Pedagogia hacker – il libro

In uscita per Eleuthera un libro di riflessioni e attività pratiche per un approccio critico e creativo alle nuove tecnologie

in uscita per Eleuthera, novembre 2024

I dispositivi digitali limitano i nostri spazi di autonomia, ci sottraggono tempo ed energie vitali, da persone ci riducono a profili. In un panorama del genere è sempre più urgente sviluppare strumenti educativi e auto-educativi per aprire nuovi spazi di consapevolezza e libertà.
La proposta della p/edagogia hacker/ è di indagare nel profondo la nostra relazione con la tecnologia, guardare dietro lo schermo, riconoscere le dinamiche oppressive e sperimentare pratiche di immaginazione. Si tratta di un approccio critico e creativo, fondato su attivazioni in cui gli schermi incontrano i corpi, la tecnologia è interrogata anche attraverso l’arte, il teatro, la poesia, dove il gioco torna ad essere spazio di emancipazione.
Un testo per educatori, insegnanti, psicologi, tecnici, artisti, che sentono l’urgenza di stimolare ad una relazione ecologica con il digitale, ma anche per chiunque sia alla ricerca di pratiche concrete per de-colonizzarsi e abitare la tecnologia con un atteggiamento vitale e conviviale.

R-esistere adolescenti. Strumenti per una risposta educativa alla sofferenza delle nuove generazioni

E’ uscito per le “Matite di Animazione Sociale” il libro frutto di questi anni di lavoro educativo nel contesto di Anno Unico

Viviamo un mondo precario, performativo, narcisista, digitalmente iper-stimolato, in cui la parola futuro non è più una promessa ma una minaccia, sentiamo sulla pelle il collasso ambientale.
Stanno male
gli adolescenti, e (spesso) stiamo male anche noi; e tra le due parti si fa sempre più fatica a costruire dialogo.
Cosa significa crescere in un contesto simile? Ed essere operatori?

Fare educazione e scuola oggi non può prescindere l’entrare in contatto con queste nuove sofferenze, sentirle sulla pelle, dargli un nome, ricondurle alla loro dimensione sociale e politica e non solo individuale, e poi cercare insieme agli adolescenti spiragli di vita, territori di creazione di senso e meraviglia.

Per fare questo siamo chiamati a contaminare e lasciarci contaminare: lo sguardo pedagogico e psicologico devono incontrare quello dall’arte, della narrazione fantastica, della tecnologia critica, del corpo, trarre nuova linfa dai linguaggi e dalle culture giovanili, abbracciare gli spazi di resistenza e costruzione di senso già patrimonio dei nostri adolescenti.

Un libro che contiene tanti strumenti molto pratici per la conduzione di gruppi di «nuovi adolescenti», propone modalità per allestire setting e attività, ma ha l’ambizione anche di contribuire ad aprire a nuovi visioni, a quei salti di immaginazione che riteniamo sempre più urgenti.

(Breve) storia della mia Pedagogia Hip-Hop

Il mio contributo alla pubblicazione “Keep it real, comunità in cerchio”. Per chi ogni tanto mi chiede come mi sono ingaggiato in questo percorso tra hip-hop e educazione, perchè è nato il libro e come ora prosegue la cosa

Più di anno fa usciva la pubblicazione Keep it Real – Comunità in cerchio, che sanciva ufficialmente l’avvio di una rete nazionale di artisti, educatori, ricercatori, che si occupano di hip-hop based education. Per me è stata l’occasione di ripercorrere un pezzo della mia storia, il mio personale incontro con questo approccio educativo ma anche con l’hip-hop in generale. Lo rimetto a disposizione qui. Per chi ogni tanto mi chiede come mai mi sono ingaggiato in tutto questo.

Qualcosa di dirompente

Ho scoperto l’hip-hop alla fine degli anni ottanta, attraverso un certo Jovanotti che cantava gimme five, poi in un attimo sono arrivato ai Run Dmc, ai Public Enemy e a tutto il resto. Era qualcosa di potentissimo e incredibilmente dirompente: finalmente avevo una musica per potermi opporre praticamente a chiunque, ai genitori ma anche ai pari: perfino gli amici punk dicevano “…ma questa non è musica”! Era il miglior alleato per un adolescente in lotta contro tutto e tutti.
E poi c’era la dimensione sociale e politica; sono cresciuto in una famiglia sensibile ai temi sociali, però il loro approccio mi sembrava vecchio, fiacco, avevo bisogno di slogan forti, di “remixare” quella sensibilità in qualcosa che fosse mio, che desse fuoco alle mie urgenze. Ecco che allora nell’attitudine di Malcolm X e del Black Panther Party rivedevo il mio desiderio di lotta alle ingiustizie che percepivo nel mondo intorno a me, si alimentava l’afflato politico, e allo stesso tempo nasceva uno sguardo e una consapevolezza nuova rispetto alla distorsione dell’immaginario creata dal colonialismo e dal razzismo strutturale nella nostra società.

Public Enemy (Photo by Jack Mitchell/Getty Images)

Nascono così anche i miei primi versi zoppicanti sul tempo ma che avevano l’urgenza di essere urlati al mondo. E’ poi quando Assalti Frontali escono con “Terra di nessuno” che mi rendo conto che con le rime oltre che parlare del “fuori” – della politica, della società – si può parlare anche del “dentro”: delle emozioni, delle sofferenze personali. Scopro così che si potevano usare le parole per costruire immagini che possono curare.
Da quel momento la scrittura per me rimarrà sempre una forma di diario terapeutico, cogliendone sempre di più il valore.

Hip Hop per incontrare gli adolescenti. Ai tempi dell’università divoro tutti i testi sociologici e storici sull’hip-hop che riesco a trovare: voglio capire, approfondire, fare teoria; è quello anche il periodo in cui inizio a lavorare come educatore e docente nella formazione professionale scoprendo che dalle mie ferite adolescenziali avevo ereditato una sensibilità che poteva essere spazio di dialogo con i ragazzi, che mi veniva naturale “vibrare insieme a loro”.
Hip-hop e lavoro formativo rimangono però dimensioni parallele, anche perché gli adolescenti in quel momento ascoltavano tutt’altro, techno-gabber principalmente, il rap non era certo cosa loro.
Poi improvvisamente succede qualcosa che mi colpisce: comincio a notare sempre più spesso i ragazzi calarsi grandi dosi di rap attraverso le loro cuffie, e qualcuno lo sorprendo addirittura a provare a scrivere le proprie strofe. Cosa era successo?
Era uscito il primo disco, anzi mixtape, di Mondo Marcio, che raccontava senza filtri di vita in periferia, di assistenti sociali, di tensioni familiari, con una forza mai vista in Italia. Ecco che i ragazzi “ai margini” con cui lavoravo si erano subito sentiti rappresentati, e intuivano che quella modalità comunicativa poteva essere il canale per poter dire quello che fino ad allora sembrava non-dicibile.

Mondo Marcio

Mi rendo conto così che ci sono spazi interessanti di incontro, e la mia passione per l’hip-hop inizia a convergere con il mio lavoro di educatore. All’inizio propongo loro semplicemente di ascoltare insieme i testi, riflettere sui contenuti, sulle risonanze, oppure mi metto a disposizione per registrare le loro composizioni e, con chi lo desidera, azzardo anche qualche laboratorio di scrittura. In questo modo di passo in passo, prove ed errori, di intuizione in intuizione, creo qualche strumento che nel tempo si evolverà sempre di più, andando a sviluppare un mio approccio personale all’“hip-hop based education” in cui si contaminano gli strumenti e gli sguardi formativi parte del mio bagaglio: i metodi d’azione di scuola moreniana, la media education “hacker”, i metodi narrativi e autobiografici, l’approccio freiriano e, su tutto, l’apprendimento esperienziale che stavo approfondendo in quel momento con Piergiorgio Reggio, docente universitario e collega di Metodi.
Quelle metodologie si sposavano perfettamente con le pratiche hip-hop; mi si palesava l’idea, come avrò modo di scrivere in seguito, che quei ragazzini del Bronx avessero avuto delle profondissime intuizioni pedagogiche, avessero trovato uno strumento raffinatissimo per prendersi cura di sé in un periodo inquieto. Mi accorgo che la cosa funziona, succedono cose speciali con i ragazzi, un po’ magiche, e io sono assetato di nuovi stimoli, voglio approfondire: cerco di recuperare quello che già era stato scritto all’estero su educazione e hip-hop, poi volo fino in Brasile, a Recife, a vedere come rap, graffiti, breaking, djing sono utilizzati come strumento di empowerment con i ragazzi di strada delle favelas, ispirati dal paradigma della pedagogia del desiderio.
Nello stesso periodo scopro la scena dei poetry slam attraverso Saul Williams, mi dirigo allora alla volta di NYC, al Nuyrican poets Cafe, e al ritorno con alcuni amici cominciamo ad organizzare quello che probabilmente è il primo slam in Italia ad iscrizione libera e cadenza periodica: lo Scighera Poetry Slam. Inizio così anche ad arricchire i miei laboratori con la scrittura poetica e slam, spazio di ricerca che darà molta linfa alle mie pratiche.

allo Scighera Poetry Slam – 2009


Un Libro?

In tutto questo periodo non ho mai smesso di annotare i miei appunti e provare ad organizzarli in percorsi di senso. La scrittura, anche teorica, è sempre stata per me lo spazio per dare forma al mio pensiero, uno strumento per imparare da quello che faccio e che mi attraversa prima ancora che per raccontarlo agli altri. Ecco, quindi, che nel giro di qualche mese le idee iniziano a organizzarsi e le connessioni, le intuizioni a cui avevo dato forma si concentrano in un percorso di senso in un primo
articolo pubblicato dalla rivista Animazione Sociale.
Non sapevo nemmeno se lo avrebbero pubblicato, e invece è stato ben accolto e soprattutto è stato bello ricevere mail con ritorni interessanti dai lettori. Tra gli altri ricordo con molto piacere quella di A.N.D. delle Menti Criminali, che oltre che rapper militante mi raccontava di occuparsi di adolescenti: si iniziavano a creare inediti ponti, dialoghi, connessioni. Il materiale però – gli appunti, le sperimentazioni, la letteratura, le riflessioni – era tanto, e nel tempo cresceva, è stato così abbastanza naturale che quell’articolo “esplodesse” in un libro, scritto in due anni nei momenti
liberi del lavoro faticoso e bello con i ragazzi in dispersione scolastica.

Il libro con la tag in copertina (photo di Antonio sofia)

Pensavo che ci fosse la necessità di portare uno sguardo situato che aveva punti in comune ma anche differenze con l’esperienza d’oltreoceano. Non sapevo cosa aspettarmi, ero solo felice che Piergiorgio Reggio, da cui avevo imparato tanto, avesse creduto nel progetto un po’ folle.
Volevo solo che il libro potesse avere la solidità teorica per essere riconosciuto nel contesto accademico e allo stesso tempo avesse street credibility conferita dai b-boy come me. In copertina solo la mia tag “Skrim” un po’ a dire “qui ci sono io”, ma anche “L’hip-hop è questo: re-inventare il sé, imporsi e prendersi cura tracciando nuove forme, caosmosi stilosa”.

