tolgono l’elettricità a tutta la città. La gente rimane al buio ed è costretta ad utilizzare le candele. Le persone senza luce con il passare dei giorni vanno in depressione, iniziano ad esserci diversi suicidi, la gente inizia a protestare, c’è una rivolta perché i cittadini rivogliono l’elettricità.
I ragazzi allora propongono un patto: se vi ridiamo l’elettricità tutti i telefoni devono sparire .
Spunti di riflessione
Sebbene si tratti di un testo che a molti colleghi potrebbe far storcere il naso, scritto da ragazzi piuttosto allergici alla scrittura (e alla lettura, e ai contesti scolastici..), contiene alcune intuizioni ed elementi di saggezza che è bene elencare, che in aula abbiamo in seguito approfondito insieme:
I primi responsabili di tutta questa questione non sono gli adolescenti. Il problema sono gli adulti che progettano e guadagnano sul tempo che dedichiamo allo smartphone. Molte delle piattaforme digitali che usiamo quotidianamente sono progettate per generare dipendenza, da team di ingegneri e psicologi “passati al lato oscuro”. Gli adulti inoltre, nel ruolo di utilizzatori, sono dipendenti come e forse più dei ragazzi.
Il ruolo, rimosso, dell’economia e del conflitto. La dimensione economica, il capitalismo ha un ruolo importante in questa partita, anche se la maggior parte di “media educators” evita o marginalizza la questione, “E’ colpa vostra che utilizzate male lo strumento”, fanno intendere. I ragazzi nel loro racconto invece hanno messo in evidenza qualcosa di diverso e ci ragguagliano, con linguaggio colorito, che se si desidera il cambiamento bisogna mettere in conto anche un importante livello di conflitto, che non basteranno i ravvedimenti interiori.
Sortirne insieme. La dipendenza da strumenti digitali ha una dimensione sociale e politica, non può allora essere affrontata dall’individuo da solo. Bisogna allearsi, come i ragazzi nella storia, “sortirne insieme”, come ripeteva don Milani.
Come spesso accade i ragazzi hanno detto le cose con molta semplicità, ma in modo molto efficace, elementi che la media education e in generale tutta l’educazione al digitale in generale tace o mette in secondo piano. Sta a noi saper ascoltare…
Dalla comunità hacker un modello di apprendimento curioso, divertito, personalizzato e allo stesso tempo collettivo, in cui la conoscenza è un bene comune.
C.I.R.C.E., con la definizione di Pedagogia Hacker intende evidenziare il valore pedagogico, in un’ottica di pedagogia critica, delle competenze e attitudini che caratterizzavano i primi computer club e gli hackerlab, terreno culturale in cui alcuni di noi hanno mosso i propri primi passi.
Formazione dopo formazione ci siamo resi conto di come questo tipo di approccio, critico e creativo, può essere una base utile per ripensare la formazione all’utilizzo consapevole degli strumenti digitali, e in generale per ispirare modelli didattici e di apprendimento alternativi.
Possiamo, generalizzando il concetto di hacker, pensare che un tale approccio pedagogico si fondi su alcuni elementi di base:
– Approccio curioso e problematizzante rispetto al mondo e nello specifico alla tecnologia
L’hacker
è un individuo che si pone delle domande, problematizza la realtà
intorno a sè. Quando ha individuato un problema che gli sembra
interessante inizia a lavorare per cercare di risolverlo. E’ una
persona profondamente curiosa, appassionata di tecnologia; il suo
primo desiderio di fronte ad un oggetto tecnologico è quello di
smontarlo, vedere come funziona, casa c’è dentro. Per lui nessun
artefatto è obsoleto perché sa che ogni cosa può essere
re-inventata, ri-combinata, ri-adattata ad usi anche molto lontani da
quelli per cui è stata creata.
– Apprendimento come piacere
Ciò che muove l’hacker al continuo apprendimento è il piacere stesso di apprendere. Gli hacker programmano con entusiasmo, amano affinare le loro competenze e mettere a frutto la loro intelligenza. Ogni problema diventa una sfida, un’occasione appassionante per mettersi alla prova. Il motivo primario che lo spinge ad apprendere e faticare non è la possibilità presente o futura di cospicui guadagni, è il piacere di superarsi, di creare, il divertimento di scoprire soluzioni funzionali ai problemi percorrendo strade non ancora battute.
– Apprendimento come frutto di ricerca ed esperienza personale, non inquadrabile in percorsi di studio ufficiali
La formazione degli hacker segue principalmente canali non ufficiali, è un percorso di ricerca personale che parte anzitutto dall’ hands on, il “metterci le mani sopra”.
L’hacker
sceglie autonomamente di volta in volta i propri obiettivi di
apprendimento e auto-organizza proprio tempo di lavoro-studio non
imbrigliato in un sistema di rigidi dispositivi di apprendimento e
titoli riconosciuti.
– La dimensione sociale del sapere e la conoscenza come bene comune
Ogni hacker sente il dovere di far circolare ciò che ha imparato. Considera la conoscenza un bene collettivo quindi ritiene fondamentale metterla a disposizione di tutte le persone a cui potrebbe essere utile. La conoscenza è vista come un bene che si può costruire solo collettivamente e non può essere arginata da leggi che la imbriglino.
Questi elementi evidenziano un modello pedagogico ben preciso, per molti versi lontano da quello mainstream. I percorsi di apprendimento sono personalizzati e non basati su programmi standard imposti per tutti, i titoli di studio perdono di significato. Gli hacker non apprendono per aspirazioni di alti guadagni, o per arricchire un curriculum apprezzabile nel sempre più esigente mercato del lavoro. Ciò che muove l’apprendimento è la passione e il riconoscimento da parte della comunità dell’utilità del proprio lavoro e delle proprie scoperte, il desiderio di capire come funziona il mondo per poterlo migliorare. Grande valore ha la dimensione collaborativa e dialogica di apprendimento tra pari.
Un approccio pedagogico controculturale
Si tratta quindi di una prospettiva valoriale, formativa, pedagogica, fortemente in contro-tendenza con l’istituzione scolastica e accademica attuale dove utilitarsimo, trasmissione depositaria dei saperi, programmi rigidi, appiattimento della formazione alle richieste del mercato, copyright, limitazione della dimensione critica, sono gli ingredienti frequenti.
dal mio contributo per il testo di Ippolita “Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale”, Meltemi, 2017 Qui puoi scaricare il capitolo completo
Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi, non a loro agio in attività di tipo teatrale.
Le idee in pillole: 1 – Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi e non a loro agio in attività di tipo teatrale. 2 – Proporre ai ragazzi di utilizzare i loro smartphone, con applicazioni semplici e intuitive, per creare narrazioni attraverso le quali esplorare il proprio mondo interiore 3 – Creare occasioni di espressione di sè in cui si garantisce al ragazzo la possibilità di proteggersi dall’esposizione diretta allo sguardo dell’altro, proponendo un’alternativa all’imperativo “mostrati!” della società attuale.
Riferimenti metodologici e ambiti di ispirazione: Metodologicamente i principali riferimenti si possono ritrovare – Nello storytelling digitale in una prospettiva di apprendimento esperienziale – Nello psicodramma moreniano e in particolare il lavoro con la maschera di Mario Buchbinder L’ideazione della proposta è sicuramente influenzata da pratiche quali il cosplaying, il gioco di ruolo e il LARP (Live action role-playing)
Mettersi in gioco per piccoli step
In genere quando si propone un’attività di tipo teatrale i ragazzi meno a loro agio con la corporeità, più introversi o magari con sintomi di fobia sociale, la risposta è (intuitivamente) un rifiuto. In un’ottica di “pedagogia nerd” una possibilità in questi casi può essere accompagnare a lavorare sugli obiettivi formativi che ci si è proposti (attivazione del corpo nello spazio, espressione del mondo interiore attraverso la fisicità, creazione di relazioni..), ma per piccoli step, dando loro la possibilità di rimanere protetti e mantenersi in un ambiente conosciuto e a loro congeniale (il mondo fantastico). Quello che segue è un esempio di questo tipo di attività.
Se qualche collega è incuriosito e vuole provare a proporre qualcosa di simile non si scoraggi dall’utilizzo delle maschere (materiale non facile da avere a disposizione). Un lavoro simile si può fare anche realizzandole in cartone (come si vedrà in fondo al post) oppure utilizzando altri espedienti.
La scoperta delle maschere
I tavoli dell’aula dell’Anno Unico erano coperti di tante maschere diverse. Alcune orrorifiche, altre misteriose, altre curiose, altre ancora simpatiche e rasserenanti. Ogni ragazzo era invitato a prenderne una che gli risuonasse. La consegna era “prendi la maschera che ti chiama.. fatti scegliere da lei..”. Una volta scelta la proposta era di indossarla ed eventualmente completare il travestimento utilizzando stoffe e mantelli, e aggiungendo altri gadget come bacchette magiche, campanellini, armi in legno.. A loro disposizione c’era uno specchio, o in alternativa per guardarsi potevano utilizzare i loro cellulari in modalità “selfie”.
A questo punto la richiesta era di provare a immaginare chi fosse quella maschera, quale storia avesse, quale missione nel mondo, annotando appunti su un foglio. Ho utilizzato come stimolo una scheda personaggio simile a quella di un gioco di ruolo, o di un videogioco, sottolineando che non era obbligatorio compilarla tutta.
Inventare le storie a gruppi e realizzare i frame fotografici
I ragazzi erano poi invitati a guardarsi intorno, osservare gli altri e unirsi in piccoli gruppi facendo incontrare le maschere che secondo loro avevano “qualcosa da dirsi”. Compito di ogni gruppo era inventare una storia i cui protagonisti fossero i personaggi nati dall’attivazione precedente.
La storia quindi doveva essere divisa in alcuni frames fotografici: i ragazzi mascherati dovevano mettersi in posa per rappresentare le diverse fasi della narrazione e fotografarsi utilizzando i loro cellulari.
Un editing digitale semplicissimo e dall’effetto immediato
A questo punto, utilizzando due app, Prisma e PicSay, i ragazzi avevano il compito di trasformare le foto in vignette. Prisma è un’applicazione per smarphone che permette di “fumettizzare” qualsiasi immagine. L’utilizzatore può scegliere tra opzioni di filtri diversi, alcune dalla resa grafica davvero efficace. PicSay invece permettere di aggiungere anche fumetti per dare voce ai personaggi (al momento in cui scrivo Prisma dovrebbe essere disponibile per Android e iOS mentre PicSay solo per Android, ma se ne trovano altre simili per iOS). I ragazzi hanno così editato e realizzato il proprio fumetto, spesso stupendosi della bellezza delle immagini prodotte dall’intersezione tra la tecnologia e la loro sensibilità I ragazzi che lo desideravano potevano utilizzare un’altra app, VideoShow, per creare uno slideshow di presentazione della storia, con la possibilità di aggiungere musica ed effetti sonori.
Momento riflessivo di condivisione
L’attività si è chiusa proiettando i lavori prodotti. In questa fase il mio compito di conduttore è stato quello di provare ad approfondire i contenuti, chiedendo ai ragazzi di dare un nome ai sentimenti dei personaggi, ai loro pensieri, ai motivi dei loro gesti. In un’ottica di mantenere la “copertura” non chiedo di uscire dalla metafora, di raccontare se gli autori ritrovano qualcosa di quanto raccontato nei loro vissuti personali, a meno che ciò non emerga spontaneamente. L’idea è quella di invitarli ad esplorare il proprio mondo interiore rimanendo ancora protetti dalla metafora.
Creare spazi protetti di convivialità ed espressività
Un’attività di questo genere comprende alcuni elementi tipici del teatro quali la narrazione, la relazione “incarnata” tra personaggi, il corpo come veicolo narrativo, può però essere utilizzata con adolescenti che non parteciperebbero mai ad una classica attività teatrale. In particolare ho scelto in diversi casi di proporla ragazzi che provenivano da una situazione di hikikomori (o ne erano a rischio), o che in generale vivevano disagio nell’esporsi all’altro. I 3 diversi livelli di protezione – la maschera, la mediazione della foto, la fumettizzazione – permettono loro di sentirsi sicuri e quindi facilitano il mettersi in gioco. I ragazzi si muovono, esplorano gli spazi (le foto potevano essere fatte ovunque nell’edificio, e anche nel cortile), cooperano ad un obiettivo comune, interagiscono (e non è raro sentirli ridere insieme).
I ragazzi si espongono, comunicano rimanendo in uno stato di anonimato, ciò che importa non è il nome e il volto di chi manda il messaggio ma il messaggio stesso. Il prodotto artistico è un’opera collettiva che permette a chi l’ha creata di esprimere elementi importanti di sè, pur non svelando la propria identità.
Approcciare in modo attivo le tecnologie
Le applicazioni che sono state utilizzate contengono pubblicità, acquisti “in app” e le loro funzioni sono creativamente piuttosto limitanti: l’utilizzatore, può scegliere solo tra poche opzioni operative. Sono quindi agli antipodi rispetto al software libero, direzione imprescindibile in una prospettiva di Pedagogia Hacker. Un’attività di questo permette però, a ragazzi che spesso vivono lo smartphone come oggetto di dipendenza, subendone passivamente la presenza, di cominciare ad invertire la rotta, scoprire che la tecnologia può essere utilizzata in modo attivo, creativo, può permettere loro di generare opere originali a partire dalla propria sensibilità e necessità comunicative. Inoltre l’inversione di direzione è riscontrabile anche sul fronte dell’esposizione di sè. Mentre nei social network è fondamentale promuovere il proprio volto, la propria immagine, qui al contrario la regola è tenersi nascosti. Chi manda il messaggio è un’identità collettiva, un incontro tra persone che hanno lavorato ad un obiettivo comunicativo e artistico comune che trescende le singole individualità.