Il libro così ha iniziato a girare, mi ha portato a incontrare tanti contesti differenti, dalle cooperative alle aule universitarie, fino ad Cambridge, dove ho avuto la fortuna di partecipare al primo convegno europeo di hip-hop studies confrontandomi con ricercatori da tutta Europa ma non solo, in un contesto surreale di ricercatori-b-boy che invadevano e de-sacralizzavano quelle aule austere.

“Fuori chi legge” di Vergiate, una delle prime presentazioni del libro con Kaso e i suoi ragazzi

L’uscita del libro però mi porta soprattutto a conoscere tante persone che mi scrivevano perché come me erano hip-hoppers ma anche educatori, e volevano confrontarsi, raccontarmi la loro esperienza, o semplicemente entrare in contatto. Su tutti è stato bello rincontrarsi con Musteeno, caro amico e uno dei più forti Mc italiani, che proprio in quel momento aveva cominciato a proporre laboratori con adolescenti e – da buon visionario quale è – era già al lavoro per dare vita a Street Art Academy, un’associazione completamente dedita all’educazione hip-hop.
Proprio nel contesto di S.A.A. con lui e dj Vigor degli OTR di lì a poco abbiamo creato una performance di spoken word, rap e video mixati live per raccontare in giro, in modo fortemente evocativo, il valore educativo di questa cultura.

Ancora in ricerca

Oggi il mio lavoro educativo con l’hip-hop si concentra nel contesto dell’Anno Unico, la “scuola per ragazzi che non vanno a scuola” di cui mi occupo da tanti anni.
Quando c’è il “gruppo giusto” conduco veri e propri laboratori di rap, quello però che caratterizza il mio lavoro più recente è l’inserimento dell’hip-hop based education in attività non prettamente focalizzate sull’hip-hop.
Continua e si amplia inoltre il mio lavoro di consulente e di formatore per professionisti che si occupano di adolescenti, per i quali l’hip-hop rimane uno spazio molto generativo sia per comprendere le nuove generazioni sia per affinare strumenti di intervento.
Se devo individuare un paio di spazi di ricerca nel lavoro diretto che sto in particolare portando avanti in questo momento direi:

Testi e video come spazio di mediazione e problematizzazione.

La musica rap, nelle sue diverse declinazioni, è la voce più importante delle nuove generazioni, in cui trovano frammenti della loro vita, delle emozioni, desideri, frustrazioni. Si tratta di testi talvolta carichi di contenuti negativi, contraddittori, emancipanti e oppressivi insieme, voci di libertà e voce del mercato.
Il mio intento su questo piano è di affinare tecniche riflessive e dialogiche per aiutare i ragazzi a dare voce al loro mondo interiore e sociale attraverso la focalizzazione di alcuni elementi particolarmente risonanti contenuti nelle canzoni e nei loro video preferiti e poi, muovendo da questo, costruire con loro percorsi di senso, aprire a nuove domande, a nuovi significati. Si tratta di un approccio fortemente freiriano di ricerca di “parole generative”: problematizzare la realtà ricercando domande autentiche da indagare in una dimensione comunitaria.

“Rompere il copione”: la scrittura come ricerca

Per quanto riguarda le attività prettamente di scrittura mi sto concentrando a far sì che comporre rime sia per i ragazzi un’occasione di ricerca, possa aprirli a nuove conoscenze di sé, portare il non scontato, sorprendersi anche di fronte a sé stessi.
Consegnare loro un foglio bianco non significa per forza conferire la libertà di scrivere quello che si vuole; ciò che si rischia di imporre non è tanto la spontaneità quanto il copione stereotipato interiore frutto della propria narrazione abituale e spesso di una “colonizzazione mainstream”: modelli precostituiti, contenuti standardizzati, modalità sempre identiche a sé stesse di vedere le cose. Attraverso specifiche tecniche di scrittura in continua evoluzione cerco di accompagnare passo a passo un lavoro di
ricerca interiore, decostruzione e ricostruzione, mantenendo insieme l’attenzione per allestire un setting sicuro e “sensibile” dove possano essere accolte “parole nuove” per conoscersi, riconoscersi e impattare nel mondo.

Tessere la tela per contaminarsi, apprendere e provocare

E’ stato bello nel tempo scoprire come, in parallelo al mio percorso, altri stavano portando avanti qualcosa di simile, in molti intuivano il valore educativo dell’hip-hop e si sperimentavano, ognuno a partire dalle proprie risorse e ricchezze; alcuni di questi addirittura erano poi i miei rapper italiani preferiti, e scoprirsi in ottima compagnia non ha potuto che darmi grande energia. Credo ora che il lavoro di rete in cui far incontrare e dialogare tutte queste esperienze, di cui questa pubblicazione è una testimonianza, sia qualcosa di straordinario.
Il lavoro educativo con l’hip-hop non è un utilizzo strumentale di una cultura di strada per “aggiustare” adolescenti in difficoltà, è parte integrante di questa cultura, che fin dalla nascita si pone come strumento di crescita, di cura, di insegnamento.
La diffusione concertata di queste pratiche nel nostro paese diviene allora la valorizzazione di un aspetto dell’hip-hop fondamentale, è porsi come parte integrante della scena, in tensione, opposizione e dialogo con la dimensione più street e commerciale.
Si tratta forse una delle cose più belle e interessanti accadute all’universo nostrano della doppia-h negli ultimi anni. Creare una rete vuole dire porsi “sulla mappa” in maniera più incisiva, ma vuol dire soprattutto per noi essere spazio di scambio di esperienze e di tecniche per migliorare, crescere noi stessi; una grande crew in cui each one teach one, come dicevano i pionieri. È importante che ognuno mantenga le proprie particolarità date dalla propria storia e dal proprio contesto, generando apprendimento senza lo scopo di istituire modelli che non possono che appiattire la ricchezza delle differenze. Dobbiamo anche stare attenti a non istituzionalizzarci troppo, rimanere con un piede nella strada e uno nelle istituzioni, rimanere “sporchi” come “sporco” è l’hip-hop. Solo così potremo continuare a essere fonte di provocazioni vitali, per noi stessi e per gli altri.

qui il link al pdf completo della pubblicazione

Abbiamo creato una rete nazionale per chi lavora con l’hip-hop in campo educativo

Un sogno che diventa realtà, è nata Keep it real, comunità in cerchio, la rete che riunisce tutte le più importanti realtà nazionali che utilizzano l’hip-hop come strumento educativo. Un cerchio in continua crescita a cui sono felice di portare il mio contributo.
Qui il lancio stampa ufficiale, attingendo dalle parole del sito di daSud, realtà che più di tutte ha messo le proprie energie per avviare questo progetto.

Presentata a Roma la prima rete in Italia sull’educativa hip hop e la sua pratica in contesti di marginalità sociale: i primi 14 contributi e le esperienze da tutta Italia raccolte e diffuse online nel secondo volume della collana “I Quaderni di daSud”

Roma, Napoli, Palermo, Bologna, Milano, Siena. C’è tutto un universo di professionalità artistiche legato alla cultura hip hop che da tempo opera all’interno di associazioni ed enti del terzo settore per sviluppare, realizzare e attuare progetti che hanno come fine ultimo la prevenzione e la riduzione del disagio di minori e adolescenti che vivono situazioni di marginalità sociale nelle scuole, nelle periferie e nelle carceri del nostro Paese. 

A mappare per la prima volta le loro esperienze, i processi, le buone pratiche e i vari punti di vista è Keep It Real. Comunità in cerchio: la prima rete in Italia che unisce e riunisce rapper, artisti, educatori, enti del terzo settore, docenti, università e addetti ai lavori attorno all’hip hop come strumento educativo centrale nella rigenerazione e ricostruzione di identità, cultura e comunità nelle fasce giovanili più fragili.

Promossa da Associazione daSud e sostenuta da Fondazione Alta Mane Italia, la rete è stata lanciata e presentata negli spazi di ÀP, l’Accademia Popolare dell’antimafia e dei diritti, ospitata all’interno dell’IIS Enzo Ferrari di Cinecittà-Don Bosco a Roma, insieme all’omonima pubblicazione “Keep It Real. Comunità in cerchio”: un’opera corale e collettiva che raccoglie 14 contributi ed esperienze, diffusa online da daSud come secondo volume della collana “I Quaderni di daSud” sui percorsi e le esperienze educative che conduce nelle scuole della periferia est di Roma che vedono l’hip hop tra i linguaggi espressivi più utilizzati. 

“L’anno appena trascorso ha spiegato Pasquale Grosso, vicepresidente daSud e curatore della pubblicazione – è stato caratterizzato da una narrazione mediatica legata a fatti di cronaca aventi per protagonisti giovani trapper. Dalla rivalità tra gang alle aggressioni e alle violenze di gruppo, uno spaccato del Paese reale e delle sue difficoltà oggettive in determinati contesti urbani e periferici, raccontato come un fattore legato al mondo della musica e al suo immaginario. Una mezza verità e al contempo un approccio poco incline ad un dibattito reale sulle cause e sull’hip hop come strumento, metodo, antidoto e cura per un tessuto socio-culturale lacerato e sempre più ai margini. Di qui l’urgenza di avviare un confronto di settore sincero e la necessità di dare vita a una rete nazionale che si faccia promotrice e portavoce di un lavoro educativo complesso e faticoso, basato sull’Hip Hop, che va riconosciuto, legittimato e sistematizzato”.

Francesco “Kento” Carlo, Mirko “Kiave” Filice, Luca “Lucariello” Caiazzo, Luca “Militant A” Mascino, Davide “Skrim” Fant, Christian “Picciotto” Paterniti, Manuel “Kyodo” Simoncini, Antonio “DonGocò” Turano, Marco “Zatarra” Ottavi, Andrea “Musteeno” Gorni, Daniele “Diamante” Vitrone, Lanfranco “Moder” Vicari, Vincenzo “Oyoshe” Musto: sono solo alcune delle personalità della scena hip hop italiana che da anni portano avanti questo tipo di progetti in contesti di marginalità e che hanno aderito fin da subito alla neo rete insieme alle realtà sociali all’interno delle quali operano (CCO – Crisi Come Opportunità, CIES Onlus/MaTeMù, Polo musicale Maestri di Strada, Lo Stato dell’Arte, Street Arts Academy, Associazione Tato, 4 Raw City Sound).