Le storie
Tra le storie realizzate da i ragazzi dell’Anno Unico c’è quella che racconta di Iris, un adolescente (con poteri magici) che per punizione è stato intrappolato in una foglia che non appassiva mai. Per questo rimase per anni attaccato ad un ramo, era “diventato un silenzioso osservatore del piccolo mondo che lo circondava e trascorreva le sue giornate pensando ad un modo per liberarsi”, era “centenario ma fisicamente appariva come al giorno in cui era stato intrappolato” (cit. dal testo dell’allievo). Iris cercava di chiedere aiuto ma, per colpa dell’incantesimo, era diventato afono, non emetteva alcun suono Un giorno però Iris incontrò Peggy, un ragazzo molto solo, che aveva il dono di un udito finissimo. Peggy fu l’unico a riuscire a sentire le grida di aiuto di Iris, lo trovò, salì sull’albero e lo liberò. Dal quel momento naque una bellissima amicizia.
E’ facile uscire di metafora e riconoscere nel vissuto di Iris quello di tanti adolescenti che abbiamo incontrato. Ritengo inoltre che abbia una grande carica poetica, esaltata dalla realizzazione per immagini che pubblico di seguito:
Nella seconda storia che vorrei presentare i contenuti sono invece meno rassicuranti, come accade spesso quando i ragazzi sono liberi di inventare senza l’intromissione dell’adulto. Ad una prima lettura potrà sembrare una storiella banale, ma anche qui possiamo trovare temi che caratterizzano il vissuto degli adolescenti: la fiducia, il tradimento di una persona cara, la rabbia.
La catarsi
Un lavoro di questo genere può attivare un processo di catarsi: il ragazzo, mettendo in scena l’assassinio di colui che lo ha tradito, “scarica” le tensioni negative, prendendo distanza dall’evento traumatico e provando una sensazione di liberazione; la vendetta viene agita nel mondo della rappresentazione scenica (senza conseguenze per la vittima!) ma permettendo al protagonista di esternare e dare forma alla propria sofferenza e rabbia. L’opportunità, in una fase successiva, di riguardare e commentare il prodotto finito (assistendo alla proiezione della storia realizzata) favorisce ulteriormente la rielaborazione dei vissuti. Si tratta di un processo che ha affinità con l’effetto di “purificazione dalle passioni” che Aristotele attribuiva alla tragedia greca e, in tempi più recenti, che Moreno indica come elemento importante della terapia psicodrammatica. Ragazzi che sono stati vittima di bullismo o di abbandono hanno potuto rientrare in contatto con il proprio vissuto negativo generando il bello, prendendosi cura di sè e avviando piccole (o grandi) trasformazioni.
La sfida di proporre la stessa attività ad un gruppo di ragazzi più “street”…
Ho provato a proporre questo tipo di lavoro anche alla Crew, il gruppo dell’Anno Unico più “street”, insofferenti ai setting maggiormente strutturati, spesso provenienti da contesti familiari e sociali difficili. I ragazzi si sono divertiti molto, hanno giocato con le maschere, ne hanno provate diverse a testa ma si è creato un clima di confusione tale che i gruppi (un quartetto e due coppie) non sono riusciti a creare alcuna storia. Sono nate alcune belle immagini, che posto qui sotto, tutte molto violente ed evocative, ma anche quando le abbiamo riviste insieme non siamo riusciti a parlarne, i ragazzi erano distratti, le voci si accavallavano, quando qualcuno provava ad intervenire con argomenti pertinenti gli altri lo interrompevano con battute. In quel momento mi sono fatto molte domande: avrei dovuto dare un consegna differente? Non avrei dovuto proporre questo lavoro ad un gruppo di ragazzi con queste caratteristiche?
Lo spettro
Ad un certo punto però qualcosa succede… proiettata sul muro compare l’immagine qui sotto. Non mi ricordavo nemmeno di averla scattata io quella foto. Era un ritratto di gruppo che alcuni ragazzi mi avevano chiesto per ricordare quel momento:
Luca per primo notò la persona sulla destra, separata dagli altri. Aveva una maschera a specchio, un volto spettrale senza occhi, naso, bocca, solo il riflesso del mondo circostante Luca si chiese ad alta voce chi fosse quello spettro, come fosse finito lì. Da quella domanda semplice il clima (magicamente..) cambiò: Hedi, acuto tirocinante, allargò al gruppo la domanda del compagno, invitando ognuno a proporre la propria teoria. I ragazzi si ascoltavano reciprocamente e rispettavano i turni di parola: “E’ uno spettro solitario”. “E’ triste, non ha amici, è venuto a ricordare che la felicità un giorno finirà”, “E’ una persona che è stata esclusa dal gruppo”… In poco tempo in quell’aula si sono materializzate e condivise alcune tra le paure più forti di questi ragazzi, paure “spettrali” in quanto indicibili, su cui si è potuto aprire un breve ma interessante e intenso spiraglio di riflessione. Ritengo che questo quarto d’ora abbia dato senso all’intera attività, un piccolo fiore nel caos che in seguito, in sede di colloqui individuali, avrò modo di riprendere in modo più approfondito e generativo con alcuni dei ragazzi presenti.
Autoprodurre le maschere. Il lavoro con un gruppo di ragazzi disabili
Quelle che seguono sono alcune immagini in cui le maschere sono state costruite con il cartone, a testimonianza che non è vincolante possedere un propria collezione. Il lavoro è stato fatto da una collega con un gruppo di ragazzi disabili, all’interno di una lezione di inglese.
Sperimentazione al corso di formazione formatori “Alieni”
Durante il percorso Alieni, strumenti e metodi per il lavoro con i nuovi adolescenti nel seminario dedicato alla cultura nerd e ai ragazzi più isolati, spesso è capitato di proporre questo tipo di attività ai partecipanti (educatori, psicologi, formatori), che si sono sempre prodigati creando immagini e storie molto interessanti.. Ecco qualche loro immagine per concludere. Questo seminario si svolge all’UESM Casa dei Giochi di Milano, patria nerd di ogni età. Le ultime due foto sono scattate nel suggestivo dungeon per LARP ad imbientazione dracula che si trova sotto l’edificio..
Dal canale di Hikikomori Italia una video-intervista per raccontare il lavoro all’Anno Unico con ragazzi che hanno alle spalle un vissuto di fobia sociale/scolare
Marco Crepaldi, fondatore di Hikikomori Italia mi ha invitato nel suo canale Youtube per raccontare dell’esperienza dell’Anno Unico, e in particolare del nostro lavoro con ragazzi che hanno vissuto situazione di hikikomori, e più in generale ragazzi con problematiche legate alla fobia sociale e scolare.
I ragazzi riflettono sulla società in cui l’imperativo è “devi divertirti!”
Stavamo lavorando in aula all’Anno Unico. Si parlava libertà, aspettative, imposizioni sociali. Propongo ai ragazzi un video che avevo da poco scoperto, intitolato “this is a generic millenium ad” (che da allora riproporrò spesso in aula, anche nelle formazioni con insegnanti e formatori). Lo scopo di chi l’ha prodotto è quello di raffigurare – attraverso un lavoro di cut-up di altri video – l’immagine stereotipata che le pubblicità mostrano dei giovani. Un’opera che dipinge in modo didascalico la pressione a cui le nuove generazione sono di continuo esposte: bisogna essere sempre allegri, avere mille amici, partecipare agli eventi giusti, mostrarsi originali e di successo tra i pari. Il video è molto evocativo, se utilizzato in maniera esperienziale, attenti alle risonanze che suscita, può aprire spiragli di consapevolezza interessanti.
“Tu sei unico. Tu sei differente. Tu sei speciale. Noi lo sappiamo. Noi capiamo tutto di te. In particolare il linguaggio che usi quando sei online. Come T.O.T.S. B.R.B. e “Join the conversation”. l’hai detto, vero? Il fatto è che sei libero. Libero dalle parole con le vocali!. Libero dai limiti del colore naturale dei capelli.. I tuoi capelli sono completamente rosa. Tu balli tutto il tempo. In strada. Nella tua camera. E sicuramente con il tuo eclettico gruppo di amici. Wow Ephram suona l’ukulele! Chi se lo aspettava? Questo è il modo in cui i millennials si comportano… “
Al termine della proiezione chiedo ai ragazzi se c’è qualcosa nel video che li ha colpiti, cosa hanno pensato o sentito dentro di loro mentre lo guardavano. Dopo un primo momento di silenzio gli interventi che si susseguono sono molti. Il vissuto di fondo è un mix tra lo sturpore di fronte alla rivelazione di qualcosa di assolutamente nuovo e l’esclamazione “è ovvio che è così“! Il fatto che si possa tematizzare qualcosa che ogni adolescente sa ma che difficilmente viene detto pubblicamente li colpisce. Dicono “è vero, è così..”, “Devi sempre divertirti.. uscire.. magari non hai voglia però non puoi.. sei uno sfigato se non esci..”, “devi farti vedere..”, “devi far vedere che hai tanti amici..”, “magari tu vuoi stare da solo ma non puoi..”
Il disegno di felipe
Mentre proseguiva la condivisione Felipe, che di solito si coinvolgeva molto in questo tipo di riflessioni, non parlava, era molto impegnato a disegnare. Ad un certo punto mi porge il disegno. Mi dice “Ecco, questo è quello che succede!”. Il disegno rappresenta un ragazzo con in testa un casco. Questo casco è uno “smile”, l’emoji che rappresenta un volto sorridente. Nel foro della bocca spalancata si intravede il suo volto reale, che invece è triste, affranto. Sulla sua maglietta c’è un segnale di divieto con all’interno un viso triste: “vietato non sorridere”. Alle sue spalle una città in macerie.
Chiedo a Felipe se ha voglia di mostrare e raccontare a tutti il disegno. “Questo rappresenta come mi sento” dice ai compagni “questa società ti obbliga a farti vedere in un certo modo, soffoca delle parti di te”. Gli chiedo cosa rappresentano le macerie dietro al personaggio “sono i problemi di tutti i giorni, che sono tanti, ognuno ha i suoi, le tensioni con i genitori, la scuola, trovare lavoro.., e poi sono il nostro passato, le storie, le sconfitte..”. Dice che non sono cose di cui parli tanto, te le tieni dentro, i genitori o li ingigantiscono o li sminuiscono, allora alla fine non ti rivolgi più a loro, con gli amici in compagnia non se ne parla, ci si diverte, bisogna essere sempre presi bene. Magari c’è qualche amico con cui ne parli ma solo con pochi.
Christopher si inserisce: “…devi fare un pò il coglione. quando sei fuori, devi far ridere gli altri.. fumare.. non è che puoi parlare dei tuoi problemi.. “
La chat come luogo sicuro dove essere se stessi
Chiedo a Christopher se ci sono dei momenti in cui invece riesce davvero a parlare dei suoi problemi. Lui risponde: “in chat!“ Io sono sinceramente sorpreso “in chat?!” .. “si in chat, nella chat dei videogiochi on line” (Christopher è un gamer “duro”) “Io ho cosciuto in chat delle persone con le quali parlo dei miei problemi, gli racconto le mie storie e loro le loro..”
E perchè questo non succede con gli amici che vedi tutti i giorni? Perchè in chat non li vedi. Non ti vedi in faccia. E non ti giudicano. Puoi parlare tranquillo.
Porto a casa questa scoperta. La chat, il luogo che per tanti adulti è un luogo negativo, dove con le persone si intessono solo rapporti superficiali, se non pericolosi, è invece per molti ragazzi uno spazio “safe”, al riparo del richiamo alla prestazione, all’essere sempre brillanti e goliardici, come invece richiede il rituale pubblico delle compagnie di adolescenti.
Un rito di chiusura: mostriamo le macerie
La lezione volge al termine e decido di proporre un piccolo rito di chiusura di questa attività, convinto che questi temi avremo dovuto sicuramente riprenderli.
Dico che la nostra missione è contrastare questa spinta della società a volerci sempre brillanti e performanti, far si che anche la parte oscura, le macerie, abbiano la possibilità di mostrarsi.
Utilizzando la lavagna come sfondo di proiezione e il proiettore ancora acceso, fermo a mostrare uno degli ultimi fotogrammi del video, chiedo se qualcono di loro voleva alzarsi e disegnare con il pennarello delle macerie, come sfondo agli attori felici ritratti nel video, come primo atto “psicomagico” per sancire i nostri intenti. Nel minuto seguente compaiono come “quinte” della rappresentazione in video case diroccate che richiamano il disegno di Felipe.
Guardiamo insieme il risultato, skippando anche tra i fotogrammi, Sorridiamo per le immagini che si creano. Ora le macerie sono presenti, le vediamo e forse insieme possiamo cominciare ad affrontarle insieme.
Ringrazio i ragazzi, dico che le loro riflessioni sono state molto interessanti per me, che spero che l’Anno Unico sia anche questo, un posto che possa anche accogliere la parte non luminosa di noi, in cui non ci sia l’obbligo per nessuno di mostrare felicità forzata. Li saluto, si alzano, “bella!..”, a domani..
Utilizzare youtube con gruppi di adolescenti come strumento di apprendimento riflessivo
L’idea in pillole: Si chiede ai ragazzi di indicare titoli di video che loro ritengono particolarmente significativi. In seguito si guardano insieme. Il conduttore, attraverso specifiche domande e sollecitazioni, aiuta il singolo e il gruppo a fare i “movimenti dell’apprendimento esperienziale“, costruendo apprendimenti riflessivi.
La consegna
Entro in aula. Dopo una mezzoretta di aggiornamentochiedo ai ragazzi di scrivere su un bigliettino il titolo di un video reperibile on line che reputassero significativo. Un video che raccontasse qualcosa di loro o in generale dell’essere adolescenti oggi, del mondo che abitano. Chiedo che, al di là delle parole, fossero le immagini l’elemento comunicativo centrale. Potreva essere un video musicale, una pubblicità, il trailer di un film..
I ragazzi si mettono a scrivere subito, quasi senza rifletterci, pare che nessuno avesse difficoltà a trovare il titolo, qualcuno anzi mi chiede: “posso scriverne 2? 3?”. Io rispondo che va bene, ma cercando di metterli in ordine per importanza, in modo che uno, anche per pochissimo, la spunti sugli altri.
IL FIORELLINO DENTRO
Ritirati i bigliettini ci spostiamo nello spazio allestito per la proiezione. Vedremo i video uno a uno. Chiedo se qualcuno di loro vuole proporre il proprio per primo.