“Siamo un gruppo di rapper e di arteducatori – chiarisce il portavoce della rete Antonio Turano, in arte DonGocò che ha deciso di scendere in campo perché di fatto lo siamo già da tempo, ognuno nelle proprie realtà, in modo individuale e per iniziativa spontanea, consapevoli delle potenzialità aggregative, educative e inclusive che ha l’hip hop. In tutti i contesti di marginalità l’hip hop ha questa capacità sociale di (re)includere tutto ciò che è divergente e deviante. È uno strumento che ha il linguaggio del disagio e della devianza e che al contempo ha la capacità di includere: un paradosso potente, soprattutto per i risultati molto forti che permette di raggiungere. La nostra comunità in rete vuole essere pertanto una rappresentazione virtuosa di come si possono condividere pratiche, esperienze, metodi e di come si può diventare più grandi, forti e incisivi nell’azione quotidiana”

Da qui ai prossimi mesi, la rete lavorerà per la costruzione di un sito web dedicato e alla calendarizzazione di vari incontri sparsi sul territorio nazionale per raccontarne la nascita e la formazione, diffondere consapevolezza e provare a intercettare anche altre realtà che ne condividono l’approccio e che potrebbero trovare in Keep It Real un gruppo di riferimento. Oltre poi ad altre attività e iniziative che verranno definite man mano, la rete si dedicherà alla scrittura di un manifesto per meglio delineare i punti cardine che ne caratterizzano il movimento nazionale.

E’ tempo di un approccio educativo e sociale alla sofferenza degli adolescenti

6 parole-medicina per un approccio critico e desiderante al disagio delle nuove generazioni

Gli adolescenti stanno male, se ne sono accorti quasi tutti. E’ una sofferenza che in alcuni ragazzi si manifesta attraverso fenomeni estremi come il ritiro sociale o agiti (auto)distruttivi, in altri rimane un costante sottofondo di ansia, tristezza, tensione.
Se si tratta generalmente di vissuti biografici ad innescare le sintomatologie più gravi, di certo non bastano a spiegare il fenomeno. Una sofferenza così ampiamente diffusa non può che avere anche una forte origine sociale.

Alcuni dei fattori patogeni che oggi generano il disagio pisichico li si citano spesso, sebbene tavolta in modo un pò generico: individualismo, competitività, utilitarismo, continua spinta alla performance, la pervasività delle tecnologie digitali, la precarietà e la mancanza di futuro; altri sono più sottotraccia.

Melissa ci racconta che la sofferenza attuale è dovuta al fatto che non ci fanno mai sentire “abbastanza”

Un mondo educativo rassegnato

Come ci posizioniamo noi educatori e operatori sociali di fronte a tutto questo?
Il mondo educativo e formativo oggi sembra si sia rassegnato: riteniamo queste “storture” un dato di fatto, accettiamo il mondo così com’è, riducendoci insegnare ai più giovani a divenire «resilienti», «flessibili», «armati» per essere all’altezza dell’hunger game, la postura contemporanea del tutti-contro-tutti. Riteniamo di avere poco spazio di manovra rispetto a questa emergenza, delegando spesso all’intervento di psicologi o di neuropsichiatri.

Aissa e Ale ci dicono che fa stare male questa continua lotta tutti contro tutti (tra le macerie)

Prendere posizione

E’ tempo a nostro avviso fare un salto, prendere posizione di fronte a tutto ciò. Queste nuove manifestazioni di sofferenza hanno origine in elementi oppressivi dell’epoca che viviamo, sono temi generatori emergenti, come li definiribbe Paulo Freire, se vogliamo dare senso al lavoro educativo oggi, con un approccio critico e desiderante, non possiamo non porre la questione al centro del nostro lavoro.
Siamo chiamati ad analizzare, “cartografare”, le cause sociali di quanto sta avvenendo e creare strumenti, dispositivi ad hoc che se da una parte possando contribuire alla crescita individuale, dall’altra non possono che interrogare il mondo che abitiamo, decostruire le sue parole d’ordine, porsi in modo critico e immaginativo.

Allestire luoghi educativi e di cura radicalmente alternativi alla società patogena

Ci siamo resi conto che il modo più efficace per fare rifluire la vita nei più giovani (e in noi stessi) è allestire setting educativi radicalmente alternativi alla società patogena. Se la corsa alla performance toglie il fiato dobbiamo ragionare di luoghi in cui respirare, abbassare il peso delle aspettative, se ogni competenza va capitalizzata dobbiamo essere pronti a proporre esperienze “inutili” al progetto personale, ma imprescindibili per sentirsi vivi, se il mondo algoritmico e funzionalista ha rimosso la dimensione del senso, dobbiamo creare spazi in cui farci domande profonde, esplorare la vertigine dello stare con 3 ragazz3 nel non sapere, nella ricerca, nell’ineffabile. Non è facile perchè si tratta di andare controcorrente a una narrazione diffusa per cui l’adolescenza è solo la fase dell’investimento verso il futuro lavorativo.

Immaginare mondi

In questo modo non solo potremo impattare l’emergenza attuale, ma anche allestire con gli adolescenti stessi spazi laboratorio per sperimentare un modello di società diversa.
Si tratta di prenderci cura dei più giovani prendendoci insieme cura del mondo.
Il mondo desiderato dalle nuove generazioni è già racchiuso nei sintomi della loro sofferenza, è tempo di allearci per iniziare a costruirlo; come operatori sociali, fare la nostra parte.

La nostra borsa-medicina

Per conferire concretezza a tutto ciò, mantenere una bussola nel agire quotidiano, all’Anno Unico, la nostra “scuola per chi non va a scuola” utilizziamo una speciale borsa medicina*.
Contiene sei parole-cura o, appunto, parole-medicina che orientano le nostre prassi: RESPIRARE, RISUONARE, INTERROGARE, COMPORRE, SPERPERARE, DECENTRARSI.
Non vanno scambiate per un manifesto, sono il frutto di appunti di viaggio annotati e rielaborati lungo la strada, in continuo divenire e dialogo con la realtà, intuizioni che teniamo strette durante il nostro cammino, imperfetto, polveroso, che ha voglia di contaminare e di essere contaminato.

RESPIRARE

Allestire isole ri-generative dove riprendere fiato, rinfrancarsi dal peso aspettative, della prestazione, della sovrastimolazione

Il mondo contemporaneo stanca, consuma, rende esausti. Siamo chiamati alla continua competizione, prestazione, misurazione, sovrastimolazione.
Se un tempo la prima preoccupazione dell’educatore era quella di attivare i più giovani, oggi contro-intuitivamente deve essere quella anzitutto di permettergli di prendere fiato rallentando, sottraendosi da questi elementi patogeni. Il processo di cura comincia in luoghi dove non si viene caricati dal peso delle aspettative, ma ce ne si possa disintossicare, dove le performance non vengano continuamente misurate, e il talento non debba essere per forza capitalizzato. Nel mondo della velocità e del rumore dobbiamo allestire isole ri-generative in cui è concesso riconquistare il tempo, trovare il vuoto e il contatto con se stessi, rallentare, dirci “andiamo bene così”; dove – quando fuori tutti chiedono di mostrarci – vi sia la possibilità di rimanere in penombra.


RISUONARE

Allearsi in gruppi sensibili, in cui ci si può riconoscere anche strani, goffi, vulnerabili, in cui ci si incontra attraverso la vibrazione del sentire.

Le nuove generazioni sono cresciute respirando individualismo, non sanno più stare insieme perchè hanno la pelle troppo sensibile, sono preoccupati solo di se stessi. Inoltre oggi il legame ha valore solo quando genera utilità reciproca. In un contesto del genere l’educatore non può che porsi come tessitore di legami, ma deve rifiutare il richiamo di quei modelli aggregativi che fino ad ora sono andati per la maggiore: tendenzialmente logocentrici, funzionalistici, mascolini. L’alternativa sono quelli che chiamiamo i gruppi sensibili, il modo di stare assieme che nasce dall’incontro di pelli sottili. Si tratta di alleanze fondate sul sentire, dove strumenti privilegiati di relazione sono il pulsare dei corpi, gli occhi, l’arte, le parole sussurrate, il gioco, anche il silenzio. Nei gruppi sensibili sono accolte le vulnerabilità, le ombre, ognuno è serenamente imperfetto, adeguatamente strano.


INTERROGARE

Esplorare insieme domande di senso urgenti

La sofferenza attuale è sintomo anche di una crisi esistenziale, della mancanza di senso. La ricerca di significati profondi dell’esistenza non trova posto nel paradigma della tecnica e degli algoritmi.
In un contesto del genere è urgente, educativo e terapeutico, ritagliare un tempo importante per tornare a esplorare domande di senso improrogabili: sulla vita, la morte, il progresso, la tecnologia, la felicità, le relazioni, le emozioni. Sarà fondamentale non cedere alla fretta di giungere a risposte definitive, non rifuggire quelle che paiono più impegnative, destabilizzanti. Per questo viaggio di ricerca possiamoattingere a tutto ciò che noi e gli adolescenti abbiamo a disposizione: la letteratura e i vissuti personali, il pensiero filosofico e la fantascienza, la saggezza antica e le arti pop, la ricerca spirituale e le controculture, incontri fecondi con chiunque possa portare nuova linfa alla ricerca di significato. Nuovo senso apre a nuovi sguardi e a nuove prassi.


COMPORRE

Esercitare il linguaggio narrativo, ricombinante, immaginativo e simbolico per ri-comporsi, abitare l’ombra e l’ineffabile, aprirsi a nuove visioni

 cheNel mondo attuale esperiamo la frammentazione, la destabilizzazione, viviamo emozioni che non sappiamo come nominare, in un contesto in cui nell’ideologia razionalista attuale tutto ciò che non è misurabile non esiste. Inoltre tutto ciò che è negativo spaventa e viene rimosso a priori, va rifuggito e non ci viene insegnato come abitarlo. Tutto questo è fonte di sofferenza.
E’ necessario allora liberare le attività «espressive» dall’ innocuo ruolo in cui sono state relegate nel mondo dell’educazione e dello spettacolo e ritrovare la loro forza ancestrale di strumenti di comunità e di cura. Si tratta di risorse per esplorare le nostre ombre, l’ineffabile, e di strumenti di visione. Dobbiamo insieme ai più giovani ri-alfabetizzarci ai linguaggi del simbolico, del mito, dell’immaginazione, all’antica arte di raccontare storie che il nostro tempo ha rimosso o relegato nel marketing; diventare cultori del ri-comporre, plasmare, remixare, del dare forma come atto curativo e generativo


SPERPERARE

Perdere tempo per sperimentarsi in ciò che non è redditizio, ricercare salti di intensità lasciandosi attraversare dalla vita

Oggi siamo assillati ad accumulare competenze capitalizzabili, selezionare le occasioni formative più redditizie per «realizzarci», siamo chiamati ad essere strategici imprenditori di noi stessi. Di contro gli adolescenti sono sempre più de-motivati, spenti. In un contesto simile gli spazi educativi devono provvedere a ingenti iniezioni di attività che siano sperpero di tempo e di energie, non volte a guadagni sul fronte del «progetto personale», ma che possano generare salti di intensità, potenza vitale, profondità umana, portare all’esplorazione del mondo e di se stessi: attività inutili a raggiungere traguardi materiali ma essenziali all’essere. E’ necessario sviluppare l’arte di individuare i territori e gli incontri generativi che, rispettando le differenze di ognuno, possono alimentare questo processo. Dobbiamo inoltre sviluppare sempre nuovi strumenti riflessivi per trasformare i vissuti in esperienza significativa.