Si offre Diego. Subito ci tiene a precisare che non si tratta di un vero e proprio video, ma è solo una canzone accompagnata da un’immagine statica di una una ragazza “manga”.
Ok, anche se non era esattamente quello che avevo chiesto. Cerco il video su youtube e clicco play. La ragazza dell’immagine è molto bella, stesa che guarda il soffitto. La canzone ha una melodia triste. Diego dice che è una canzone “depressiva”. Il testo è in inglese, scorre in un angolo dello schermo, proviamo a tradurlo insieme ma lui ci dice che non sono importanti le parole. Lui ascolta questo pezzo quando pensa alla sua ragazza che vive in Svizzera, che può vedere solo nei mesi estivi. Ci racconta che lei è così come l’immagine del video, così bella. Gli occhi di Diego si fanno lucidi. Gli chiedo se vuole dare un nuovo titolo a questo pezzo, a partire dalle cose che ci ha detto, lui risponde senza pensarci troppo: “vorrei che tu fossi qui”. Alejandro, che fino a quel momento era sembrato distratto, vede Diego commosso ed esclama ad un tratto: “dentro di lui c’è un fiorellino”.
Io dico che forse c’è un fiorellino dentro ognuno di loro, e di noi. Solo che qualcuno lo tiene ben nascosto, lo ha messo in un’armatura perché è molto delicato.
Propongo di affiancare al titolo dato da Diego anche “Il fiorellino dentro”.
Alcuni annuiscono.
LACRIME
Il secondo a proporsi è Marco, ci dice che non vorrebbe condividere un video ma una canzone. Che la cosa importante è il testo (figuriamoci se ce ne è uno che segue la consegna!) È un pezzo hip-hop di Luchè. Se la cosa importante è il testo allora ho bisogno del testo: attraverso google lo recupero velocemente, lo copio su un foglio word e lo proietto, ingrandendolo il più possibile in modo che tutti lo potessero leggere.
Parte il pezzo, lo ascoltiamo mentre io faccio scorrere le parole. Al termine dell’ascolto chiedo a Marco di individuare il passaggio nel testo che gli risuona maggiormente. Lui indica questi versi:
Quando avevo
bisogno di lei
Mi trovai con un coltello nella schiena
E un
addio scritto a penna
E mo’ non credo più nell’amore
io lo evidenzio in neretto nel testo proiettato.
Marco racconta che gli ricorda una storia d’amore finita male. Che c’era questa ragazza che si era presa gioco di lui, lo aveva lasciato più volte e poi era sempre tornata chiedendogli di rimettersi insieme. Lui ci era sempre ricascato, finché un giorno ha trovato la forza per parlarle chiaro, dicendole quello che pensava, che non voleva essere più trattato in quel modo. Chiedo a Marco se quella vicenda gli ha portato qualche insegnamento. Lui risponde che ha capito che è meglio parlare chiaro e il prima possibile anche se abbiamo paura, che il silenzio a volte è un buon alleato ma non sempre.
Dopo un momento di silenzio Marco riprende la parola, vuole aggiungere un’altra riflessione: “anche a me è capitato in un modo simile di prendermi gioco di alcune persone, questa cosa mi fa pensare..”
Gli chiedo se c’è un altro passaggio del testo che vorrebbe sottolineare. Lui ci indica questo:
So che non è facile Credere ai miei occhi quando sono fragile Guardare attraverso le mie lacrime
La parola lacrime tocca molti del gruppo, avevamo appena intravisto quelle di Diego. Sembra che emerga ancora più forte quella sensazione di vulnerabilità, quel fiorellino interiore protetto dietro i loro fisici e atteggiamenti che paiono inattaccabili. La cosa forse più importante educativamente e che ci si inizia ad accorgere che siamo in un gruppo in cui anche le vulnerabilità possono emergere ed essere accolte. Non una cosa da poco.
SI NASCE E SI MUORE, CI SI INCONTRA E CI SI LASCIA
Il video seguente è di Paolo. Ci propone Daniele Marino, cantante neo-melodico che non conoscevo, ma a quanto mi raccontano i ragazzi molto famoso.
Il video comincia con un incidente d’auto. Due fratelli camminano sul marciapiede, quello più grande è distratto dal telefono e attraversa la strada mano nella mano con quello più piccolo. In quel momento passa un’automobile e quest’ultimo viene colpito e buttato a terra sulla strada.
A questo punto il video comincia un surreale botta e risposta tra il cantante e il bambino steso sull’asfalto, il primo che chiede perdono e si dispera, il secondo che riflette sull’ineluttabilità del destino. Durante questo dialogo i protagonisti ripercorrono tutta la loro vita, e si scopre che anche la loro mamma è scomparsa prematuramente. Sebbene il video, ai miei occhi, rasenti il ridicolo, la tensione emotiva nel gruppo è molto alta. Ad un certo punto decido di fermarlo perché i ragazzi sembrano non riuscire più a reggerlo, e perchè so che per un di loro la ferita per la morte del padre è profonda e ancora aperta. Quando si lavora coinvolgendo i vissuti personali uno dei compiti più difficili del formatore è quello di mantenere una temperatura emotiva sufficiente per dare intensità e profondità al lavoro, ma non oltre quella che il gruppo può reggere e gestire.
Paolo racconta che questo video gli fa pensare al suo fratello in Ukraina, che non ha mai più visto da quando è stato adottato e ha lasciato quel paese. Sentendo quelle parole Samuele e Diego in contemporanea dicono “Anch’io sono ukraino!”. Era il secondo giorno di Paolo all’Anno Unico, questa “carrambata” ha generato subito un legame, o quantomeno un ponte importante.
Dopo aver nominato suo fratello il volto di Paolo si era coperto di un velo di tristezza, durato finché all’improvviso non si ricompone e dice: però mi sta per nascere un nipotino, il figlio di mia sorella, e sono felice!
Si avvia allora tra i ragazzi un discorso sulla vita, sul fatto, ovvio ma forse impossibile da realizzare nella sua enormità che nella vita si nasce e si muore, ci si incontra e ci si lascia. Io penso a quanto sia importante lavorare su questi argomenti oggi, in un mondo in cui la cultura dominante nasconde il dolore (o lo trasforma solo in pornografia emotiva) e nega il limite e la fine.
PERDONAME MADRE POR MI VIDA LOCA
Ora tocca al video di Deborah. Ci propone la canzone di un rapper russo, Kalin Ryse Nikolov; il pezzo si intitola Mama I’m a criminal. Il video è molto violento, utilizza le prime immagini del film Batman il cavaliere oscuro in cui un gruppo di malviventi vestiti da clown rapinano una banca, uccidendosi a vicenda uno alla volta. Mi chiedo cosa ci voglia comunicare con delle immagini così forti e come potrò lavorare su questo video.