DECENTRARSI

Concepirsi oltre a sé, sbilanciarsi verso l’altro, essere legami, natura, mondo, cosmo

alunni dell’Anno Unico animano i bimbi mentre le loro mamme imparano l’italiano

In questo mondo ognuno è chiamato raggiungere il proprio successo, conquistare la propria felicità. Per fare questo dobbiamo tenerci sotto controllo, monitorare debolezze e i progressi, ascoltare il feedback dell’ambiente. Il centro di tutte le nostre attenzioni siamo noi: questo non è sano.
Negli spazi educativi e di cura si dovranno allora trovare occasioni per decentrarsi, mettere da parte la priorità a sé stessi e al proprio progetto per dedicarsi a qualcosa che ci trascende. Spazi dove si possa dimenticarsi dell’io per sbilanciarsi verso l’altro e il mondo, le sue urgenze, le sue meraviglie; sentirsi comunità, natura, pianeta, cosmo. Sarà quindi risorsa educativa privilegiata trovare occasini per mettere a disposizione le proprie energie, risorse e talenti per il bene comune. Dovremo trovare modalità per risuonare con il pianeta, aprirci a rinnovate forme di spiritualità e all’incanto del mondo.

…e la vita torna a fluire

Vivendo un anno sperimentando tutto questo i nostr3 ragazz3 adolescenti drop out, anche spesso nelle situazione che sembravano più compromesse, percepiscono lentamente la vita riaffiorare.
Accade allora che quegli stessi genitori scettici della nostra proposta così poco produttiva, che avevano iscritto il figlio perché non sapevano a chi altro rivolgersi, tornino da noi e ci dicano:

“Io non so cosa sia successo, e non ho ancora capito bene cosa fate, però vedo Marco (Lidia, Mohamed, Giada…) con gli occhi più luminosi, forse non ha risolto del tutto i suoi problemi, però ha una postura diversa, a cena ha anche voglia di parlare, sta tornando il desiderio…”.

*La “Borsa medicina” è un termine che non a caso fa riferimento alla pratica di cura degli sciamani (ringrazio Ilaria Caelli per insegnarmi su questo mondo affascinante). Non è un riferimento casuale, indica l’urgenza di recuperare saperi e ritmi antichi che la modernità occidentale ha annullato, ma che possono oggi essere imprescindibili.
Non ha niente di razionario, non è per tornare indietro, ma per immaginare inediti futuri.

afrofuturismo Marsiglia


Personaggi fantastici per urgenze reali

Quando i personaggi di film, serie tv, anime, manga divengono stimolo per porsi domande importanti sul mondo, la vita, se stessi

Il valore degli immaginari fantastici e inquietanti

Tempo fa suggerivo, nel manifesto della pedagogia nerd , di riscoprire il valore della narrativa fantastica nel lavoro con gli adolescenti: romanzi, serie, film, fumetti di fantascienza, fantasy, weird, fan fiction, anime, manga – quali risorse di riflessione su sé stessi e sul mondo, di apprendimento e crescita. Sottolineavo l’importanza del ruolo dell’adulto come facilitatore nell’emersione dei temi, delle domande, dei risvolti generativi presenti in questi immaginari. Un intento che ci richiede di imparare a convivere con creature poco raccomandabili: demoni, spettri, mostruosità di ogni sorta, immaginari imprescindibili che la modernità e l’ideologia della tecnica ha cercato in ogni modo di rimuovere, o di trasformare solo in innocuo entertainment.

Lo spazio educativo può essere allora il luogo dove riscoprire questa dimensione, per i ragazzi, per noi, per un mondo che ne ha sempre più bisogno.

In particolare per chiunque lavori con gli adolescenti è fondamentale attraversare questi territori, e magari riuscire anche a coglierne il fascino estetico, vitale, d’intesità. L’adolescenza è la fase della vita in cui, più di ogni altra, si sente l’urgenza di esplorare i limiti, l’estremo, l’inquietante, il malvagio anche, dimensioni che nell’esperienza adulta sono affrontate con maggiore misura e integrazione, ma spesso anche sottoposte ad una (pseudo)pacificante opera di rimozione. Si tratta di universi che hanno un valore educativo per i nostri ragazzi, ma lo possono avere allora anche per noi: il nostro rischio di adulti è accomodarci nella rimozione dell’ambivalenza, della radicalità, delle voragini.

I personaggi “interessanti”

Quello che propongo è un lavoro con poche ma importanti coordinate, che si può proporre in gruppi educativi o di cura, e al limite anche in contesti di lavoro individuale.

La consegna consiste nel chiedere ai ragazzi di individuare un personaggio fantastico presente in un fumetto, un film, una serie, un libro a cui in qualche modo sono legati; deve essere una figura che ritengono interessante, che sollecita questioni su cui riflettere. Il suo ruolo nella storia può essere di protagonista o antagonista, o anche essere un personaggio secondario. Da notare che la richiesta non è di individuare “un personaggio che ti rappresenti” ma che è “interessante”. Non che il primo tipo di consegna non sia da utilizzare, ma il secondo nella mia esperienza è sempre stato più generativo: apre, conferisce ai ragazzi l’opzione di dichiarare o meno di identificarsi in lui, lascia loro la possibilità di proteggersi, e anche di portare figure in cui non sentono di rispecchiarsi, ma li stimolano su particolari questioni, dilemmi, domande.

Negli anni, attraverso questa attività, ho incontrato con loro centinaia di personaggi, alcuni molto famosi, altri di nicchia, tanti di cui non avevo mai sentito parlare; in diversi casi si sono aperte riflessioni profonde, sguardi nuovi noi stessi e sull’epoca che abitiamo, temi e stimoli che sono stati poi portati avanti al di là dei confini della specifica attività.

La scelta personaggio

Di solito avvio il lavoro con un’immaginazione guidata: un sottofondo musicale evocativo contribuisce a costruire l’atmosfera (utilizzo principalmente una selezione di colonne sonore di film fantasy..) stimolo i ragazzi a rievocare i fumetti, gli anime, le serie, i film che sono stati significativi per loro, in questo momento della vita o in passato, e di focalizzarsi sui personaggi che sono rimasti più vividi nella memoria. Chiedo quindi di sceglierne uno che per qualche ragione ritengono significativo, che può essere utile portare nel contesto del gruppo per aprire riflessioni..

Quando tutti hanno individuato il proprio personaggio ci si prende del tempo per esplorarlo, attraverso un lavoro che può essere anche scritto (la richiesta di scrivere aiuta l’adolescente a “stare” nella consegna, lo accompagna ad esplorare evitando la dispersione).

Ecco una possibilità di traccia:
– Scrivi il nome di un personaggio di fiction interessante, significativo, che può aprire riflessioni, o che semplicemente ti ha intrigato
– cerca in rete una sua immagine rappresentativa
– riporta la sua vicenda in poche righe
– prova ad individuare qualche tema, domanda, riflessione che il personaggio di suggerisce
– racconta un aneddoto, una vicenda interessante che vede coinvolto il personaggio e magari solleva qualcuno dei temi che hai individuato
– se è disponibile aggiungi un link video, in cui è possibile assistere alla vicenda di cui hai parlato prima o, in alternativa, qualche altro momento significativo

Non è detto che la consegna sia per tutti chiara fin da subito, si può allora fare qualche esempio: io a seconda dei casi utilizzo personaggi già trattati con altri gruppi o ne porto uno mio.

Le domande

Paulo Freire

il focus dell’attività è concentrarsi sull’emersione delle domande, dei problemi, dei dilemmi che il personaggio porta. E’ molto facile scivolare sul piano inclinato della ricerca di ricette e chiedere subito “cosa ci insegna il personaggio?” “quale messaggio ci dà?” “cosa impariamo dalla sua vicenda?”; non che stimoli del genere siano vietati, o che non possano essere generativi, ma lo sguardo che propongo pone l’attenzione su un altro piano. L’obiettivo è quello di esplicitare, e problematizzare, come ci ha insegnato Paulo Freire, temi importanti per i ragazzi ed esplorarli insieme, senza la fretta di voler arrivare ad avventate conclusioni.

di seguito il racconto di una sessione:

…dopo una breve pausa chiedo chi ha voglia di iniziare la condivisione, introducendoci il suo personaggio.

HARLEY QUEEN

Si propone Valeria che ci vuole parlare della bad girl del film Suicide Squad: Harley Queen.

Ci racconta che era la dottoressa che si prendeva cura di Joker; col tempo si era innamorata di lui al punto che, per dimostrargli quanto lo amava, arriva a cedere alla sua richiesta folle di buttarsi in una vasca piena di acido. Quando ne riemerge si è trasformata, è diventata pazza!, dice Valeria.
Ci aveva fornito il link youtube a quella scena, e la guardiamo insieme. E’ molto forte e spettacolare.

Ci dice che è una scena che la ha colpita molto. Secondo lei la domanda principale su cui tutto ciò fa riflettere è:

E’ giusto per amore fare qualsiasi cosa? Qual’è il limite? Come ci si comporta in una situazione di amore distruttivo?

Emerge così dai ragazzi il concetto di “amore tossico”. Io chiedo loro se volevano provare a inventare qualche esempio per indagare meglio questo fenomeno: “E’ difficile inventare”, dice Sara, “è quando sei così preso da una persona che per lui faresti ogni cosa, anche se non è da te, anche se a volte ti fa stare male e non ti senti più te stessa”. Valeria sottolinea quanto sia difficile uscirne, perché si vive scissi tra il desiderio di stare con l’altro e la sofferenza che comporta, che invece “farebbe scappare lontano”.
Alessandro ipotizza che in questi casi possa essere utile parlarne con gli amici, “…non è facile, sono cose private, ci si vergogna” incalza Alberto, “e poi gli adulti no, non vanno coinvolti, che rischiano di intromettersi e fare ancora più casino”. Io aggiungo che forse, tenendo conto di quanto dice Alessandro, in generale è importante coinvolgere qualcuno di cui ci si fida.
Il tema è molto ampio, non lo si può liquidare facilmente, me lo annoto, troveremo insieme il modo migliore per tornarci. Laura, amica di Valeria, non dice nulla ma gli si legge in volto che è molto coinvolta; io immagino, ricordando anche sue mezze frasi buttate lì in altre occasioni, che forse sta vivendo qualcosa di simile, ma tengo per me il pensiero (spoiler: sarà lei a esplicitarlo nel momento finale delle risonanze).