Ho imparato che in queste situazioni la cosa migliore da fare è evitare elucubrazioni e chiedere direttamente al ragazzo la strada da percorrere con lui. Il video è un oggetto mediatore tra di noi (e tra il ragazzo e se stesso), è importante quindi capire quale aspetto del video risuona in lui, quello che ci vuole comunicare attraverso quell’opera. Il rischio è che noi formatori coinvolgiamo i ragazzi nell’indagine di aspetti che colpiscono noi, andando completamente fuori strada rispetto le risonanze dell’adolescente. A volte i ragazzi ci portano un video o un opera d’arte perchè entrano in contatto con piccoli particolari che a noi possono sfuggire o sembrare secondari. Rimanendo in ascolto attento e mettendo da parte il nostro ego da quei piccoli spiragli possono nascere riflessioni importanti.
Mi rivolgo quindi a Deborah: “Quali tra queste immagini ti risuonano di più Debby? perché?”. Lei mi risponde, spiazzandomi, che non gli interessano le immagini, che lei quella canzone di solito la ascolta in cuffia mentre cammina per la città: non le importa il video e nemmeno il testo (che non capisce). Vuole porre l’attenzione solo sul titolo.
Sbang!! Se avessi iniziato a proporre stimoli sull’analisi delle immagini avrei sbagliato completamente!
Deborah è lapidaria “questo titolo evidenzia la difficoltà di dire le cose di cui ci vergogniamo alle persone a cui vogliamo bene”. Si vede che non ha voglia di approfondire troppo, però è bastata questa frase per far passare una scarica emotiva e di rispecchiamento in tutto il gruppo. Lo si vede da come per un istante sono cambiate le espressioni. La delusione e la paura di deludere sono alcuni tra i sentimenti più presenti all’Anno Unico: la delusione dei famigliari per il fallimento scolastico, per alcuni anche i guai con la legge in cui si sono cacciati.
Alejandro, che viene dall’Ecuador, ci racconta che i carcerati appartenenti alle gang si facevano tatuare sulla palpebre la scritta “perdoname madre por mi vida loca”. La ragione per cui o scrivevano proprio sulle palpebre era perché così gli altri, in particolare la propria madre, lo avrebbero visto solo quando sarebbero morti.
Alejandro sottilinea la dimensione della vergogna che vivono queste persone nei confronti di chi amano di più. I ragazzi non esplicitano i motivi, per ognuno diversi, della loro vergogna, ma con breve frasi o cenni del corpo si mostrano coinvolti e partecipi al tema che risuona di volto in volto.
SUPER SAYAN
E’ il momento di andare verso una chiusura, ci sono altri video da vedere ma vanno rinviati alla volta successiva. Il lavoro è stato intenso. Faccio spontaneamente i complimenti ai ragazzi, per la loro profondità, per i discorsi importanti che avevamo fatto. Ci sentivamo tutti appesantiti. Io avrei proposto un giro di sharing ma non mi sembrava ci fosse la predispozione adatta. Qualcuno dice: Perchè per rilassarci un po’ non ci guardiamo Dragon Ball? In risposta arriva un coro di “si dai!” “ci sta!”. Io dico ok, senza pesarci troppo, abbiamo tutti bisogno di un momento di decompressione. Chiedo loro quale stralcio di Dragon Ball vorrebbero vedere. Sono tutti d’accordo, chiedono quando per la prima volta Goku si trasforma in Super Sayan.
Lo vediamo insieme. “Mi vengono i brividi!” esclamano tanti durante la proiezione (anche un giovane collega, entrato nel frattempo in aula). Raccontano che gli veniva in mente quando quella scena l’avevano vista per la prima volta da bambini “Il mio più grande desiderio era diventare dei Super Sayan!” dice uno. Qualcuno dice che si chiudeva in bagno e urlava come Goku per trasformarsi. Ma non succedeva niente. Altri rispondono “anch’io!”.
Mi è subito venuto alla mente quando da bambino io sognavo di trasformarmi in Hurricane Polimar un eroe delle anime dei primi anni ottanta.
Interviene Corrado, con tono di voce serio: “…è che ad un certo punto ti accorgi che non puoi trasformarti. Diventi grande e capisci che non puoi essere un Super Sayan. Capisci che nella vita devi sbrigartela da solo..”
Penso che la prossima volta mi piacerebbe ripartire da qui, mi stupisce quante cose importanti emergono semplicemente dandogli gli strumenti per raccontarsi e riflettere.
IO CREDO IN ME
Le tre ore di aula stanno per terminare. I ragazzi chiedono se come conclusione della giornata potevano vedere insieme la sigla di Naruto (ormai siamo entrati nel mood “gli anime che mi hanno aiutato a crescere”..). Io non l’avevo mai vista, anche se della lunga serie di questo cartone animato ho visto buona parte. Il titolo è didascalico, pura pedagogia nerd: “io credo in me”.
I ragazzi vanno a sdraiarsi nell’ “angolo morbido” dell’aula dell’Anno Unico. Sono un pò scomodi per vedere la proiezione ma hanno voglia di “accucciarsi”. Cercano un momento di cura, rifugiarsi un attimo nella loro infanzia. Si tratta di un viaggio regressivo ma sereno, che genera gruppo, voglia di tornare a quel momento della loro vita in cui ancora credevano nel futuro. Si accoccolano, e parte la musica..
ps: i nomi potrebbero non essere proprio quelli reali..
Si può giocare con la prospettiva di assenza di futuro che pervade i più giovani (e non solo)? Quando la catastrofe arriverà i nostri adolescenti “sdraiati” rimarranno sul divano? Storia di una contro-esperienza educativa
Le tende erano piantate nel frutteto della cascina Santa Brera, a San Giuliano Milanese. La proposta era quella di vivere un’esperienza di vita comunitaria in cui i ragazzi avessero la possibilità di cucinare insieme, sperimentarsi in laboratori di trasformazione come la falegnameria o la sartoria, dialogare con la natura. La sfida più grande era però trascorrere quattro giorni il più lontano possibile da qualunque tipo di attività commerciale, senza possibilità di fare acquisti (almeno in negozi fisici), in un momento storico in cui il mercato ha completamente saturato la vita delle persone.
Per ragazzi abituati ad una vita comoda e a genitori molto attenti ai bisogni e capricci dei propri “cuccioli d’oro” si trattava di un contesto molto sfidante. A spingere la prova ad un livello ancora più alto c’era il fatto che nel periodo in cui si tiene la settimana alternativa, i primi giorni di maggio, spesso piove: la cascina diventa un mondo di fango e umidità, e molte attività diventano davvero una sfida epica.
GIOCHIAMO L’ASSENZA DI FUTURO E LA CATASTROFE
Ogni anno proponiamo uno sfondo integrativo, un tema, un’ambientazione fantastica differente che avvolge l’intera esperienza. Questa volta si è deciso di sfruttare per la nostra narrazione proprio la sventura climatica, che dalle previsioni si prospettava più infausta del solito.
Abbiamo detto ai ragazzi che le difficoltà erano volute e programmate, che noi eravamo in contatto con un deus ex-machina che provocava gli eventi climatici infausti (e altre difficoltà assortite) a comando. La ragione era che l’apocalisse era alle porte, e che quello a cui sarebbero stati sottoposti era un training per formare un gruppo di giovani in grado di sopravvivere a tale catastrofico evento. Questo era necessario perchè le eccessive cure dei genitori contemporanei avevano cresciuto generazioni forse incapaci di affrontare situazioni estreme come quella che si prospettava.