TONY MONTANA

TONY MONTANA

Il personaggio di Alessandro non arriva invece dal mondo fantasy, è Tony Montana, protagonista del film Scarface, interpretato da Al Pacino. Molti compagni fanno cenno di approvazione, un paio dicono di averlo visto più di una volta: “un classico!” affermano.
Alessandro ci racconta che si tratta di un criminale cubano immigrato negli USA che inizia la sua carriera come scagnozzo di un narcotrafficante, fino a diventare il vice capo dell’organizzazione. Inizia a quel punto una guerra di potere con il capo Frank Lopez, che vince uccidendolo. Diventa quindi modo uno dei più importanti leader dello spaccio.
Il momento che mi ha colpito è quando lui è da solo nella vasca da bagno e riflette” ci dice sicuro, “Tony è molto convinto di sé e del suo potere”. La scena è on line e propongo di guardarla subito, si tratta di un breve monologo, Tony Montana è nella sua Jacuzi, pregiata vasca idromassaggio, da lì inveisce:

“Ma vaffanculo! Chi ha costruito tutto questo? Io…. Di chi cazzo ti puoi fidare? Di nessuno! Potete andare tutti al diavolo… io non ho bisogno di nessuno… non mi serve nulla, non mi serve niente”.
Vorrei intervenire subito, prendere le distanze, magari in modo ironico.. è un discorso che faccio proprio fatica ad accogliere, molto “trap”: carico di individualismo, culto del successo, ostentazione del lusso; mi mordo però la lingua e gli chiedo se ha voglia di farci un commento.
Alessandro ci spiega che quello che gli piace di quella scena è l’autonomia, la fierezza di Tony Montana di avercela fatta da solo. “…anch’io sono molto autonomo” ci dice dopo un momento di silenzio riflessivo, “ho dovuto esserlo, fin da quando ero piccolo nella mia famiglia c’erano casini e dovevi per forza sbrigartela da solo, mio padre era sempre occupato. Anche ora me la sbrigo da solo, ancora di più anzi, faccio qualche lavoretto per non chiedere niente ai miei… Sono orgoglioso di questo!”.
Usa proprio la parola “orgoglioso”: ecco che cosa ci teneva a raccontarci, bisognava dargli (e darci) tempo.
Molti compagni annuiscono. Il desiderio di autonomia è sempre emerso in modo molto deciso all’Anno Unico, è una tensione caratteristica dell’adolescenza ma ancora di più di questi ragazzi per i quali prendere materialmente le distanze da contesti famigliari faticosi è spesso un’urgenza.

Ci segniamo le domande:
Cosa vuol dire essere autonomo? Come si può esserlo oggi in un mondo così precario?

JOKER

Ora tocca ad Alberto, che ci parla di Joker. “È un personaggio criminale travestito da clown” aveva scritto di lui “è diventato quello che è cadendo in un fiume pieno di rifiuti chimici, e uscendo da questo fiume si trasforma in Joker” (il riferimento è al film di Todd Philips del 2019) “secondo me fa riflettere sulla vendetta”.
Alberto ci parla del desiderio di vendetta e rivalsa che abita questo personaggio, un sentimento che “accende” molto la sensibilità del gruppo, e che trova risonanze con altri personaggi: Riccardo osserva che in fondo anche il suo acerrimo nemico Batman è animato dallo stesso sentimento, che lui combatte i criminali con l’atteggiamento di chi deve continuare a vendicarsi di un trauma subito, dopo che proprio un malvivente ha ucciso i suoi genitori. In un intreccio di voci il gruppo ipotizza quindi che Batman e Joker non siano poi così tanto diversi: “la vendetta è un’energia folle che permette a entrambi di andare avanti!” aggiunge qualcuno con enfasi. Maria, psicologa e collega formatrice che in quel momento era in aula con me, valorizza l’intuizione, perfettamente in linea con la teoria psi: “E’ proprio così… lo dicono anche i libroni di psicologia, che cosa raffinata che avete portato.. la vendetta è una modalità per relazionarsi con la sofferenza, per vincere l’impotenza, che, pur non risolvendo la situazione problematica conferisce all’individuo la sensazione di reagire“. I ragazzi sono molto attenti.

A proposito di convergenze tra Batman e Joker a me in quel momento viene in mente la scena dell’interrogatorio nel film il Cavaliere oscuro di Christopher Nolan, in cui questi punti di contatto tra il super-eroe e il suo acerrimo nemico si esplicitano in un dialogo memorabile. Propongo di vedercelo insieme.

Al termine della visione Giulio interviene con un’affermazione che non lascia spazio a repliche, e sorprende per acutezza “è vero che sono sono simili, ma Joker è sicuramente più consapevole di Batman!”, ci dice. “Le persone danneggiate sono pericolose quando sono sole” interviene Andrea, in un escalation di perle di saggezza, “il dolore non è sempre nelle lacrime, a volte è presente anche in un sorriso” aggiunge Emanuele. Mi scrivo tutto, non mi aspettavo questa intensità in particolare da parte di alcuni di loro, spesso avidi di contributi. Il tema li ha toccati molto.

Chiudiamo su Joker annotandoci tante domande, tra cui:

Cos’è la vendetta? C’è qualcosa di alternativo per reggere la sofferenza? C’è un modo per evitare di caderci?

OBITO UCHIHA

Il personaggio di Giulio è Obito Uchiha, della celeberrima serie anime Naruto.
Ho la sua maschera nella mia collezione, l’ho acquistata diversi anni fa, prima di conoscerne la storia, mi ha “chiamato” da una bancarella a Città del Messico; mi aveva affascinato quel suo essere inquietante: la spirale su fondo arancione e un occhio solo, ma non sapevo avesse a che fare con un anime e nascondesse una storia così interessante Giulio ci spiega che Obito era un ragazzo che, pur avendo vissuto un’infanzia difficile, senza genitori, era molto generoso e in gamba; dopo una serie di vicissitudini però si trasfigurerà arrivando a diventare un villain, un “cattivo” tra i più temibili. “Ti fa riflettere molto sull’odio e su cosa può generare la vendetta”, afferma.
La scena che ritiene più importante è quando Obito assiste all’uccisione della ragazza di cui era innamorato da parte di un amico con cui c’era stato un forte legame. Ci riferisce che lo hanno colpito due momenti in particolare di questa scena:
– quando “impazzisce di rabbia e di dolore” e arriva a fare una strage uccidendo chiunque trovi intorno a sé.
– quando in una pozza di sangue prende tra le mani il corpo di lei, l’immensa sofferenza che sta provando.

Da quel momento Obito aderirà a progetti malvagi, mostrando gelido distacco verso il mondo. E’ interessante come nell’anime si espliciti che il particolare potere sovrannaturale che lo aiuta nel combattimento, il cosiddetto sharingan, poteva raggiungere il suo apice solo se chi lo possiede ha vissuto il trauma della perdita di chi ama. Più Obito soffriva, più cresceva la sua potenza, più si rendeva propenso all’avversione e all’odio. Si tratta sicuramente di un tema molto sentito da alcuni nel gruppo, in particolare quelli maggiormente “feriti” che in seguito hanno intrapreso percorsi di devianza, o di rabbiosa chiusura.

Nel sistema narrativo dell’anime Obito si pone come una sorta di doppio dell’eroe della serie Naruto, e rappresenta cosa il protagonista sarebbe potuto diventare se avesse “ceduto al lato oscuro”; il bambino generoso diventato super-cattivo solo in punto di morte si accorgerà che se fosse riuscito a reggere il dolore della perdita la sua vita avrebbe potuto prendere una direzione differente. La serie animata sottolinea come è proprio la capacità di reggere e rielaborare il dolore il discrimine tra la fioritura e la perdizione
Le domande che in conclusione ci siamo posti sono molto simili a quelle emerse per Joker:

Si può sopravvivere ad un dolore troppo grande? Come si fa? Come si rielabora il dolore?Come si fa a non cadere nel lato oscuro?

OBI-WAN KENOBI

Il personaggio scelto da Renato è Obi-Wan Kenobi, figura fondamentale nei film storici di Star Wars, e protagonista di una serie uscita recentemente per DisneyPlus.
In particolare Renato fa riferimento alla trilogia degli eposidi I,II e III, in cui Obi-Wan è il mentore del giovane Anakin, che infine si ribellerà a lui per passare al “lato oscuro” (…e sotto il nuovo nome di Darth Vader sarà centrale nella trilogia classica). Ci racconta che lo ha colpito molto il fatto che il suo allievo, a cui voleva molto bene e aveva insegnato tanto, cedendo si è ribellato contro di lui, fino a cercare di ucciderlo, e diventare una minaccia poi per l’universo intero.
Non abbiamo trovato la scena in streaming, ma l’immagine che aveva inviato Renato ritraeva in modo molto evocativo quel momento. Gli chiedo di definire con alcune parole chiave i due personaggi e il rapporto che li lega, e in seguito nominare le emozioni che li stavano attraversando. Io scrivo direttamente sulla lavagna su cui era proiettata la foto. Mi dice che Anakin è il prescelto, è tattico, è vulnerabile al lato oscuro, lo caratterizza la tristezza e la sofferenza; Obi One invece è altruista, intelligente, potente nel combattimento con la spada laser. La tensione tra di loro è caratterizzata dalla rottura di una forte amicizia, dal tradimento. Il titolo che Riccardo dà a questa immagine è “Resistenza al male

Attraverso il personaggio di Obi-One Kenobi torna il tema del tradimento. Renato dichiara che è meglio dare meno fiducia possibile alle persone, per ridurre la possibilità di incorrere nella sofferenza del tradimento. Molti annuiscono, è un discorso che mi capita di sentire sempre più spesso dagli adolescenti “quando ero più piccolo davo più fiducia, ora ho capito che è più intelligente non farlo!”. Io azzardo che qualunque relazione è passibile di sofferenza, e si espone al rischio del tradimento, mettersi in sicurezza vuol dire negarsi anche la possibilità della gioia, dell’esperienza vitale. I ragazzi ascoltano con attenzione, sono perplessi e qualcuno incuriosito, per qualcuno sembra che sia la prima volta che si pongono da un punto di vista simile.

Un altro tema che Renato ci tiene a evidenziare è quello che definisce “del bene e del male”; “quanto siamo fragili nel resistere al male! esclama. Ci spiega che Anakin è il prescelto, è molto potente ma anche fragile, è stato tentato dal lato oscuro, e la sua volontà di potere ha prevalso sul bene. E’ proprio su questo che vuole concentrare le proprie domande aperte, la prima rieccheggia la questione portata da Giulio con Obito

Come si resiste al lato oscuro?

mentre nella seconda allarga ulteriormente con una provocazione che smuove molto il gruppo:

Sì… però… cos’è il male? Cos’è il bene?

MEREDITH GRAY

L’ultimo personaggio è Meredith Gray, della nota serie Gray’s Anatomy. La porta Denise che sì è aggiunta al gruppo in un secondo momento, a sessione iniziata, e per questa ragione non aveva scritto niente. Le propongo allora di partire dal video che ci aveva segnalato. Lo guardiamo in silenzio: 4 minuti emotivamente molto forti (è davvero forte, guardatelo se siete in mood che può reggerlo…)

Siamo in ospedale, la protagonista è al capezzale di Derek, il suo compagno, che aveva appena esalato l’ultimo respiro. La musica d’atmosfera sottolinea l’intensità del momento, gli unici movimenti sono quelli dell’infermiera che spegne le macchine a cui era attaccato. Si inseriscono immagini flashback di momenti felici della coppia, per poi tornare al presente quando la protagonista si rivolge al suo uomo esamine con poche e significative parole “E’ tutto ok, puoi andare”. Denise al termine della visione sottolineerà che sono proprio queste parole a colpirla di più. La ragazza non aggiunge altro, è strano vederla così presa, commossa, lei “bad girl” che si mostra sempre distaccata ai limiti della strafottenza.
Romperò io il silenzio aggiungendo che forse da quel momento inizia il suo sforzo per accettare la sua morte, ne riconosce la tragica realtà, e che a me ha colpito quando poco dopo l’infermiera, per poter proseguire con le procedure del caso, le chiede “E’ pronta?” e lei risponde “no, ma continui”. Quel “no, ma continui” forse sottolinea che non si è mai pronti ad accettare situazioni così dolorose, però si può riconoscere la sofferenza e affrontarla, come sta facendo Meredith. Non riesco ad aggiungere altro. Le domande che ci scriviamo sono

Cosa vuol dire morire? Come si affronta la morte di una persona cara?