L’ispirazione è venuta dal libro di Margaret Killjoy “Guida steampunk all’apocalisse” (AgenziaX, 2008) un vero e proprio manuale in cui si spiega con ironia (ma non troppo) perché il mondo potrebbe finire a breve e cosa si potrebbe fare per sopravvivere al cataclisma. In modo molto pratico il libro racconta come costruire rifugi di emergenza in scuole abbandonate, recuperare acqua potabile quando ogni fonte sembra contaminata, oppure riutilizzare in molteplici modi resti di automobili.
Anche noi in cascina abbiamo analizzato con loro tutti i motivi per cui il mondo come lo conosciamo potrebbe collassare da un momento all’altro, gli studenti non hanno fatto fatica a produrre un lungo elenco: la guerra nucleare, lo scontro tra civiltà, ma sicuramente il surriscaldamento globale era al primo posto.
Si è così avviato un gioco durato tutti i giorni del campeggio, in cui si è messa in scena la mancanza di futuro, ritratta in modo estremo, come in molti film e serie tv di genere distopico che i ragazzi conoscono bene, proponendo loro di abitare questo spazio e r-esistere, continuare a giocare e vivere pienamente anche nella catastrofe. Si è creato un ambiente ludico in cui teatralizzare lo sconforto per provare ad affrontarlo con occhi nuovi.
Il riferimento può essere sicuramente ad Enrico Euli, e il suo originale approccio alla “pedagogia delle catastorfi” (Casca il mondo, La Meridiana, 2007), in cui la tesi di fondo è che in un mondo in cui la paura, l’ansia della fine fanno da sfondo, e ci sono realistici indizi che la terra sia sotto minaccia, il lavoro educativo deve anzitutto formare a relazionarsi con questa situazione, non rimuoverla ma imparare a reggerne lo sguardo
Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un ossimoro: come possiamo conciliare l’ideale educativo con la distruzione e la morte che ci devasta? Eppure, a mio parere, divenire oggi consapevoli della catastrofe in corso, costruire assieme agli altri la capacità di “reggerne lo sguardo”, di ammetterla e riconoscerla, di esprimerla e elaborarla in qualche modo condiviso, è l’unica “missione” degna di dare un senso attuale e profondo all’educazione e alla formazione. (ivi p. 60)
La prospettiva di Euli non è però
mortifera, ma foriera di vita
Pedagogia delle catastrofi (o della non conoscenza): possiamo imparare a vivere la catastrofe non come una condanna, ma – giocosamente – proprio come una liberazione, con quell’intenso e profumato desiderio di liberarsi della libertà che inizio a sentire da tempo in me, e in altri.. (ivi, p. 191)
RESISTERE QUANDO NON C’E’ NULLA DA PERDERE, E ANCHE DIVERTIRSI
Quello che è successo durante i quattro giorni ha stupito anche noi. Il gruppo (sì, gli stessi adolescenti “sdraiati”, sempre attaccati al cellulare..) hanno accettato la sfida con un entusiasmo impensabile a priori. Quando alcune tende hanno iniziato a cedere – e abbiamo proposto noi ai ragazzi di dormire nella stanza che avevamo a disposizione nel fabbricato della cascina – sono stati loro a dire di no, hanno cercato di ripararle nel modo migliore possibile, e non si sono spaventati quando un esercito di formiche ha tentato di conquistare una tenda. Nel laboratorio di falegnameria hanno costruito armi per difendersi dai predatori e amuleti magici per scacciare la cattiva sorte, hanno prodotto vestiti riadattando gli “scarti” del precedente mondo consumistico in qualcosa di originale e stiloso, cucinato risotto con le erbe colte direttamente nel bosco e focacce cotte nel forno a legna, perché probabilmente i supermercati la fuori non avrebbero retto il cataclisma, e perché parafrasando una celebre detto “l’apocalisse non è un pranzo di gala”, ma forse ci si può trattare “da signori” comunque.
Questa grande mobilitazione dei ragazzi non è avvenuta per fini utilitaristici, non si è fatta nessuna operazione di gamificazione: non c’erano “punti” da spendersi a scuola una volta tornati (se fossero tornati..). Il coinvolgimento è avvenuto semplicemente per la bellezza dello sfidare se stessi, perché non c’era niente da perdere, perché le difficoltà erano accettate a priori e non restava che danzarci sopra. Peril divertimento di un’esperienza-limite vissuta insieme, in una follia (consapevole) collettiva di cui i formatori erano i primi complici.
E’ stato l’attraversamento di uno spazio liminale (Turner, 1986), di
una sfida che trasforma, come un rito di passaggio tribale.
L’esperienza si è conclusa con una cerimonia notturna. Abbiamo accompagnato i ragazzi nel bosco dove sono stati accolti da una sfera colorata di luce che illuminava gli alberi producendo un effetto psichedelico e una musica evocativa di sottofondo (le casse usb e mille gadgetlow-cost hanno risolto tanti problemi e aperto molte possibilità per effetti speciali D.I.Y.). I ragazzi sono stati chiamati uno ad uno e gli è stato conferito il titolo di “Survivor dell’apocalisse”. Per ognuno, prima dell’assegnazione del titolo, con una grande spada in legno autocostruita posata sul capo, sono state citate le “evidenze” del loro valore. Prendendo spunto da ciò che avevano riportato sui loro diari e condiviso in gruppo, sono stati ricordati i momenti in cui avevano esposto un’idea creativa per superare un problema, affrontato un timore, portato serenità e bellezza nel gruppo, agito oltre lo stereotipo di sé che generalmente vestivano.
Quello che stupiva era che al posto di bambini, a cui spesso si propone questo tipo di attività, c’erano ragazzi del cfp, tutti lì che stavano al gioco, tra il divertito e l’incredulo, riconoscendo, nella surrealtà del momento, l’autenticità delle parole che venivano proclamate, che segnavano il loro valore e la loro reale trasformazione in atto.
FUGHE, CONTRO-ESPERIENZE, ALLUCINAZIONI COLLETTIVE CHE GENERANO TRASFORMAZIONI
Quella appena raccontata è un’esperienza di fuga creativa; credo che oggi nel mondo educativo e nella scuola il concetto e la pratica della fuga vadano ampiamente rivalutati. E’ il movimento del sottrarsi (Le Breton 2016), prendere le distanze da una situazione satura, cristallizzata, orfana di visioni. A questa però si può aggiungere la dimensione immaginativa, attraverso la quale il sottrarsi agli stereotipi e alle ineluttabilità della quotidianità può portare alla generazione di universi e percorsi di crescita e di socialità nuovi.
Si tratta di uscire dalla quotidianità della realtà scolastica (e di vita in generale) e abitare luoghi altri, in cui le relazioni, i compiti, i panorami, i riti sociali sono diversi. Mi piace chiamare questi contesti “contro-esperienze”, spazi immersivi di alterazione e sovversione del percepire il mondo, non solo cognitivamente ma attraverso tutti i sensi. In queste situazioni l’apertura al fantastico è un valore aggiunto che catalizza la dinamica trasformativa dando la licenza di osare, di vedere qualcosa che non c’è ancora o che è nascosto, e di farlo nel piacere del gioco.