In questo prezioso e faticoso contributo che ci ha donato Denise si ha avuto l’occasione di tematizzare uno dei principali spettri della contemporaneità, quello della morte. Se nel passato era intesa come naturale parte della vita, e il contatto con la fine, di esseri umani e animali, era esperienza del quotidiano, oggi si tende sempre più a rimuoverla, a nasconderla, è qualcosa di cui è sconveniente parlare, da cui tenere al riparo i più piccoli. Nella società del “progresso infinito” la morte non può essere concepita, è un un bug, un “errore di sistema” da riparare, annullare, e se non ci riusciamo meglio far finta di non vederla. Nel tempo del felicismo (o del “felicismo tossico”) la morte non ha cittadinanza. Eppure ritorna ad agitare sempre più forte i sonni di noi che abbiamo perso gli strumenti per relazionarci con lei.

LA CONDIVISIONE RISONANZE

Al termine di un lavoro come questo può essere utile dedicare uno spazio alle risonanze. La consegna è semplice:

C’è un altro personaggio, oltre il vostro, che per qualsiasi ragione vi è risuonato? Che ha toccato temi interessanti anche per voi?

Nella sessione riportata, ad esempio, il giro di risonanze ha permesso a Laura, per sua scelta, di esplicitare che nella sua vita privata sta vivendo qualcosa riconducibile al tema proposto da Valeria con il personaggio di Harley Queen. Ha condiviso con il gruppo che sta vivendo un momento difficile nella relazione con il suo ragazzo, che definisce “un po’ tossica”. Ci ha raccontato quanto era legata a lui, ma che sentiva fosse il tempo di prendere le distanze perché anche la sofferenza era tanta; non sapeva però se ce l’avrebbe fatta, se era pronta, se avesse trovato la forza. Laura era molto coinvolta emotivamente, conoscendola non mi sarei aspettato che avrebbe condiviso qualcosa di così personale con i compagni. E’ stato un momento importante per lei e per i loro: con Valeria si è instaurata subito una connessione, e in generale si sono percepiti fiducia reciproca, attenzione, ascolto; è stato un ulteriore passo di crescita per il gruppo. Inoltre da quel momento si è potuto approfondire il dialogo personale tra lei e la tutor (presente in quel momento in aula) permettendo un lavoro affiancamento e accompagnamento più aperto e generativo, anche su quel delicato tema.

Le risonanze possono creare “fili” tra componenti del gruppo generando inedite “micro-comunità di sentire”, oppure imporsi nella totalità del gruppo. Nella sessione appena riportata ad esempio è emersa una diffusa risonanza per i temi portati dal personaggio di Joker: la sofferenza intensa che porta a trasfigurarsi e assumere comportamenti distruttivi; il fatto che dietro ad atteggiamenti negativi spesso ci sono storie difficili; l’importanza di essere consapevoli di sé come primo passo per poter affrontare le proprie sofferenze.

Come si è già detto è molto importante essere attenti ai temi che in ogni gruppo emergono; si tratta della bussola che il formatore ha a disposizione per orientare e progettare un lavoro di senso con i ragazzi.

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Perché la musica dei più giovani sta rallentando? Un fenomeno che apre anche a nuovi immaginari educativi

Un tempo era «rock o lento?»: il rock, la velocità, la bandiera dei giovani, il lento invece cosa da vecchi. Oggi, con i «boomer» persi in un vortice di frenesia in cui si perde il senso, le nuove generazioni vogliono tirare il freno. Qualche suggestione musicale e pedagogica (e politica…).

Questo articolo è stato pubblicato originariamente sulla bella rivista digitale delle amiche dell’Unità di Strada InFo.Pusher di Forlì.

(la prima parte è un pò da nerd musicale, concedetemelo…)

Prendere un brano e rallentarlo

Pochi sanno che tra le diverse influenze che hanno dato origine allo stile musicale della trap si annovera la strana abitudine di un dj di Houston, noto come DJ Screw, di suonare celebri dischi hip-hop a velocità rallentata. Con questa pratica, battezzata chopped e screwed, creava un particolare effetto di straniamento, e aveva raggiunto una certa popolarità.

Oggi qualcosa di simile sta avendo molto successo in rete: sempre più giovani si dedicano al cosiddetto slowed n reverb, pratica in cui si rallentano brani musicali – di qualsiasi genere, non solo hip-hop – aggiungendo però anche un riverbero che rende l’effetto «bolla» ancora più forte, generando una particolare atmosfera ovattata.
Cercando su youtube non è difficile imbattersi in centinaia di questi esperimenti, a cui chiunque può contribuire senza neanche rudimenti di editing musicale: c’è un comodo servizio web che lo fa per voi, il link trovate qui. Basta scegliere il brano a cui si vuole operare questo «hack», inserirlo nel portale, e sorprendersi del risultato: se è un pezzo energetico e danzereccio sembrerà posseduto dagli spiriti (Ghosts of my life…?!), se invece l’originale possiede già un’atmosfera soffusa (Lana del Rey? Billie Eilish?) il trip è assicurato. Come copertina si può utilizzare, come fanno in molti, un’immagine malinconica presa dal mondo dell’animazione giapponese.

Atmosfere low-fi per rilassarsi e riflettere

Il connubio tra musica d’atmosfera e immaginario anime raggiunge però il suo apice in un altro genere di grande successo oggi, il cosiddetto low-fi hip-hop, si tratta di brani musicali con la cadenza hip-hop ma solo strumentali, senza il rap, pezzi rilassanti basati su influenze jazz o ambient. Sempre su youtube si trovano diverse webradio che elargiscono selezioni 24 ore su 24 di quella che definiscono «musica per rilassarsi e per studiare….». A giudicare dal numero di ascolti, e dall’esperienza diretta, si tratta di un fenomeno in continua espansione.

il rap-confidenza

Più underground, ma non meno interessante, è quella variante “rappata” del lo-fi hip-hop caratterizzato, oltre che dalla cadenza iper-rallentata, dall’utilizzo minimale, talvolta la scomparsa, della batteria. Vi sareste mai immaginati interi album hip-hop senza un colpo di batteria? Andate and ascoltarvi l’ultimo lavoro di Ka per averne un esempio. Rappers dai nomi sconosciuti ai più (mike, mavi, navy blue…), ma che hanno sempre più seguito nell’underground, su loop che creano stranianti atmosfere, snocciolano le proprie rime affrontando intime riflessioni personali e temi sociali, dall’ansia al razzismo. Il mood è quello di una confidenza ad un amico intimo, o di un pensiero riflessivo che si fa parola, che si fa voce bassa e profonda.

L’emo-trap: il battito lento che accompagna le parole del nuovo disagio

Ma l’elenco della musica di tendenza che si fonda su tempi «al rallentatore» non finisce qui, non possiamo non citare la emo-trap, che riprende, a modo suo, temi nichilsti e disillusi che in passato sono stati patrimonio, in anche molto differente, di gruppi come i Joy Division, Nirvana o Slipknot (so che l’accostamento farà storcere il naso a più di uno). La struttura ritmica è quella della trap, su cui però troviamo chitarre e voci che ricordano molto il grunge, ovviamente radicalmente rallentate, come se Kurt e soci si fossero ingurgitati una extra-dose di Xanax. Non a caso Xanax e marjuana sono le sostanze più citate in questi testi, utilizzate non per ricercare «vite spericolate» ma, coerentemente, come ansiolitici. Lil Peep e XXXTentacion sono gli artisti più rappresentativi di questa corrente, anzi lo erano, dato che entrambi ci hanno lasciato prima di compiere 21 anni.

L’urgenza di respirare

In principio era il rock, i giovani prendevano le distanze dai genitori alzando la velocità. Accelerare era sinonimo di trasgressione, di futuro, di cool (pensiamo al tormentone di Adriano Celentano per cui il mondo è diviso tra rock (il nuovo, vitale) e lento (il vecchio, mortifero). E nella seconda metà del secolo scorso l’accelerazione è sempre aumentata: l’hard rock, l’heavy metal, il punk, l’hardcore, e poi la techno, la jungle e la drum n bass; i bpm (battiti per minuto) continuavano a salire in parallelo con i ritmi della società che lasciavano sempre più senza fiato.

Negli anni ’70 punk ricercava l’ «anima di chi suona» attraverso il rifiuto di ogni tecnicismo, accelerando i riff e alzando la voce che si faceva urlo; oggi invece, nel mondo di Netflix, del binge watching, dello scrolling infinito sui social network, del perpetuo rumore di fondo, della continua richiesta di accelerare ed essere performanti, l’anima i più giovani la ri-cercano nella bassa fedeltà, nelle voci calde e lentamente cadenzate. In opposizione ad un mito del progresso che mostra sempre di più le sue crepe, si impongono ritmi e atmosfere in cui si possono perdere i sensi (la condizione di biancore raccontata da Le Breton, o meglio il «Numb» dei Linkin Park) ma anche, al contrario, riconquistarli; esperienze meditative, in cui si torna a respirare, a riprendere un contatto con sé stessi e con il mondo, e immaginarne uno migliore.

Un conflitto all’altezza dei tempi che viviamo

Logorati (ma non emancipati) dalle raffiche di input del digitale più veloci di quanto si possano rielaborare, i più giovani cercano spazi in controtendenza, in cui la velocità dell’esperienza si riallinea con quella dell’organismo, perché solo così si può sopravvivere.

Si tratta di un fenomeno ancora non sufficientemente tematizzato, e non esente da ambivalenze, ma forse stiamo assistendo a nuove modalità di resistenza da non sottovalutare. Emergono nuovi spazi conflittuali che possono divenire molto importanti in futuro.

Nuove questioni educative

Queste riflessioni possiamo recepirle come curiosità, o come fenomeni interessanti dal punto di vista sociologico, però possiamo anche dargli una particolare attenzione come elementi che possono interrogare il modo in cui conduciamo il nostro lavoro.
Noi, nel campo educativo, della formazione e della cura, come ci posizioniamo rispetto a tutto ciò? Averne consapevolezza può influire sulle nostre pratiche?

Possiamo ad esempio chiederci come intercettiamo queste nuove sensibilità, a che velocità e in che quantità elargiamo i nostri input, quali «spazi rallentati e di intensità», di cui questi ragazzi hanno così urgenza, possiamo allestire con loro.
Siamo in grado (anche nel nostro lavoro on line) di creare setting raccolti, zone franche in cui l’incontro, la confidenza, il silenzio anche, può trovare il suo spazio, oppure anche noi siamo complici (e vittime) del vortice? Quali «hack» possiamo mettere in campo per rallentare gli stimoli, «stare» e tessere senso?
Probabilmente, spinti dalla retorica della «ripartenza», la partita si giocherà sempre più su questo piano: pensiamo solo ai discorsi sulla scuola, in cui la preoccupazione maggiore sembra essere «recuperare il tempo perduto», che non potrà che alimentare nuovo abbandono.
Non è una sfida facile, ma riflettiamoci, e facciamoci trovare pronti.

Per proseguire queste riflessioni potrebbe interessarti…

Quando la trap diventa spazio di incontro generativo

Quale presente? Quale futuro? La musica più indigesta degli adolescenti apre a inaspettate riflessioni

Avevo raccontato ai ragazzi la storia dell’hip-hop attraverso video musicali, era stata una lezione seguita con attenzione. Sebbene si ragionasse principalmente sulla dimensione musicale e storica, avevo come sempre anche portato qualcosa di me, sottolineando quanto alcune canzoni mi avevano segnato, avevano contribuito a dare senso al mio percorso di adolescente, mi avevano dato conforto e voglia di reagire.

Lorenzo, forse proprio ispirato da questi miei frammenti autobiografici, ad un certo punto si alza ed esclama “ce l’ho io un video!” e propone di guardare quello che, secondo lui, non si poteva perdere se si voleva parlare rap «che conta»: 6 A.M. del produttore hip-hop Night Skinny.

Sebbene sapessi bene chi fosse l’artista – avevo avuto modo anche di conoscerlo personalmente perchè aveva prodotto i beats per il mio amico (e grande rapper, e insegnante, e educatore…) Andrea “Mastino” – quel video me l’ero proprio perso.

La parte strumentale è opera dello stesso Night Skinny, mentre quella vocale affidata a Izi e Gue Pequeno; due personaggi, in particolare l’ultimo, su cui ho sempre avuto molte resistenze dati i clichè di cui si compongono spesso le sue canzoni.

Avevamo però un pò di tempo e dico ok a Lorenzo.
I venti minuti successivi sono stati un momento davvero stimolante di riflessione non solo sul rap e la trap, ma in generale sui vissuti degli adolescenti attuali, e sul mondo in cui viviamo.

Guardiamo allora il video insieme, è davvero fatto bene, è realizzato completamente in animazione; per 4 minuti rimaniamo in silenzio e lasciamo che le immagini animate evocative che ci scorrano davanti agli occhi.

Vi consiglio di guardarlo anche voi, poi andate avanti a leggere

Al termine chiedo ai ragazzi di provare a scegliere un’immagine, un fotogramma che gli risuona particolarmente, che sentono come significativo (in genere questa semplice consegna è un buon punto di partenza per lavorare in modo riflessivo ed esperienziale su uno stimolo video).

L’infanzia serena

La prima scena che evidenziano, e sui cui convergono in molti, sono le 7 sfere del drago. Io, che per motivi generazionali, Dragon Ball andrò a guardarmelo solo dopo quel giorno (chiedo scusa al mondo…), non le avevo neanche riconosciute. Mi spiegano che nell’anime ci sono queste 7 sfere (da cui il nome della serie) sparse per il mondo. Chi riesce a trovarle tutte può esprimere un desiderio al drago (che compare anche nel video nel fotogramma successivo) che lo esaudirà. Una volta esaudito le sfere si ridistribuiscono immediatamente in diversi luoghi remoti del pianeta (non pensavo che un lavoro a tema hip-hop ci avrebbe anzitutto portato così in fretta sui lidi della pedagogia nerd).

I ragazzi spiegano che questa scena è importante per loro perché nella vita i desideri sono imprescindibili, ed è stupendo quando si realizzano.
Dopo questa prima dichiarazione parte un momento reverie: si accavallano i ricordi di quando erano bambini, il tempo dell’innocenza in cui erano convinti che il mondo fosse bello e la vita pronta ad esaudire i propri desideri. Collegano questi pensieri ad altre immagini presenti nel video, quelle dello scooter e del Nokia 3310, rievocando il periodo pre-smartphone, evocandolo come il tempo storico dell’autenticità, prima che, sostengono, l’avvento del digitale e dei social network rendesse tutto finto.

La sensazione da accogliere di un futuro minaccioso

E’ interessante come i ragazzi abbiano sottolineato per l’esistenza per loro di due passati mitici: quello dell’infanzia e quello storico, datato quest’ultimo solo un decennio prima, un’ «epoca dell’oro» vista come molto diversa da quella attuale.
I ragazzi oggi spesso associano al tempo presente la perdita di autenticità, e hanno uno sguardo negativo verso il futuro. Se vogliamo capire gli adolescenti di oggi è fondamentale avere la consapevolezza di questo loro vissuto, senza sminuirlo. Si sottolinea come “il mito del progresso” – ancora fortemente radicato nell’immaginario di molti adulti – nelle nuove generazioni sia sempre più labile, se non, come in questo caso, abbia cambiato di segno. La storia non viaggia più in modo lineare verso «il meglio», lo sviluppo tecnologico non è più garanzia di benessere presente e futuro per l’uomo. Un tema che come vedremo, sarà al centro di molte riflessioni stimolate da questo video.

LASCIARSI ANDARE

Interrompo lo scambio di ricordi e nostalgie per i tempi passati e chiedo se qualcuno voleva portare un’altra immagine tratta dal video.
L’insetto morto con intorno le pastiglie! dice Laura. Anche qui in molti annuiscono. Laura dice che da un’idea “di schifo”, di trasandatezza, “come quando una persona lascia andare tutto, perché non ha motivi per vivere“. Racconta che ci sono stati e ci sono tutt’ora momenti vissuti così, e che succede a tanti, l’ha visto anche in amici e parenti. Gli altri annuiscono.
Emerge il tema delle sostanze, di come le utilizzino come un lenitivo, “una sorta di medicina che non ti fa pensare, ti anestetizza ma ti riduce ma poi ti fa diventare apatico“. Un’immagine molto lontana da quella “cool” associata alle droghe che la maggior parte delle volte presentano quando ne parlano. Mi colpisce, si aprono preziosi spiragli di autenticità, da gestire con delicatezza.
Ecco un altro elemento sempre caratterizzante gli adolescenti oggi: le sostanze, più che strumento conviviale di trasgressione, o per farsi viaggi «oltre le porte della percezione», sono sempre più utilizzate come anestetico, come un farmaco ansiolitico, e magari consumate in solitudine.

QUANDO MORIREMO? QUANTO TEMPO MANCA?

La terza immagine che emerge dal gruppo è il fantasma che balla in una piazza Duomo di Milano in rovina, in un efficace remix visivo di Betty Boop Snow White di Max Fleischer.
Ritorna ancora il parallelismo tra la decadenza individuale a quella storico-sociale. “La civiltà sta finendo in fondo al mare” dice Lorenzo!

Quando moriremo?” si chiede Luca “E per cosa? Sarà per il riscaldamento globale, per le guerre… Quanto tempo manca?
La domanda riverbera tra i ragazzi quando Lorenzo incalza: “La verità in questo video è quando si vede la pantera sulla Lamborghini distrutta: la natura è più importante della ricchezza, alla fine vincerà la natura, la ricchezza dura poco, vale poco

L’immagine è davvero forte, e in un attimo stravolge tutti gli stereotipi monodimensionali della trap e della lettura spesso superficiale che ne fanno gli adulti.
Un anno prima aveva riscosso grande successo la canzone «Lamborghini» di Guè Pequeno insieme a Sfera Ebbasta, lo stesso che canta una delle due strofe del pezzo su cui stiamo riflettendo.
In quella canzone, uno degli inni della trap tricolore, Guè dichiarava: “oggi mi sposo con i money, i soldi per me sono dio”. In 6.A.M. invece la stessa Lamborghini è andata a schiantarsi, e una pantera nera cammina sopra la carcassa.

Il doppio sogno

Proponendo qualche tempo dopo ad un gruppo di educatori il video «Lamborghini» insieme a «6 a.m.», proprio per discutere di questi temi, è emersa una riflessione molto interessante. Un collega ha condiviso come, posto di fronte a questi due stimoli, gli fosse parso di aver assistito ad un «doppio sogno».
Lamborghini, di Gue Pequeno e Sfera Ebbasta rappresenta la dimensione diurna, racconta la superficie, rappresenta la narrazione che spesso (con nostro disappunto) ci restituiscono i ragazzi.
Il video di 6.a.m. è invece la sua controparte notturna, il sogno, o meglio l’incubo, che rappresenta l’indicibile, la voragine, ciò che (anche dalla trap) si percpisce ma non è confidabile nemmeno a se stessi, pena la destabilizzazione (qualcosa che forse ha a che fare con il concetto lacaniano di reale?).

Il giorno è «la narrazione della trap»: ciò che conta nella vita è il denaro, il sesso predatorio, essere vincenti senza scrupoli, «farcela» in modo da essere ammirati e temuti. E’ il copione “diurno” che si dispiega nei discorsi in gruppo dei ragazzi: “è così la vita fra..” ci dicono, quando proviamo ad obiettare.

Il video 6 a.m. apre invece ci dice cosa c’è sotto a questo racconto: sappiamo inconsciamente che tutto ciò non ci porterà a essere felici, a stare bene, è solo il gioco che ci sentiamo obbligati a giocare. In realtà questo ci può portare all’annientamento, nostro e del pianeta.
Ci dice anche che i ragazzi (e molti tra gli artisti stessi), più o meno consapevolmente, lo avvertono, e lo soffrono.
Al di là infatti di 6.A.M. in cui questo «svelamento» è molto esplicito, in diverse canzoni trap troviamo un verso, nascosto da qualche parte nel testo, in cui si riconosce l’illusorietà di tutto questo immaginario, la consapevolezza della dimensione distruttiva di questo racconto a cui, si dice, non ci sono alternative (e quindi tanto vale abbracciarlo, ed esaltarlo).

La trap come volto senza veli del racconto della nostra società

Noi adulti spesso ci poniamo nei confronti di questa iconografia, in modo scandalizzato e moralistico, con l’urgenza di allontanare i ragazzi da rappresentazioni cariche di dis-valori. Forse però molti di questi elementi negativi – il mito del successo personale, l’individualismo, l’esaltazione del lavoro che conferisce status, denaro e potere – sono semplicemente la narrazione prevalente della società che abitiamo, non della trap, una narrazione che in certi suoi elementi talvolta anche la scuola e i servizi educativi strizzano l’occhio. I testi di cui parliamo hanno solo il pregio/difetto di estremizzare tutto ciò, di amplificarlo, di presentare esplicitamente il suo vero volto, che è rivoltante, ce lo mostrano come «il pasto nudo sulla forchetta», come direbbe William Borroughs.
E se fosse proprio «stare», esplorare questa realtà insieme senza aver paura di reggerne lo sguardo, un punto di partenza per affrontarlo educativamente? Può essere utile esplicitare anche le nostre fragilità e senso di impotenza, invece che subito invitare a «pensare positivo»? 