Ci siamo rifugiati in un bosco, in una cascina, sottratti dallo sguardo e dal giudizio del mondo fuori per creare delle nuove micro-comunità, Zone Temporaneamente Autonome (Bey, 1993) per sperimentare nuove possibilità, lontani dagli occhi indiscreti di chi dice “non si può!”.
TEMATIZZARE L’INELUTTABILITA’ DELLA SCONFITTA APRE AL GIOCO E ALLA VITA
L’espediente immaginativo di dire “non c’è futuro”, “la situazione è tragica”, “è praticamente impossibile sopravvivere” invece che portare scoraggiamento ha aperto a nuove possibilità di sentirsi vivi, di esserci, ha dato il via alla dimensione del gioco, dell’immaginazione poietica.
Si tratta di un’ “allucinazione collettiva”, condivisa e consapevole, in cui il mondo è stato sovvertito per un periodo circoscritto di tempo. Ma quando ne siamo usciti ci siamo accorti che non eravamo gli stessi, non solo gli adolescenti, ma neanche noi formatori.
Gli alunni coinvolti in queste esperienze sono tornati alla quotidianità sentendosi, in forme e modi diversi, cambiati, percependo che “qualcosa è successo”. Sono cresciuti nell’autonomia, nella responsabilità, hanno sviluppato apprendimenti tecnici, hanno soprattutto maggiore fiducia e serenità anche nell’abitare ciò che non controllano. Hanno stretto e approfondito legami interpersonali con i pari e i formatori in quel modo speciale che avviene solo tra chi è stato compagno di un viaggio intenso, un po’ magico e difficile da raccontare a chi non c’era.
Hanno sperimentato che esistono alternative, che esiste un modo di relazionarsi, di porsi, di sentire e sentirsi differente da quello quotidiano, che non tutto è ineluttabile, che forse si può ancora scegliere a che gioco giocare (basta essere certi di non avere più speranze)
Questo articolo è un estratto re-editato del mio saggio “Adolescenti tra notti, boschi, fate e catastrofi. Esperienze scolastiche ai confini della realtà” contenuto in “Una scuola possibile. Studi ed esperienze intorno al Manifesto «Una scuola»” a cura di F.Antonacci e M.Guerra (Francoangeli 2018)
Qualche tempo fa ho scritto un articolo per Animazione Sociale (lo trovate qui) in cui raccontavo come le discipline artistiche dell’hip-hop non solo possono essere uno strumento educativo (vedi qui) ma, allargando lo sguardo, posso indicare un’attitudine, pedagogica ed esistenziale, per r-esistere in questi tempi inquieti.
In quell’articolo avevo provato a spiegarlo in modo analitico, evidenziando 9 “lezioni” che potevano formare un ipotetico “Manifesto della pedagogia hip-hop”.
Quella che segue è invece la versione “poetry slam” di quel testo.
Con la declamazione di questo pezzo abbiamo spesso chiuso la performance “Crescere hip-hop live” (eccola qui). Buona Lettura.
E’ ormai chiaramente smascherata la truffa
che un pezzo di carta
aprirà le porte del nostro futuro
che se studiamo
sudiamo
accumuliamo titoli
avremo assicurato il dopo
ci proteggeremo dal fuoco
dell’incertezza
è ormai chiaro che qualsiasi progetto lineare
consequenziale
non vale
il tempo impiegato per concepirlo
a noi
non è rimasto che imparare per imparare
per sentirci funzionare
maratoneti di sbattimenti enormi
solo per la vertigine di fare esperienza di noi e del mondo
per l’assenza
la noia
per gioco
per l’urgenza di mettere in ordine il troppo
per ricompensa intrinseca, pulsione libidica
non ci è rimasta che fatica gratuita
per il vezzo di essere di più
il capriccio di rimanere liberi
per l’arroganza di sentirci vivi
per perdita di tempo
per il conforto del senso
In questa tempesta di flussi
in questo continuo accelerare
richiesta di performare
ritaglieremo aree confinate
zone temporaneamente incantate
autoproclameremo eterotopie
spazi dove valgono magie
territori di potenzialità retti da regole altre
ergeremo bordi per non straripare e cornici d’incontro autentico
godendo dell’io ci scopriremo noi
saremo crew, posse, tribù
reti di fiducia, affinità, affettività
piccoli gruppi d’apprendimento tra pari
famiglie non convenzionali
banchetti conviviali
Si è scoperto
che le grandi narrazioni non avevano chiusure all’altezza
finali altrettanto belli
il filo del discorso delle logiche biografiche è in brandelli
ritesseremo trama
il suono del racconto di noi sarà il nostro filo di Arianna
principio d’ordine nel caos
saremo metrica
intrecceremo parole afferrando il ritmo trovando equilibrio per non cadere
saremo griot
cantastorie
la parola sarà viaggio, messaggio, massaggio
protezione, barriera, dimora, cura
giardinieri di miti in questa radura
Sciami di scorie mediatiche ci si sbriciolano addosso
labili incontrollabili flussi di stimoli
tutto
si è riusciti a spezzettare
dichiariamo allora che ognuno di questi frammenti
sia materia del nostro gioco
mattoncini colorati per architetti bambini
saremo dj
mixeremo
ri-mixeremo queste rovine creando nuova musica meticcia
per coreografie che superano le vostre categorie
artigiani della ricombinazione
apprenderemo facendo collage
cut-up,
mash-up
raffineremo l’arte dell’ibrido e del sincretico
saremo migranti che imparano a tenere insieme mondi campionando
tagliando
incollando
sfumando una nell’altra le esperienze
sbloccando il loop dell’eterno presente con un’entrata a strappo
in questo troppo saràsolo questione
di una buona selezione
Dichiariamo
che come abbiamo
trasformato un giradischi in uno strumento musicale
utilizzeremo qualsiasi oggetto tecnologico arrogandoci la libertà di violarne i protocolli d’uso esplorandone le potenzialità
piegandolo alle nostre necessità
al di là
dello scopo per cui è stato concepito
superando la passività indotta
con la fotta
radicale di un bambino
L’unica tecnologia che amiamo è quella dirottata e riappropriata
l’unica tecnologia che amiamo l’abbiamo già smontata
artisti del riciclo
sarti degli scampoli
reality samplers
sempre con disciplina
rovisteremo nelle discariche a estrarre florida materia prima
d.i.y.
in pratica artigiani,
bottegai
lavoro lento di riappropriazione con cura e criterio
micro-economie del desiderio
E torneremo corpo
che avete piegato con quei banchi di prigione frontale
dimenticato davanti ad uno schermo di coscienza sbragata
appiattito in un’immagine photoshoppata di perfezione
ritroveremo un senso ripartendo dai sensi
riconquisteremo lo spazio modellando il movimento virtuosi della bellezza del gesto
saremo danza tra le macerie di ferite e possibilità
tensione mente-corpo in forma-flusso
saremo l’aria che ci attraversa
voce-respiro
saremo vibrazione
meditazione accompagnata da ritmi nuovi
atti gratuiti di bellezza
silenzio e acrobazie
sciamani
d’inattese ecologie