LA DONNA CHE PIANGE

Tornando al lavoro in aula, a questo punto sembrava che di riflessioni ne fossero emerse già tante e molto significative e che si poteva andare verso la conclusione, quando ancora Lorenzo, con il solito tono di chi la sa lunga, alza la mano: “si, va bene tutto questo, ma c’è un’immagine che è più importante di tutte le altre, e non è nel video: è la copertina della canzone”
La cosa mi incuriosisce molto, la cerco in rete, la trovo facilmente e la proietto.

Rappresenta una donna, ben truccata, con una sigaretta tra le dita; strani segni dagli occhi le attraversano le guance, lacrime stilizzate.

Decido allora di utilizzare la tecnica dell’ “esplosione della storia”: quando stiamo lavorando su un’immagine o un video in cui c’è qualche personaggio che colpisce in modo particolare, ma di cui si hanno poche informazioni, un buono strumento per facilitare l’approfondimento riflessivo è quello di provare a narrare la sua storia, inventandola a partire dalle proprie risonanze.
Chiedo allora a Lorenzo di raccontarmi, attraverso la sua immaginazione, chi è quella donna.

Lorenzo inizia senza esitazioni a «illuminarci»: “Si capisce che quella che sta fumando non è una sigaretta normale. Vedi quei puntini? È cocaina. È un’immagine perfetta per le sei di mattina: lei è andata a ballare, si è fatta di ogni cosa, ha appena scopato con uno sconosciuto. Ora piange perché ha paura di essere rimasta incinta”

IL PRESCELTO CI SALVERA’

Mi colpisce la sicurezza con cui Lorenzo racconta la storia. Un pò per stimolare la riflessione, un pò perchè io personalmente curioso, gli chiedo se è davvero incinta, e se in caso terrà il bambino:
“Si, è incinta e questo bambino nascerà”
“E ci sai dire qualcosa di questa creatura?”
“Il figlio che nascerà sarà un illuminato: non porterà le colpe della madre e salverà il mondo, dichiara il ragazzo con perfetto tono da profeta”

Finisce così la storia e finisce il tempo che avevamo a disposizione.

UNO SPAZIO DI AUTENTICITA’ DA ATTRAVERSARE CON SENSIBILITA’

Questo video ha aperto uno spazio di riflessione davvero ampio, per loro, per me.
E’ stato occasione di dialogo autentico tra noi, il video è stato l’oggetto mediatore che lo ha reso possibile, ogni volta che questo accade penso quanto sia importante prendersi del tempo per questo tipo di attività, e quanto sia importante sospendere il giudizio e lasciarsi attraversare e magari sorprendere.

I ragazzi attraverso le immagini hanno raccontato momenti sereni della loro infanzia, e hanno tematizzato il disincanto per il progresso e il timore per il futuro, il fatto che nella loro esperienza che non possiamo liquidare con facilità, oltre il ricordo malinconico del passato (biografico e storico), restano solo due alternative: seguire le parole d’ordine imperanti nella società fino al baratro, facendo finta che questa menzogna sia vera, oppure riconoscerne la tragicità, ma ammettendo allo stesso tempo anche la propria impotenza.

E IL FUTURO?

In tutto ciò però il futuro non è completamente scomparso, c’è ancora spazio per essere citato dai ragazzi, ma è una luce in lontananza, una speranza ancora viva ma non ritenuta a portata di mano. Il futuro più vicino è invece un futuro-catastrofe, una catastrofe che però è in qualche modo catartica, è l’unica cosa che può rimettere le cose al loro posto: la pantera che cammina sulla Lamborghini distrutta, in un panorama in cui l’uomo non si vede più, forse si è estinto, o forse è rifugiato e ha voglia di ri-inventarsi in un modo realmente e radicalmente diverso.

Molti adolescenti di oggi (certo non tutti) sentono che la loro generazione è già politicamente persa, già troppo invischiata in logiche mortifere, troppo deboli i legami e troppo in loop vittima di algoritmi efficacissimi.
La speranza allora è che sarà qualcun altro a portare il nuovo (interessante notare come il cambiamento non sia concepito come risultato di una lotta collettiva ma dell’intervento di un singolo salvatore, «il prescelto»).

I più giovani, soprattutto quelli più sensibili, portano il peso di un’impotenza che non va minimizzata, ridimensionata, “basta lottare tutti insieme, cosa ci vuole? vuoi nuove generazioni siete dei rammolliti, guarda ai nostri tempi!“. Per quanto controintuitivo forse è importante imparare a sostare anche noi in questo senso di impotenza che caratterizza la nostra epoca, che per molti versi è un pò anche nostro, ma non abbiamo il coraggio di ammetterlo (noi ce la caviamo dicendo che tocca a loro, che noi siamo troppo occupati, rivelando la nostra essenza di cronofrettici, usando il bel neologismo di Vincenza Pellegrino). Forse abbiamo proprio bisogno di tempo, per ascoltare la sofferenza della frenesia e dell’impotenza, e poi cominciare a tessere alleanze, ricreare nuove comunità con nuove parole d’ordine, provare a inventare nuovi racconti. E forse dobbiamo farlo con loro, incontrandoci in modo autentico senza giudicarci, come è accaduto quella mattina a scuola, a partire da un video trap.

Gli adolescenti cercano spazi di vuoto e intensità (a ritmo di blues)

Dal soggetto di un video musicale scritto in modalità partecipativa emerge il desiderio di rallentare e di incontro autentico (ora più che mai)

Ecco fuori dal cassetto il racconto di un’attività fatta con i ragazzi in tempi “pre-covid”, ma che non perde oggi la sua attualità, anzi. In un’epoca di legami deboli e di iperstimolazione, che con la pandemia si sono trasformati in isolamento e sovraesposizione ai dispositivi digitali, i ragazzi cercano spazi dove il ritmo rallenta, e alla base c’è la qualità della relazione. 
E noi educatori/formatori/insegnanti come ci poniamo?

L’idea di Filippo Corbetta, regista e amico, era semplice e forte: raccontare nel videoclip a cui stava lavorando la fuga di due ragazze adolescenti dalle aziende in cui erano in stage. Una sorta di Thelma e Luise dei giorni nostri: la prima ruba il furgone dell’azienda in cui è ospitata, va a recuperare la seconda che – all’inizio un pò titubante – sale a bordo, e insieme fuggono via.

La questione centrale per la stesura del copione era a questo punto capire dove sarebbero potute andare. Filippo aveva qualche idea ma era convinto che chiedere direttamente ad adolescenti della stessa età delle protagoniste sarebbe stato molto interessante e più realistico.
Concordiamo allora una data in cui sarebbe venuto a trovarci all’Anno Unico per discuterne con i ragazzi.

OGNI INCONTRO E’ PREZIOSO

Il giovane regista si siede così tra di noi in classe un giovedì mattina.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento decidiamo, come sempre accade quando abbiamo ospiti, di chiedergli di raccontarci la sua storia. In un mondo difficile da decodificare come il nostro ascoltare storie di vita, soprattutto di chi non ha molti anni più dei ragazzi, è sempre preziosissimo. In particolare era interessante ascoltare la storia di una persona che per passione ha scelto la professione di filmmaker, consapevole della difficoltà di portare avanti il proprio progetto. Gli stimoli di riflessione emersi in poco tempo sono stati moltissimi: cosa vuol dire vivere di “arte”, la precarietà, le soddisfazioni, i compromessi, i momenti di sconforto, i viaggi, la necessità di imparare a mediare tra le richieste del committente e la propria ricerca artistica e tanto altro.

ALLA RICERCA DI IDEE PER IL VIDEO

Chiusa questa parte abbiamo avviato il “focus group” per la raccolta di idee per la sceneggiatura del video. I ragazzi all’inizio erano un pò reticenti, come è giusto quando si incontra una persona nuova, in breve tempo però la discussione si è animata.

La domanda di partenza è quindi stata “dove andresti con una tua amica/o se aveste un furgone a vostra disposizione?”

Se qualcuno tra i lettori ha immaginato che i ragazzi avrebbero risposto “a fare shopping”, “a divertirsi, a spaccarsi!” non conosce bene i “nuovi” adolescenti. Certo, tra le tante idee all’inizio sono emerse anche questo tipo di proposte, ma quella che infine ha prevalso è stata ben diversa.

ALLA RICERCA DI SPAZI DI VUOTO E INCONTRO

Quello che maggiormente emerge dai suggerimenti dei ragazzi non è stata una meta ricca di stimoli, di rumore, di persone, ma uno spazio di tranquillità, di intimità, di vuoto:

In riva al mare la sera!
in una fabbrica abbandonata!
a parlare,
a fumare una sigaretta con calma… al tramonto…

 ci dicono

si è imposta la ricerca di uno spazio sereno, “notturno”, al riparo dalla frenesia del quotidiano.
Passa quindi l’idea della fabbrica abbandonata.

OGNI POSTO TRANQUILLO NON E’ MAI TRANQUILLO

Barbara prima si lascia cullare dall’idea che i protagonisti guadagnino la propria tanto ambita tranquillità, ma poi rimane pensierosa; rialza lo sguardo dicendo agli altri che nella realtà non si può mai stare tranquilli, c’è sempre qualcuno che mette i bastoni tra le ruote. Propone allora che ad un certo punto spuntino fuori dei bulli, maschioni seducenti, che si riveleranno poi personaggi senza scrupoli che cercavano solo di “divertirsi” con le due ragazze. Ribadisce che questo è un mondo dove le persone sono false e non ci si può fidare di nessuno, ognuno segue il suo interesse, che le ragazze vengono cercate solo se “la danno”. Gli altri, in particolare le ragazze, annuiscono, è un momento importante di solidarietà femminile, e un chiaro messaggio ai maschi.
Insieme propongono a Pippo che nel video le ragazze trovano la forza di dire “NO”, allontanare gli aggressori e ritrovare la loro pace. Una proposta scenica che, recitata nel video, avrà una certa forza simbolica.

… E NE E’ NATO UN VIDEO DAVVERO BELLO

I suggerimenti dei ragazzi, filtrati e ri-interpretati dalla sensibilità e dalla capacità tecnica del regista (nonchè dalla bravura delle attrici) hanno portato alla creazione di un video veramente bello, che ha anche vinto diversi premi. Lo potete vedere qui sotto.
Quando è uscito, diverso tempo dopo la mattinata appena raccontata, lo abbiamo visto insieme in classe, rievocando le nostre riflessioni, integrando con nuovi spunti dati dalla visione.
In un ottica freiriana si è trattato di interrogarsi, “problematizzare” a partire da un determinato tema che risuona nel gruppo e “codificarle” in un prodotto artistico che aiuti a portare ulteriori elementi inediti di riflessione.

Per noi formatori è stato sicuramente un tassello in più per conoscere meglio i nostri ragazzi, questi adolescenti della generazione sovrastimolata, dell’individualismo estremo (dell’isolamento…), che come desiderio hanno spazi di vuoto, di serenità, di incontro intimo e autentico.


Qui trovate tante altre cose interessanti sul suo lavoro di Filippo Corbetta

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